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Mons. Lefebvre e i vescovi: osservazioni tecniche sulle consacrazioni senza mandato e lo stato di necessità

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Renovatio 21 pubblica questo articolo comparso su FSSPX.news, sito di attualità della Fraternità San Pio X, in merito agli attacchi ricevuti recentemente dalla FSSPX da parte di un sito di matrice ciellina. Renovatio 21 aveva già pubblicato una risposta della Fraternità e un saggio scritto da Don Mauro Tranquillo nel 2013 che, con largo anticipo, rispondeva ai punti dell’aggressione bussolina, anche perché si tratta sempre delle solite questioni, e quando d’improvviso riemergono, come in queste settimane, ci sarebbe, per prima cosa, da domandarsi il perché.

 

 

La Nuova Bussola Quotidiana ha dedicato alle consacrazioni episcopali del 1988 e alla situazione della Fraternità San Pio X una serie di articoli, con argomenti in realtà già molte volte confutati, che però a qualche lettore avranno potuto sembrare inediti. Dedichiamo qui una risposta «tecnica» ad alcune di queste osservazioni, rimandando poi a studi più completi.

 

 

La consacrazione episcopale contro la volontà del Papa è sempre uno scisma?

Cominciamo a chiarire quello che la Bussola, seguendo i suoi maestri, confonde. Citando due documenti papali «preconciliari» (che a breve esamineremo) essi sostengono non solo che il Papa ha in esclusiva e per diritto divino il potere di conferire la giurisdizione (1) episcopale (e infatti, come essi stessi ammettono, Mons. Lefebvre non pretese mai usurpare tale prerogativa), ma avrebbe anche per diritto divino il potere di designare in esclusiva i candidati a un’ordinazione episcopale, in qualsiasi caso. (2)

 

Secondo la Bussola, che qui riprende in parte la dottrina conciliare sull’episcopato ed in parte le teorie dei Padri Bisig e de Blignières (3), sarebbe impossibile separare il potere sacro dell’Ordine episcopale dal potere di governo, cosicché ordinare un vescovo senza consenso papale (anche escludendo la pretesa di assegnargli un potere di governo) sarebbe sempre uno scisma. Tale tesi è semplicemente contraria alla dottrina insegnata dalla Chiesa fino al Vaticano II, che separa nettamente l’origine del potere dell’ordine episcopale da quella del potere di governo (4). Per i Papi fino a Pio XII (5), la consacrazione episcopale da sola non può produrre alcun potere di governo.

 

La Chiesa, a differenza della Bussola, non ha mai del resto confuso lo scisma con la consacrazione episcopale senza mandato pontificio. Consideriamo qui il diritto canonico, visto nella sua natura magisteriale: esso è infallibile nel senso che non potrà mai esprimere qualcosa che vada contro il dogma, quindi è locus theologicus, come noi ben sappiamo malgrado le insinuazioni della Bussola.

 

Ebbene, il diritto ha sempre distinto le pene per il peccato di scisma dalle pene per la consacrazione episcopale fatta senza mandato apostolico. Se lo scisma è sempre stato punito di scomunica, la consacrazione episcopale fino a Pio XII era punita di una semplice sospensione a divinis (cfr. la vecchia redazione del canone 2370 [6], che tra l’altro addolciva la stessa sospensione con l’inciso «fino a che la Santa Sede li dispensi»).

 

Tale atto non era visto come quella sorta di «trauma ecclesiologico» descritto dalla Bussola, ma come un delitto nell’amministrazione dei Sacramenti. Infatti il titolo XVI della terza parte del codice, dove stava il canone 2370, era intitolato De delictis in administratione vel susceptione ordinum aliorumque sacramentorum, ben distinto dai delitti contra fidem et unitatem Ecclesiae, tra i quali appunto lo scisma, catalogati al titolo X (7).

 

L’inasprimento della pena voluto da Pio XII nel 1951 (ed entrato nel nuovo codice) non fa comunque coincidere la consacrazione episcopale con lo scisma, visto che rimangono in vigore due scomuniche per delitti ben distinti tra loro.

 

Questo argomento basta da solo a far crollare il castello di carte della Bussola e di Bisig e de Blignières, che fanno coincidere ogni consacrazione senza mandato con un atto di scisma. L’amministrare i sacramenti oltre i canoni per necessità (ordine episcopale compreso) è sempre possibile ed in alcuni casi doveroso per diritto divino, ed il diritto positivo stesso lo prevede anche in modo esplicito. Infatti è il diritto a scusare dalle pene chi agisce per necessità (can. 2205), e perfino da colpa purché l’atto non sia intrinsecamente malvagio (un’ordinazione episcopale non essendo tale, a meno di tenere la tesi per cui conferisca automaticamente quanto riservato al Papa, anche se il consacrante negasse di volerlo fare).

 

In tal caso, si potrà consacrare un vescovo lecitamente anche senza il permesso del Papa: perché, se c’è realmente la necessità, c’è anche la facoltà di amministrare i sacramenti, proprio per il diritto della Chiesa e non contro di essa. Se il Papa proibisse a un sacerdote senza giurisdizione ordinaria di confessare un moribondo, adducendo come ragione che, secondo lui, il soggetto è sano e può aspettare il parroco, il sacerdote assolverebbe comunque in modo valido e lecito: l’errore del Papa (in buona o mala fede) sulla situazione del malato non cambia il fatto che una tale facoltà non può essere negata in quella circostanza, perché la Chiesa non può andare contro il suo proprio fine (8).

 

La negazione dello stato di necessità della Chiesa da parte del Papa, come vedremo, non smette di far esistere un tale stato, e non smette di conferire le facoltà previste in tal caso dal Papa stesso come promulgatore della legge divina, per la natura delle cose della Chiesa, finalizzata alla salus animarum. Di certo, essendo i papi post-conciliari la causa dello stato di necessità, è difficile che essi ne ammettano l’esistenza o l’estensione reale.

 

Lo stato di necessità

Abbiamo visto che, proprio per il diritto voluto da Dio e dai Pontefici (e non contro di esso), è lecito amministrare i sacramenti di fronte a una necessità estrema del singolo, o alla necessità grave generale[9]. Per quale motivo Mons. Lefebvre nel 1988 era di fronte a una simile situazione?

 

Nel 1988, come oggi, è impossibile ricevere l’ordinazione sacerdotale (e quindi amministrare poi i sacramenti) per le vie ordinarie senza accettare (almeno esternamente) delle dottrine contrarie all’insegnamento della Chiesa.

 

Per esempio:

 

  • Dal Concilio Vaticano II in poi, nessun candidato agli ordini può negare che la libertà religiosa sia un diritto naturale, conformemente alle condanne di Gregorio XVI e Pio IX. La dottrina di Dignitatis humanae, oggi imposta a tutti, e pesantemente ribadita da Benedetto XVI (10), impone di credere che esista un diritto naturale, valido per individui e gruppi, di professare qualsiasi religione, anche in pubblico, e che deve essere riconosciuto dall’autorità. Se un cattolico, per restare tale, nega tale dottrina in quanto condannata dal Magistero, non sarà mai ordinato prete per le vie ordinarie.

 

  • Dal Concilio in poi, nessun candidato agli ordini può affermare che la giurisdizione episcopale proviene solo dal Pontefice, conformemente a secoli di Magistero (vedi articoli citati sopra), o che solo il Pontefice è soggetto del potere supremo della Chiesa. Tali affermazioni definite dal Magistero anche in modo infallibile sono contraddette apertamente dalla dottrina di Lumen gentium, documento chiave del Concilio, e costantemente ribadite. Se un cattolico, per restare tale, nega apertamente tali nuove dottrine, non sarà mai ordinato prete per le vie ordinarie.

 

  • Dal Concilio in poi, la prassi ecumenica domina le relazioni con le altre religioni, nonostante condanne papali (cfr. Pio XI, enciclica Mortalium animos). Ogni cattolico deve apertamente distanziarsi da tali atti, compiuti da tutti i Papi post-conciliari, da Assisi 1986 fino alla Pachamama. Però se lo fa, non riceverà mai il sacramento dell’Ordine.

 

  • Dal 1970, il candidato agli ordini deve accettare per principio e generalmente anche celebrare un rito che «si allontana in modo impressionante» dalla dottrina cattolica sul Sacrificio della Messa, così come definito a Trento (cfr. Breve esame critico del Novus Ordo Missae, dei cardinali Ottaviani e Bacci), e che è in contraddizione palese con il significato del rito tradizionale. Come si può pensare (per fare solo un esempio elementare) che un rito in cui il sacerdote non disgiunge pollice e indice per non perdere alcun frammento dell’ostia consacrata abbia lo stesso significato di un rito che prevede la comunione in mano e i ministri straordinari? Non sono certo «due forme dello stesso rito».

La lista potrebbe ovviamente continuare, come sa anche la Bussola, con argomenti sui quali essi stessi hanno preso le distanze da questo ultimo Pontificato.

 

Forse la Bussola ritiene impossibile ammettere che la gerarchia (cioè il Papa e i Vescovi diocesani) si ritrovi in un simile stato nella sua interezza o nel suo capo?

 

Purtroppo contra factum non fit argumentum. Per capire come sia possibile e come spiegare questa situazione senza cadere in nessun errore sulla costituzione della Chiesa, suggeriamo la lettura del libro Parole chiare sulla Chiesa, a cura dei sacerdoti del nostro Distretto italiano (11). Una tale trattazione esula infatti da un articolo già troppo lungo.

 

Davanti a questo stato di fatto, la Chiesa ha in sé la possibilità di amministrare i sacramenti in modo straordinario, episcopato compreso, venendo in soccorso così alle anime che non vogliono mettere in pericolo la propria fede per ricevere i sacramenti.

 

Non basta l’ordinazione a fare il prete o il vescovo cattolico, dice la Bussola, e noi condividiamo; ci vuole anche di essere inseriti nell’ordinamento canonico visibile, ma in modo appropriato alla situazione, che può anche essere straordinario, come l’attuale (straordinario vuol dire legale secondo le leggi eccezionali, non selvaggio); ma per essere prete e vescovo cattolico ci vuole anche e soprattutto l’integrale professione della fede cattolica, compresa la condanna senza equivoci degli errori correnti: per salvare questo ultimo elemento Mons. Lefebvre poté ricorrere ad ordinazioni episcopali fuori dall’ordinario, ma del tutto lecite, legittime nella reale situazione della Chiesa.

 

Osserviamo infine che tale stato di necessità non è percepito solo soggettivamente dalla Fraternità San Pio X, ma si basa soprattutto sulla certezza che abbiamo dal Magistero papale della condanna del diritto alla libertà religiosa, della collegialità, dell’ecumenismo, e di tutto quanto di contrario alla dottrina definita ha fatto seguito al Concilio, oltre che della liturgia e delle prassi che di fatto negano una serie di articoli di fede in modo più o meno diretto. (12)

 

La Fraternità non nega l’esistenza della gerarchia, ma non dimentica che si tratta di una gerarchia modernista. In quanto tale, non si può far finta di considerarne gli atti come «normali», e di valutarli come se si fosse in uno stato di ordine (del resto, nemmeno la Bussola sembra farlo per molti atti del presente pontificato). Ecco perché, pur di trasmettere e conservare la Fede cattolica come definita dai Papi, si ricorre a mezzi eccezionali.

 

Due documenti citati a sproposito

Ad Apostolorum Principis

Veniamo ora ad esaminare il primo documento citato contro Monsignor Lefebvre, cioè la lettera con cui Pio XII condanna le ordinazioni dei vescovi della «chiesa patriottica» in Cina (1958), destinati a formare una gerarchia parallela fedele al governo comunista. Può sembrare curioso che i conservatori, che accettano la dottrina erronea di Lumen gentium sull’origine sacramentale del potere di governo dei vescovi, citino un documento che condanna (sulla base di Mystici Corporis e mille altri documenti dottrinali) proprio quella teoria conciliare.

 

In effetti è proprio il Concilio (in questo totalmente confermato dai documenti di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) a sostenere che la giurisdizione episcopale non venga dal Papa ma dalla stessa ordinazione sacramentale, proponendo così una dottrina già ampiamente condannata. Non sappiamo a che dottrina credano i conservatori, ma evidentemente vogliono mettersi sul terreno dei cattolici fedeli al Magistero tradizionale per cercare di porli in difficoltà.

 

In realtà ci sarebbe anzitutto da chiedersi, qualora costoro credano alla dottrina esposta da Pio XII, come facciano a non vedere che già dal Concilio si tenta di costruire una nuova religione che sovverte il cattolicesimo, e di imporla a tutti i fedeli; se invece non ci credono, ci si chiede perché usare strumentalmente una lettera che non potrebbero intendere in quel senso letterale, secondo quanto impone la Nota praevia di Lumen gentium.

 

Veniamo però al merito dell’obiezione: si sostiene che non solo la lettera insegni che per diritto divino è il Papa solo a conferire la giurisdizione ai vescovi residenziali, ma anche che solo la Santa Sede possa determinare chi deve ricevere l’episcopato. Facciamo anzitutto notare che si parla di candidati all’episcopato residenziale in una situazione ordinaria, cioè di candidati che insieme all’ordinazione dovranno appunto ricevere la giurisdizione dal Pontefice. Nessuno dubita che in tale caso solo alla Santa Sede spetti di giudicare i candidati idonei a tali nomine, senza altre ingerenze (il riferimento immediato della lettera è al governo comunista cinese).

 

Non si capisce però come questo possa inficiare la liceità morale dell’ordinazione episcopale in caso di grave necessità generale, senza pretesa di conferimento di alcuna giurisdizione: Pio XII parla della scelta di vescovi che dovranno ricevere missione canonica ordinaria dal Papa, il che niente ha a che vedere con il caso dei vescovi della FSSPX. La cosa sarà ancora più chiara con il commento al documento seguente.

 

Quartus supra

Viene portata un’obiezione che dovrebbe basarsi sulla lettera con cui Pio IX interviene in una querela suscitata dal patriarcato armeno cattolico (nel 1873). Era infatti successo che, nonostante il privilegio della chiesa armena di presentare a Roma una terna di candidati all’episcopato, tra i quali il Papa scegliesse chi nominare, il Papa avesse in alcuni casi rigettato i tre nomi per un quarto, direttamente scelto da lui.

 

Pio IX ovviamente risponde che i privilegi dei patriarcati o delle chiese locali sono norme di diritto ecclesiastico, che in nulla possono inficiare la pienezza del potere pontificio, che per diritto divino può andare oltre e nominare in altri modi i vescovi. Nessun cattolico mai metterebbe in dubbio una tale verità.

 

Tuttavia nemmeno questo ha nulla a che vedere con il caso di Monsignor Lefebvre: non si stabilisce qui un principio, come vorrebbero i nostri obiettanti, per cui conferire un’ordinazione episcopale (senza pretesa di conferire una sede, ma per una mera necessità sacramentale) sia per diritto divino impossibile senza una designazione papale; si dice invece che il Papa può per diritto divino nominare senza vincoli canonici chi vuole alle sedi vescovili.

 

Quanto alla citazione delle lettere di Papa sant’Innocenzo I (13), esse parlano dell’episcopato residenziale, cioè con la concessione della giurisdizione. I discorsi di queste lettere e dei Papi antichi vanno sempre letti nell’ottica dell’istituzione di vescovi residenziali, non della semplice collazione del sacramento dell’Ordine che, come abbiamo visto, resta possibile quando inevitabilmente necessario. Trattano infatti della situazione ordinaria e del caso comune di nomina episcopale a una sede.

 

Qualche ultima considerazione

Come si vede, la Fraternità San Pio X basa le sue scelte sulla considerazione della natura giuridica della Chiesa, che non è senza mezzi per le situazioni eccezionali. Che la gerarchia intera si sia separata dalla professione della vera Fede, o sia silente sull’apostasia, è un fatto enorme che non fa riflettere la Bussola. Per la Bussola in questa situazione occorrerebbe rapportarsi alle autorità come in periodo normale, ignorando tale generale apostasia (salvo poi qualificare i vescovi italiani del titolo di «usurpatori» quando toccano qualche novità dottrinale che la Bussola non ha digerito per il momento: infatti, perché supporre che i conservatori non accetteranno mai l’omosessualismo, se hanno accettato già collegialità e libertà religiosa?).

 

Un capitolo a parte meriterebbe l’uso strumentale e selettivo che la Bussola fa degli interventi romani in merito alla FSSPX, ignorando o minimizzando sistematicamente ogni concessione fatta nel tempo dai recenti Pontefici. Non insistiamo perché abbiamo voluto basarci su princìpi ben più elevati.

 

Facciamo però un esempio: la Bussola nega autorità alla risposta del presidente della Commissione Ecclesia Dei del 27 settembre 2002, che permetterebbe ai fedeli di assistere alla Messa e adempiere al precetto domenicale presso i sacerdoti della FSSPX.

 

Precisiamo anzitutto che la FSSPX chiede ai fedeli di venire a Messa presso le proprie cappelle proprio per manifestare il proprio rifiuto degli errori moderni e della nuova messa, partecipando a un culto corrispondente alla Fede romana, e non si basa su questi documenti (che al massimo sono stati usati come argomenti ad hominem).

 

Quello però che fa specie è che la Bussola spieghi pontificalmente che il diritto canonico dice che si assolve il precetto solo assistendo alla Messa domenicale in un «rito cattolico», dimenticandosi però che il nuovo canone 844§2, violando il diritto divino, permette ai cattolici impossibilitati di accedere a un ministro cattolico di ricevere i sacramenti da ministri non-cattolici validamente ordinati, «ogni volta che lo richieda la necessità o una vera utilità spirituale»; e che la Santa Sede, con diversi accordi con le «chiese» scismatiche orientali, ha permesso ai cattolici di assistere alla Messa presso tali comunità (compresa quella assira, dove la Messa non ha neppure le parole della consacrazione ed è perciò non solo illecita ma del tutto invalida). (14)

 

In conclusione, consigliamo al lettore la lettura degli articoli citati in nota, ricchi di apparati e di riferimenti, per tutte le questioni che potrebbero essere poco chiare o sospese. Non è infatti possibile in questo breve testo ritornare alla confutazione di ogni singolo sofisma o al chiarimento di ogni singolo concetto esposto.

 

Viviamo in un tempo eccezionale, molto più di quello che crede la Bussola, in cui l’intera gerarchia ha rinnegato l’integralità della fede romana. Forse è questo che la Bussola non capisce, e tira fuori dal cappello vecchi sofismi già più volte affrontati, senza chiedersi che cosa richieda oggi un’integrale professione di fede. Se però lo capisce e nega comunque la legittimità delle consacrazioni episcopali senza mandato in queste circostanze, è probabilmente la loro visione della Chiesa a far difetto di elementi giuridici indispensabili nelle situazioni eccezionali.

 

Ne va della natura della Chiesa, destinata a trasmettere la Fede integralmente e a salvare le anime, senza perdere nessuno dei suoi pezzi. C’è chi sacrifica la professione della Fede per salvare la gerarchia.

 

C’è chi sacrifica la gerarchia per salvare la professione della Fede, come i sedevacantismi vecchi e nuovi. La Fraternità San Pio X, al seguito delle scelte di Mons. Lefebvre, ha cercato una spiegazione e una strada che conservino tutti gli elementi costitutivi della Chiesa.

 

NOTE

1) Vi sono nella Chiesa due poteri, lasciati da Nostro Signore Gesù Cristo, e due gerarchie che ne derivano, le quali si incrociano e si sovrappongono in parte, ma che restano ben distinte nelle loro attribuzioni e nelle loro fonti. Questi due poteri sono: 1) la potestas sanctificandi, che si riceve e si esercita tramite il Sacramento dell’Ordine nei suoi vari gradi e che consiste principalmente nel potere di consacrare l’Eucaristia e mediante questa e gli altri Sacramenti dare la grazia alle anime. Poiché la fonte di questo potere è un Sacramento, l’autore diretto ne è Nostro Signore stesso, ex opere operato: i ministri ne sono solo gli strumenti. 2). La potestas regendi, o potere di giurisdizione, che comprende in sé il potere spirituale di governare e di insegnare. La Chiesa essendo una società deve avere un’autorità capace di legiferare e di guidare, oltre che di punire e correggere. Questo potere, che Nostro Signore ugualmente possiede al supremo grado, è da Lui trasmesso direttamente solo al Papa al momento dell’accettazione dell’elezione, e dal Papa in vari modi è trasmesso al resto della Chiesa. Non ha di per sé alcun legame con il potere d’ordine. In questo senso Vescovo è colui che ha ricevuto dal Papa il potere di governare una diocesi, indipendentemente dal fatto della sua consacrazione episcopale.

Per approfondire, si vedano gli articoli citati alla nota 4.

2) Notiamo preliminarmente che la maggior parte degli argomenti addotti dalla Bussola non sono affatto nuovi, come vedremo, e si trovano confutati globalmente nell’opuscolo La Tradizione scomunicate, ed Ichthys 2007.

3) Una radicale e completa confutazione di tali tesi si trova negli articoli apparsi sul Courrier de Rome, a firma di don Jean-Michel Gleize, apparsi nei numeri di ottobre e novembre 2022 (nn. 657-658). Ad essi rimandiamo il lettore che voglia approfondire ulteriormente.

4) Sull’argomento, due articoli consultabili on line: cfr. https://fsspx.it/it/news-events/news/episcopato-e-collegialita-84983 e https://www.slideshare.net/GedersonFalcometa/nuova-e-antica-dottrina-a-c…

5)  Gli articoli citati alla nota 2 proveranno ad abundantiam quanto qui affermato. Ci piace aggiungere qui perfino una citazione di Giovanni XXIII (prima del Concilio) sull’argomento: dalla consacrazione episcopale «non può provenire assolutamente alcuna giurisdizione, se viene compiuta senza mandato apostolico» (Allocuzione concistoriale del 15 dicembre 1958, AAS 50, p.983). Anche Papa Giovanni ammetterebbe quindi che Mons. Lefebvre, secondo la dottrina tradizionale, non poteva compiere uno scisma senza pretesa di trasmettere ciò che solo il mandato apostolico può dare, la giurisdizione: questo perché di per sé la consacrazione sola non dà altro che il potere di ordine.

6) Tale impostazione proviene dal diritto tradizionale delle Decretali (C. 44, de electione et electi potestate, I, 6, in VI°).

7) Perfino nel nuovo Codice di diritto canonico (del 1983), nonostante l’ecclesiologia conciliare che lo pervade, la pena per la consacrazione episcopale senza mandato (nuovo canone 1382) non è inserita tra quelle per i delitti “contro l’unità della Chiesa” (Parte II tit. I), ma tra quelle per l’usurpazione di uffici ecclesiastici (tit. III).

8) Quanto alla citazione del Caietano sullo scisma fatta nell’ultimo articolo della Bussola, essa appare incompleta e tendenziosa. Il testo infatti letto per intero distingue molto bene lo scisma dalla disobbedienza (che può sempre giustificarsi di fronte a un ordine iniquo, come il richiedere la negazione della fede per accedere ai sacramenti o il proibirne ingiustamente l’amministrazione davanti a una vera necessità). Vedi il commento e la citazione integrale del Caietano negli articoli di don J.-M. Gleize sul Courrier de Rome dell’aprile 2018 e del novembre 2022.

9) A tal proposito, si veda lo studio completo a questo link: https://fsspx.it/it/news-events/news/l%E2%80%99apostolato-della-fsspx-e-…

10) https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/peace/documents/…

11) Parole chiare sulla Chiesa, a cura di don Daniele Di Sorco, ed. Radio Spada 2023.

12) Per misurare l’ampiezza dei cambiamenti dottrinali imposti alla coscienza dei cattolici dal Concilio in poi, consigliamo la lettura dei seguenti libri: Mons. M. Lefebvre, Lo hanno detronizzato, ed. Piane; R. Amerio, Iota unum, ed. Lindau; Padre M. Gaudron, Catechismo della crisi nella Chiesa, ed. Piane.

13) Sarebbe da discutere anche l’inesattezza della traduzione delle lettere abbozzata dalla Bussola. Il testo, reperibile nella Patrologia latina del Migne 20:583, visto il pronome quo, che la Bussola omette di tradurre correttamente, fa capire chiaramente che è l’Apostolo Pietro la fonte dell’ipse episcopatus (non di tutto l’episcopato qui, ma di quello romano) e della tota auctoritas nominis (il prestigio della sede romana).

14) Tale concessione, risalente al 2001, con Giovanni Paolo II e al Card. Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, fece molto discutere e rimane un monumento di ecclesiologia e teologia sacramentale anti-cattoliche https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2001/… . Si veda il commento a tale mostruosità in Sì Sì No No Anno XXVIII n. 1, del 15 gennaio 2002 (https://www.sisinono.org/agosto-2002.html?download=264:n-1).

 

 

 

 

 

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

 

 

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La storia epica della cristianità in Giappone: una mostra

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Dal 15 marzo al 13 luglio 2024, le Missioni Estere di Parigi (MEP) organizzano una mostra dal titolo: «Da Samurai a Manga: l’epica cristiana in Giappone». Un’occasione per scoprire questo capitolo delle missioni cattoliche e per conoscere meglio le Missioni Estere di Parigi. Questo articolo riassume la presentazione fatta sul suo sito web.

 

La storia dell’evangelizzazione del Giappone presenta inizialmente due aspetti: a volte una rapida espansione, a volte una serie di battute d’arresto e disastri sfociati in tragedie.

 

Il «secolo cristiano»

San Francesco Saverio sbarcò in Giappone a Kagoshima (Satsuma) nel 1549, durante i primi tentativi di unificazione del Paese. L’espansione del cattolicesimo fu notevole e portò alla conversione di numerosi governatori (daimyo). Grazie al permesso di evangelizzare, i missionari gesuiti aumentarono gradualmente il numero dei battezzati.

 

Il gesuita Alessandro Valignano arrivò nel 1579 come visitatore delle missioni. Nel 1582 organizza la prima ambasciata in Europa, che incontra papa Gregorio XIII nel 1585. Ma una prima messa al bando del cristianesimo fu imposta dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587 con l’esilio dei missionari. Il 5 febbraio 1597 furono crocifissi a Nagasaki 26 martiri.

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Segretezza

A partire dal 1614 gli shogun cercarono di eliminare il cattolicesimo: a partire da questa data ogni famiglia doveva essere registrata presso un tempio buddista. Poi, a partire dal 1619, nelle città e nei villaggi di tutto il Paese furono affissi cartelli che ricordavano la messa al bando del cristianesimo, offrendo cospicue ricompense per la denuncia dei cristiani.

 

Scene di martirio furono testimoniate a Kyoto nel 1619, a Nagasaki nel 1622 e a Edo (Tokyo) nel 1623. La tortura sistematica apparve intorno al 1630 per promuovere l’apostasia. Fu in questo contesto che nel 1613 il daimyo di Sendai inviò un’ambasciata presso il viceré del Messico per ottenere l’apertura di una via commerciale transpacifica. In cambio, la religione cristiana sarebbe tollerata.

 

L’ambasciata fu affidata al samurai Hasekura Tsunenaga, accompagnato dal francescano spagnolo Luis Sotelo. Il viceré inviò messaggeri al re di Spagna, Filippo III. Il re inviò infine gli ambasciatori a papa Paolo V, che li ricevette nel novembre 1615. Ma Paolo V restituì la decisione finale al monarca spagnolo, che rifiutò di rivedere gli inviati del daimyo di Sendai.

 

Il fallimento dell’ambasciata provocò la messa al bando del cristianesimo e la caccia ai cristiani. Riuscito a tornare segretamente in Giappone, Luis Sotelo fu bruciato vivo a Tokyo nel 1623. Iniziava il periodo delle grandi persecuzioni. La popolazione cristiana, stimata in 650.000 persone, fu decimata. Furono inflitte terribili torture.

 

La ribellione di Shimabara (1637-1638), organizzata dai contadini cristiani sotto lo shogunato Tokugawa, fu repressa ferocemente, con l’appoggio della marina olandese, che sparò con i suoi cannoni sul castello di Hara, dove si erano rifugiati i ribelli, per sostenere la rivolta. truppe lealiste. Il massacro di 30.000 cristiani durò tre giorni.

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Il cristianesimo emerge dall’ombra

Nel XIX secolo la Francia voleva recuperare il tempo perduto nella corsa per l’Asia. La Santa Sede non aveva rinunciato a rifondare una missione in Giappone. Infine, le Missioni Estere di Parigi aspiravano a riconquistare il prestigioso campo missionario del Giappone. Il primo trattato franco-giapponese fu firmato nel 1858, ma la presenza dei ministri religiosi era consentita solo agli occidentali; il cristianesimo rimase proibito ai giapponesi. I missionari si stabilirono in concessioni riservate agli stranieri a Hakodate, Kanagawa e Nagasaki.

 

Il 17 marzo 1865 un gruppo di giapponesi si presentò come cristiano a padre Bernard Petitjean (1829-1884) delle Missioni Estere di Parigi, che si erano stabilite a Nagasaki e vi avevano costruito una chiesa, consacrata nel 1865. I missionari scoprirono organizzazione, riti ed elementi dottrinali trasmessi segretamente per 250 anni, senza sacerdoti e con pochissimi scritti. Ma la persecuzione, con arresti ed esecuzioni, era ancora in corso, soprattutto nel 1856 a Urakami, vicino a Nagasaki.

 

La persecuzione più lunga e più dura ebbe luogo tra il 1867 e il 1873, anni che videro il crollo del regime Tokugawa e la restaurazione del regime imperiale. Il regime instauratosi con il periodo Meiji (1868) portò avanti un’opera trasformativa: la modernizzazione delle strutture politiche ed economiche. Ma nei confronti dei cristiani è stata adottata una linea dura.

 

Fu promossa una teocrazia imperiale fondata sullo shintoismo. I leader erano a disagio riguardo alle vere intenzioni degli occidentali e il sentimento anticristiano era al suo culmine. La nomina di padre Petitjean come vescovo nel 1866 scatenò la persecuzione: nel 1868 si decise di deportare i cristiani di Urakami in 60 diversi feudi in tutto il Giappone.

 

Nel 1872 iniziò una distensione: la politica anticristiana fu finalmente sepolta. I cartelli che vietavano il cristianesimo, in vigore dal XVII secolo, furono rimossi nel febbraio 1873. I cristiani di Urakami poterono tornare a casa e fu loro concessa la libertà religiosa.

 

Libertà sotto sorveglianza

Le missioni itineranti venivano organizzate grazie ad una certa libertà di movimento. Il passaporto interno, limitando la permanenza nello stesso luogo a tre giorni, spingeva i missionari a percorrere vaste regioni. Dal punto di vista politico, emerse uno Stato shintoista, nazionalista e guidato dall’imperatore: prese le distanze dal buddismo e rimase diffidente nei confronti del cristianesimo o addirittura ostile ad esso.

 

La prima Costituzione del Giappone, nel 1889, concedeva la libertà religiosa, anche se molto limitata. Alla fine era solo ciò che il governo aveva effettivamente consentito dal 1873. Ciò consentiva la creazione di diocesi e l’istituzione della Chiesa al di fuori delle enclavi in ​​cui era stata relegata. Le Missioni Estere di Parigi chiesero quindi alle suore di prendersi cura di orfanotrofi, scuole e dispensari.

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Altre congregazioni si ristabilirono sul suolo giapponese: domenicani, francescani e gesuiti, che erano stati espulsi due secoli e mezzo prima. Ma con il Rescritto Imperiale del 30 ottobre 1890 la fedeltà all’Imperatore divenne fondamentale. Si riteneva che ciò presentasse l’urgente necessità di formare un clero autoctono nel caso in cui i missionari fossero stati nuovamente scacciati.

 

L’aumento della potenza militare dell’arcipelago – le vittorie contro Cina, Taiwan e Russia, l’annessione della Corea, l’invasione della Manciuria – spinsero il regime verso l’esercito. La Chiesa si adattò al Giappone e si raggiunse un accordo sulla questione dei riti dovuti all’Imperatore. Con la seconda guerra mondiale la situazione degli stranieri all’interno della Chiesa in Giappone divenne sempre più difficile.

 

Dopo la sconfitta, la Costituzione del 1946, ancora in vigore, consentiva la totale libertà del cattolicesimo.

 

La Chiesa in Giappone dal 1945 ad oggi

Secondo le statistiche del 2023, i cattolici sono 431.100, tra cui 6.200 seminaristi, sacerdoti e religiosi, che costituiscono lo 0,34% della popolazione giapponese. Ma questo numero tiene conto solo dei cattolici «registrati», un sistema ereditato dal tempo della persecuzione. Tra i migranti – soprattutto persone provenienti dall’America Latina, dalle Filippine e dal Vietnam – la popolazione cattolica è stimata all’1%.

 

Tuttavia, la Chiesa ha molte istituzioni – ospedali, scuole, centri assistenziali e persino università – che danno al cattolicesimo una presenza significativa nella società giapponese.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

 

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Spirito

«Scie di uomini malvagi e spietati avvelenano l’aria che respiriamo». Omelia di mons. Viganò nell’Ascensione del Signore

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Renovatio 21 pubblica l’omelia di monsignor Carlo Maria Viganò del 9 maggio 2024, Ascensione di Nostro Signore.      

Et inimici domini domestici ejus. E i famigliari del padrone saranno i suoi nemici.

Mt 10, 36

  Troppo spesso guardiamo a questo mondo con l’atteggiamento e le speranze di chi lo ritiene un luogo di permanenza e non di passaggio verso la meta celeste, mentre sappiamo che il nostro pellegrinaggio su questa terra ha come destinazione ineluttabile l’eternità: un’eternità di beatitudine nella gloria del Paradiso o un’eternità di dannazione nella disperazione delle fiamme dell’Inferno.   E per questa nostra inclinazione al voler credere in un illusorio Hic manebimus optime consideriamo l’Ascensione di Nostro Signore quasi come un fatto anomalo, un abbandono da parte del Salvatore che ci lascia soli dopo nemmeno quaranta giorni dalla Sua Resurrezione.

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La fiamma del Cero pasquale che al canto del Vangelo viene spenta – a significare proprio il ritorno del Figlio Incarnato alla destra del Padre – ci sembra per così dire in contraddizione con quanto pochi giorni fa, per le Rogazioni, chiedevamo alla Maestà divina: di concedere, conservare e benedire i frutti della terra, di risparmiarci dal flagello del terremoto, di allontanare la folgore e la tempesta, la peste, la carestia, la guerra.   È difficile – dobbiamo riconoscerlo – riuscire ad essere di passaggio in un luogo che vorremmo felice e prospero, fertile e generoso, sereno e privo di conflitti. Ancor più difficile quando alzando gli occhi al cielo spesso lo vediamo solcato di scie con cui uomini malvagi e spietati avvelenano l’aria che respiriamo, inquinano i campi e le fonti, fanno marcire o seccare i raccolti, giungono addirittura ad offuscare la luce del sole.   L’inimicus homo non sparge solo la zizzania dove cresce il grano: egli vuole che la zizzania sia seminata e coltivata, e che sia il grano ad essere estirpato e gettato nel fuoco; che il vizio trionfi e la virtù sia calpestata; che la morte e la malattia siano celebrate, e la vita – anche nel sacrario del ventre materno o nell’innocenza dei bambini e dei deboli – sia colpita, sfregiata, amputata, manomessa.   Noi rimaniamo increduli e sconvolti dinnanzi a questo sovvertimento, perché non vogliamo accettare l’idea che alla natura ostile dopo la nostra caduta si sia ora aggiunta l’insidia ulteriore dell’homo iniquus et dolosus, che quella natura manipola, replica, imita in grotteschi surrogati artificiali, in cibi transgenici, in imitazioni senz’anima della Creazione, per l’odio che Satana nutre nei confronti del Creatore di tanta perfezione gratuita.   Il Signore si alza da questa valle di lacrime, ascende al cielo in jubilatione et in voce tubæ, quasi le schiere angeliche fossero felici di veder tornare il Figlio di Dio nel luogo d’origine, in quella dimensione eterna e immutabile in cui la Santissima Trinità è l’unico principio e fine degli spiriti eletti. Ma vi ascende dopo esser anch’Egli disceso propter nos homines et propter nostram salutem, incarnandoSi nel seno virginale di Maria Santissima, assumendo natura e carne umana, affrontando la Passione e la Morte su quella Croce che Lo ha elevato quale Pontifex futurorum bonorum (Ebr 9, 11), Sommo Sacerdote dei beni futuri, a metà strada proprio tra la terra e il cielo, a creare un mistico ponte tra noi e Dio.   E quell’umanità assunta da Nostro Signore nell’Incarnazione viene portata come insegna di trionfo del Victor Rex al cospetto dell’Eterno Padre, ed è per questo che il Suo Corpo santissimo porta ancora splendenti le Piaghe della Redenzione.

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Questo deve farci comprendere due concetti estremamente importanti.   Il primo: il senso della nostra vita terrena, che è pellegrinaggio verso l’eternità, esilio che speriamo con la Grazia di Dio essere temporaneo, prima di tornare alla vera Patria. E con questa persuasione, dobbiamo anche capire che i beni di questa terra – le ricchezze, il successo, il potere, i piaceri – sono zavorra della quale è indispensabile liberarci se vogliamo essere capaci di ascendere verso l’alto, di librarci in volo come la biblica aquila vola verso il Sole divino.   Il secondo: la necessità di fare tesoro di questo esilio, di questo peregrinare nel deserto verso la terra promessa, usando i doni e facendo fruttare i talenti che il Signore ci ha donato non per rendere più confortevole e duratura la lontananza dal Cielo, ma per accumulare quei tesori spirituali che né tignola né ruggine consumano, e che i ladri non scassinano e non rubano (Mt 6, 20).   Ciò non significa disprezzare la vita che la Provvidenza ci ha dato, ma piuttosto usarla per lo scopo che essa ha: la gloria di Dio, da ottenere mediante la nostra e altrui santificazione nell’obbedienza alla Sua volontà: fiat voluntas tua – recitiamo nel Padre Nostro – sicut in cœlo et in terra, ossia nella prospettiva dell’eternità che ci attende, e nella temporalità del passare dei giorni.   Così, mentre l’armonia divina del cosmo scandisce i giorni e le stagioni in cui si dipanano gli anni della nostra vita terrena – e per questo invochiamo dal Cielo le benedizioni sui nostri raccolti – nell’ordine soprannaturale abbiamo i ritmi cadenzati della Liturgia, che ci permettono di contemplare i divini Misteri e di godere di uno sprazzo di quell’eternità nella quale l’Agnello Immacolato celebra la Liturgia celeste, circondato dalle schiere degli Angeli e dei Santi.

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Oggi la nostra anima è chiamata a guardare il Signore che ci precede in Paradiso. Domani, risorti nel corpo e condotti al Giudizio, Lo vedremo tornare nella gloria: Hic Jesus, qui assumptus est a vobis in cœlum, sic veniet quemadmodum vidistis eum ascendentem in cœlum (At 1, 11): Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo, dicono i due Angeli ai Discepoli.   E sarà un ritorno in cui il tempo, come lo conosciamo, cesserà di essere ed entrerà nell’eternità divina proprio perché il consummatum est pronunciato dal Salvatore agonizzante sulla Croce quel Venerdì Santo di 1991 anni orsono varrà anche per il mondo e per l’umanità intera, giunti al termine della prova, dell’esilio, del pellegrinaggio terreno.   Il Cero pasquale rappresenta, come ci istruisce il Diacono nel solenne canto dell’Exsultet, il lumen Christi, Cristo vera Luce: come la colonna di fuoco che precedeva gli Ebrei nell’attraversare – sicco vestigio – il Mar Rosso, così Egli precede anche noi nel nostro passaggio in questo mondo, e nella fuga dai malvagi che ci inseguono.   Preghiamo di essere trovati degni di giungere in salvo, per non essere travolti dalle acque come i soldati del Faraone.   Che in questo esodo la Santissima Eucaristia sia nostro Viatico, e la Vergine Immacolata nostra Stella.   E così sia.   + Carlo Maria Viganò Arcivescovo   9 Maggio 2024 In Ascensione Domini

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Immagine: Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Ascensione di Cristo (1510-1520), Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma.  Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia  
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Spirito

La conferenza episcopale UE sostiene l’allargamento della UE

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Il 19 aprile 2024 i membri della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) hanno pubblicato una dichiarazione in cui chiedono di accelerare il processo di allargamento dell’Unione. Un testo dai toni progressisti, giudicato dai detrattori una posizione «fuori dal reale» a poche settimane dalle elezioni europee dove i partiti nazional-conservatori sono in ascesa.

 

«Al di là di una necessità geopolitica per la stabilità del nostro continente, consideriamo la prospettiva della futura adesione all’Unione Europea (UE) come un forte messaggio di speranza per i cittadini dei Paesi candidati e come una risposta al loro desiderio di vivere in pace e giustizia». La dichiarazione congiunta pubblicata dalla COMECE non dà realmente visibilità alla linea seguita dall’organismo incaricato dalla Chiesa di «dialogare» con le istituzioni europee.

 

Poco prima, i rappresentanti delle conferenze episcopali europee avevano tuttavia espresso la loro contrarietà all’inclusione di un cosiddetto «diritto» all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, come deciso dai Parlamentari l’11 aprile scorso.

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In questa occasione i vescovi hanno ribadito il loro «no all’aborto e alle imposizioni ideologiche», chiedendo che «l’Unione europea rispetti le diverse culture e tradizioni degli Stati membri e le loro competenze nazionali». Ma come potrebbe crescere il «rispetto» per queste diverse culture se i ventisette Stati dell’Ue diventassero trentaquattro, o addirittura trentacinque?

 

Perché nella coda di candidati che la COMECE sembra richiamare, ci sono innanzitutto i sei Stati balcanici dell’ex Jugoslavia, candidati dal 2003. Poi altri tre Paesi che vogliono uscire dall’orbita russa dopo lo scoppio della guerra in Ucraina: quest’ultima in primis, ma anche la Moldavia e forse anche la Georgia.

 

A chi rimprovera «una forma di ingenuità» ai prelati europei, mons. Antoine Hérouard, primo vicepresidente della COMECE e arcivescovo di Digione, pretende di difendere «una posizione di ordine morale, che si inserisce nella prospettiva del progetto di Unità europea, perseguita dai padri fondatori». Padri fondatori, che, come Jean Monnet, hanno contribuito soprattutto a eludere un’idea sana di Europa instaurando il regno della tecnocrazia e dell’economia.

 

Nella stessa ottica, la dichiarazione del 19 aprile ricorda che «la Chiesa sostiene fortemente il processo volto a riunire i popoli e i Paesi d’Europa in una comunità che garantisca la pace, la libertà, la democrazia, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e la prosperità».

 

Abbastanza deludente, quando sarebbe stato più opportuno ricordare la base comune delle radici cristiane dell’Europa da parte dei membri della Chiesa docente, senza la quale essa è solo una barca alla deriva.

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La ferocia del mondo e la proliferazione della violenza – in particolare quella che colpisce il diritto alla vita in tutte le sue forme – ci impongono di ripensare l’Unione in termini di sovranità e comunità di destino basata sul cristianesimo. Esso solo è capace di portare una disciplina collettiva: ma la Chiesa deve prima ricordarsi di far regnare Cristo nei cuori e nelle istituzioni, altrimenti diventa solo una ONG umanitaria.

 

La posizione della COMECE è anche un posizionamento politico piuttosto rischioso, poiché potrebbe essere interpretato come un sostegno alle liste progressiste che incoraggiano l’allargamento dell’UE nella campagna per le prossime elezioni europee del 9 giugno: liste verso le quali i cattolici praticanti non necessariamente sono simpatizzanti.

 

«L’Unione è un paradiso visto da altrove, ma la porta verso questo paradiso deve rimanere stretta», osservava nel luglio 2023 un rapporto parlamentare francese che esaminava la politica di allargamento dell’UE. Quanto basta per far riflettere la COMECE, che dovrebbe ricordare che, da cinquant’anni, spesso sono proprio coloro che si definiscono più «europei» a fare più male all’Europa.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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