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Economia

Il crollo economico dell’Italia continua: «necessario rifondare l’IRI» e «reindustrializzare». Parla il prof. Pagliaro

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Crollo della produzione industriale: con il mese di gennaio sono ventiquattro i mesi consecutivi di calo della produzione delle industrie nazionali, culminati a dicembre con il calo del 7,1%. Consumi energetici ai minimi. Oltre 3 mila miliardi di debito pubblico. E, soprattutto, all’orizzonte, non è visibile nessuna proposta, idea, o strategia non diciamo del governo, ma perfino a dei cosiddetti «corpi intermedi» della società di cui parlava un tempo la sociologia cattolica: non un convegno, o un dibattito sui giornali o in TV. Siamo dunque tornati, come sempre, a sentire il professor Mario Pagliaro, il chimico del CNR ed accademico europeo, tra i maggiori esperti di solare in Italia, come visibile nel suo libro del 2019 Helionomics. Il professor Pagliaro sul temi dell’energia e della rinascita industriale dell’Italia ha scritto molto trovando Renovatio 21 ad intervistarlo, negli anni, ad abundantiam. Ora «il cambiamento», ci dice lo scienziato siciliano, «è già iniziato».

 

Professor Pagliaro, lei è stato fra i primi a sostenere la necessità di rifondare l’IRI. È passato un anno, e in Italia è collassata la produzione di autoveicoli. Dopo il crollo del 37% nel 2024, con meno di 500mila veicoli prodotti, è appena arrivato il dato relativo a gennaio quando la produzione nazionale di autovetture si è fermata ad appena 10.800 unità, in calo del 63,4% rispetto a gennaio 2024. Come si esce da questa situazione?

Prendendone atto. E ricostituendo adesso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale che fu anche, con Alfa Romeo, un grande produttore di autoveicoli di altissimo livello, come l’Alfasud, prodotte in grande numero. Solo l’Alfasud fu prodotta a Napoli in oltre 1 milione di unità in soli 12 anni, fra il 1972 e il 1984. L’alternativa – ovvero ignorare i fatti concreti relativi alla produzione industriale e ai consumi energetici, affidandosi alle fallimentari idee del liberismo economico – sarebbe la fine dell’Italia come Paese industriale. In senso letterale: perché una volta usciti da un settore industriale ad alto contenuto tecnologico e intensità di investimenti, come avvenne con la chimica italiana a partire dal 1993, poi diventa impossibile rientrarvi. Si viene sostituiti dai grandi produttori esteri.

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E lei vede i primi segni di cambiamento, con il ritorno dello Stato nell’economia?

Certo. Le novità sono molteplici e vanno tutte nella direzione auspicata: Cassa Depositi e Prestiti (CDP) ha presentato poche settimane fa per il triennio 2025-27 un piano di investimenti da 81 miliardi di euro a favore di imprese, infrastrutture e pubblica amministrazione. La Cassa ha anche ampliato la sua presenza su tutto il territorio, grazie alla trasformazione dei sei uffici Milano, Verona, Bologna, Napoli, Roma e Palermo in uffici a valenza macroregionale di coordinamento allo sviuppo del territorio. Non molti sanno che CDP ha un’importante divisione Infrastrutture che sta finanziando progetti di grande rilevanza socio-economica, fra cui ad esempio la nuova linea ferroviaria Palermo-Catania, o la terza corsia dell’autostrada A4 Venezia-Trieste.

 

Lei pensa che CDP possa evolvere in una sorta di nuova IRI?

Saranno i tempi a dircelo. E lo faranno rapidamente, a causa del veloce deterioramento della situazione delle relazioni internazionali in corso dal 2022 e alla crisi industriale cui lei faceva riferimento con i dati degli ultimi 24 mesi. IRI fu fondata nel 1933 dal governo come società finanziaria per nazionalizzare le banche private messe in crisi dalla mancata restituzione degli ingenti prestiti fatti alle grandi imprese italiane dell’epoca, travolte dalla crisi economica post-1929. In pochi anni, però IRI si trovò costretta a rilevare buona parte di quelle grandi aziende private. L’Italia divenne così, di fatto, un Paese socialista in cui la grande impresa e il credito erano in mano allo Stato. Lo resterà, con enorme successo, fino al 1992. A mio avviso, un secolo dopo ci sono tutte le condizioni perché lo Stato torni ad assumere un ruolo centrale nell’economia, come fece dopo il 1933.

 

Quali sono gli altri segnali di cambiamento verso il ritorno allo Stato nella produzione che intravede?

Sono ormai palesi a tutti. Pochi giorni fa l’ex capo del governo ha sottolineato l’esigenza di sviluppare la domanda interna, investire nelle infrastrutture, e in ricerca, e mettere fine alle politiche di austerità basate sui salari bassi come strumento di concorrenza. In Italia come in Germania è ormai chiaro che i 30 anni di politiche mercantiliste mirate a realizzare ogni anno enormi surplus della bilancia commerciale sono conclusi per sempre. Si è trattato di un breve periodo dovuto ad una situazione internazionale unica, con la dissoluzione dell’URSS, e l’emergere della Cina come grande Paese manifatturiero, in cui la Cina svolgeva nei confronti delle imprese italiane un ruolo analogo a quello di IRI.

 

La Cina ha svolto in Italia un ruolo analogo a quello dell’IRI?

Certo. E non solo nei confronti dell’Italia, ma di tutte le maggiori economie in Europa e in Nordamerica. Cosa facevano le grandi aziende di IRI e in generale dello Stato come ENI nei confronti delle imprese private italiane? Dall’acciaio, al cemento, al vetro, ai prodotti chimici di base, le rifornivano di semi-lavorati e commodities a basso costo che poi le piccole e medie aziende assemblavano in prodotti ad alto valore aggiunto aggiungendovi l’ingegno e il gusto italiano. Dall’avvio della globalizzazione, che non casualmente coincide con gli anni successivi al crollo dell’URSS nel 1991, il ruolo dell’IRI è stato sostituito dalle importazioni a basso costo di semi-lavorati e commodities dalla Cina. E questo tanto in Italia che in tutti i Paesi europei. Da molti anni in tutta Europa non esiste più una sola fabbrica che produca paracetamolo. Per anni è stato molto più conveniente importare questo ed altri ingredienti farmaceutici in Europa, e poi formularli – cioè «assemblarli» – nei vari farmaci commerciali. Ora, questo sistema, è finito. Tanto i Paesi europei, che il Giappone, e i Paesi del Nordamerica hanno compreso che si tratta di produzioni di importanza cruciale che devono tornare lì dove nacquero. 

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E ci sono Paesi che già lo stanno facendo, ad esempio in Europa?

Certo. E lo stanno facendo esattamente con l’intervento diretto dello Stato nell’economia. L’Austria, ad esempio, ha rimpatriato la produzione di amoxicillina e altre penicilline finanziando con decine di milioni di euro l’ampliamento di un grande e moderno impianto in Tirolo. Gli esempi sono tantissimi. L’Italia nel 2023 ha stabilito che le imprese che rimpatriano fabbriche unità produttive avranno tasse dimezzate per 6 anni. Il varo dei dazi da parte della nuova amministrazione statunitense non farà che accelerare il processo: tutti i Paesi europei sono chiamati ad un processo di profonda reindustrializzazione che durerà molti anni. E che in Italia a mio avviso porterà alla ricostituzione dell’IRI, magari con un altro nome, e ad una duratura rinascita del Paese, sia economica che sociale. Mettendo fine, ad esempio, al crollo demografico. Non sarà semplice, specialmente all’inizio, ma il processo è già avviato. E mi lasci aggiungere una cosa.

 

Prego.

Un grande contributo alla rinascita italiana lo darà la grande diaspora italiana che nei 30 anni dell’austerità mercantilista (1992-2022) sono stati costretti a lasciare l’Italia. Con la reindustrializzazione e il ritorno dello Stato nell’economia, molti di loro torneranno a vivere e a lavorare in Italia. 

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Economia

Crolla il Bitcoin, 400 miliardi di dollari cancellati dalle criptovalute

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Il prezzo del Bitcoin ha proseguito il calo venerdì, dopo aver sfiorato il record storico a ottobre. La principale criptovaluta mondiale ha registrato un minimo sotto gli 82.000 dollari venerdì, allineandosi ai livelli di aprile, a fronte del superamento dei 126.000 dollari solo poche settimane prima.   In sole 24 ore, il Bitcoin ha perso il 10% del suo valore. Secondo Bloomberg, il Bitcoin è ora diretto verso il suo peggior mese dal giugno 2022, periodo definito «catastrofico» per l’intero settore delle criptovalute.   Nell’ultima settimana, la capitalizzazione complessiva di tutte le criptovalute è scivolata di quasi 400 miliardi di dollari, fermandosi intorno ai 3 trilioni.   «Il Bitcoin, posizionato all’estremo alto dello spettro di rischio, ha prolungato una sequenza di ribassi iniziata a fine ottobre. Se gli investitori stanno perdendo fiducia nei titoli tech, figuriamoci nelle speculazioni sulle cripto», ha dichiarato a Forbes Dan Coatsworth, responsabile dei mercati di AJ Bell.

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«Inoltre, non ha giovato l’incertezza su cosa deciderà la Federal Reserve riguardo ai tassi d’interesse. I segnali contrastanti dei policymaker hanno lasciato i mercati nel dubbio su un possibile taglio il prossimo mese. Ora la probabilità di stallo a dicembre è al 67%, contro il 98% di un mese fa per un ridimensionamento di un quarto di punto».   Come riportato da Renovatio 21, due mesi fa il Bitconio era giunto ad una quotazione record di 125 mila dollari cadauno. Analisti avevano previsto ora un nuovo massimo di 200.000 dollari entro la fine dell’anno.   Come riportato da Renovatio 21, a luglio l’azienda di media e tecnologia del presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva acquisito circa 2 miliardi di dollari in Bitcoin e asset correlati, sottolineando la svolta accelerata della sua amministrazione verso le criptovalute.   Come riportato da Renovatio 21, il 7 marzo, il presidente Trump aveva convocato un «Crypto Summit» presso la Sala da Pranzo di Stato della Casa Bianca, dove ha parlato di un’«azione storica» ​per promuovere le criptovalute.   Il presidente ha nominato l’investitore di venture capital David Sacks come zar dell’Intelligenza Artificiale e delle criptovalute degli Stati Uniti, affidando la politica in questo settore a un sostenitore delle criptovalute. Il pensiero attualmente prevalente a Washington sembra essere di favore nei confronti delle crypto – questo a differenza dei tempi dell’amministrazione Biden, che da subito aveva invece annunciato un giro di vite sul settore.   I figli di Trump erano con il vicepresidente JD Vance ad una convention sul Bitcoin a Las Vegas poche settimane fa.

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Economia

Orban: il conflitto in Ucraina sta uccidendo l’economia dell’UE

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L’Unione Europea deve perseguire una via diplomatica per risolvere il conflitto ucraino, poiché il protrarsi degli stanziamenti a Kiev sta erodendo l’economia del blocco, ha dichiarato il premier ungherese Viktor Orban.

 

È «semplicemente assurdo» destinare ulteriori risorse all’Ucraina dopo che l’UE ha già «sperperato» 185 miliardi di euro per sorreggere l’esecutivo di Volodymyr Zelens’kyj dall’acutizzazione dello scontro tra Mosca e Kiev nel febbraio 2022, ha affermato Orban al giornalista tedesco Mathias Döpfner nel suo podcast MDMEETS domenica.

 

«Il nocciolo della questione è che questa guerra sta strangolando economicamente l’UE… Stiamo sovvenzionando un Paese [l’Ucraina, ndr] privo di chance di prevalere nel conflitto, mentre imperversa un elevato tasso di corruzione e non disponiamo di fondi per rivitalizzare l’economia dell’UE, che patisce gravemente la scarsa competitività», ha proseguito.

 

I vertici delle nazioni del blocco «si ingannano del tutto» persistendo nel conflitto nella vana aspettativa che «le dinamiche al fronte migliorino e si creino condizioni più propizie per i colloqui», ha insistito il capo del governo. «Le circostanze e il timing favoriscono i russi più di noi», ha chiosato.

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Orban, il cui esecutivo è tra i pochi nell’UE ad aver negato aiuti militari a Kiev, ha rinnovato l’invito al blocco a intraprendere un dialogo con la Russia.

 

Una pace potrebbe essere «a portata di mano» se Bruxelles si allineasse agli sforzi del presidente statunitense Donald Trump per interrompere le ostilità tra Mosca e Kiev, ha ipotizzato.

 

«Apriamo un canale di dialogo autonomo con la Russia… Consentiamo agli americani di trattare con i russi, quindi anche gli europei dovrebbero negoziare con Mosca e verificare se possiamo armonizzare le posizioni americana ed europea», ha suggerito l’Orban.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso Orban ha dichiarato che Bruxelles vuole la guerra per imporre un debito comune e prendersi ancor più potere.

 

«Bruxelles vuole la guerra per imporre un debito comune e acquisire più potere, privando di competenze gli Stati membri» ha scritto il premier magiaro su X. «L’industria bellica vuole la guerra per profitto. Nel frattempo, potenti lobby vogliono sfruttare la guerra per espandere la propria influenza. Alla fine, ognuno cerca di cucinare il proprio pasto su questo fuoco».

 

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Come riportato da Renovatio 21, Orban in questi mesi sta aumentando i suoi allarmi. Poche ore fa aveva parlato dei leader UE «che vogliono andare in guerra» contro Mosca, promettendo di combattere i «burocrati guerrafondai» di Bruxelles.

 

Orban crede altresì che l’Europa potrebbe essere diretta verso il collasso, schiacciata dal piano di bilancio UE.

 

Il ministro degli Esteri magiaro Pietro Szijjarto ha dichiarato ad agosto che l’Unione Europea sta tentando di rovesciare i governi di Ungheria, Slovacchia e Serbia perché danno priorità agli interessi nazionali rispetto all’allineamento con Bruxelles.

 

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Economia

Funzionari americani al lavoro per monopolizzare il mercato energetico dell’UE

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Gli Stati Uniti stanno agendo per espellere l’energia russa dal mercato dell’Unione Europea, collocandosi strategicamente per riempire il vuoto creatosi, ha indicato venerdì il Financial Times.   Sempre secondo il quotidiano, Washington ha ostacolato di proposito un’offerta del gruppo svedese Gunvor per rilevare le attività estere del gigante petrolifero russo Lukoil.   Gunvor ha abbandonato la propria proposta da 22 miliardi di dollari dopo che i funzionari americani hanno accusato l’azienda di fungere da «burattino del Cremlino». All’inizio di novembre, il Tesoro statunitense aveva ammonito in un post su X che la società «non avrebbe mai ottenuto la licenza per operare e generare profitti» qualora avesse proseguito nell’affare.   La potenziale cessione è venuta alla luce in seguito all’imposizione di nuove sanzioni da parte del presidente Donald Trump su Lukoil e su un altro colosso petrolifero russo, Rosneft, spingendo la prima a individuare potenziali compratori per le sue quote all’estero.   L’offerta è stata resa nota mentre «funzionari statunitensi compivano visite in Europa nell’ambito di iniziative per promuovere l’energia americana ed eliminare ‘ogni ultima molecola’ di gas russo dal continente», ha scritto il *Financial Times*. La scelta di bloccare l’intesa è giunta «dai vertici del Tesoro», ha riferito il giornale, citando due fonti informate sui fatti.

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In seguito, Washington ha emesso una licenza generale che autorizza altri contendenti a rilevare le attività internazionali di Lukoil, come indicato dal Financial Times. Una società di private equity americana, Carlyle, ha manifestato interesse questa settimana, secondo il rapporto.   Venerdì Lukoil ha confermato soltanto di essere impegnata in «trattative in corso per la vendita delle sue attività internazionali con vari potenziali acquirenti», senza tuttavia specificarne i nomi.   I rappresentanti statunitensi hanno espresso esplicitamente la volontà di rimpiazzare la Russia nel mercato energetico dell’UE. A settembre il segretario all’Energia Chris Wright ha dichiarato che gli USA erano preparati «a sostituire tutto il gas russo diretto in Europa e tutti i derivati raffinati russi dal petrolio».   Il Cremlino ha deplorato le sanzioni qualificandole come un «passo ostile», ma ha ribadito l’intenzione di perseguire «rapporti positivi con tutti i Paesi, inclusi gli Stati Uniti».   Le misure restrittive su Lukoil stanno già impattando sull’Europa. All’inizio di novembre, la Bulgaria ha tagliato le esportazioni di carburante verso gli altri Stati UE per timori legati agli approvvigionamenti. Lukoil controlla la principale raffineria del Paese, oltre 200 stazioni di servizio e una vasta rete di trasporto di combustibili.     Come riportato da Renovatio 21gli USA dopo l’inizio del conflitto ucraino la distruzione del Nord Stream ora il principale fornitore di gas dell’Europa, venduto ad un prezzo follemente più alto di quello russo, perché, invece che con il gasdotto, ce lo fa arrivare via nave, quindi con costi e tempi aggiuntivi, più tutta la questione della rigassificazione, che ha costretto l’Italia, che non ha un numero adeguato di strutture di questo tipo, ad acquistare navi rigassificatrici galleggianti come la Golar Tundra giunta a Piombino.   Nel frattempo, per effetto delle sanzioni, Mosca ha aperto nuovi canali di distribuzione del gas, iniziando a distribuire la risorsa anche in Paesi come il Pakistan e programmando nuove rotte, come in Turchia, dove si vuole costruire un hub gasiero. Gasdotti di nuovo tipo sono stati invece finalizzati in Cina.    

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