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Zelens’kyj è fuori controllo

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In pratica è venuto a Roma, e ha rifiutato l’offerta del papa. Lui può: è più re del vicario del Re dei re.

 

Povero Bergolio, ci teneva tanto. Lui ha capito che la narrativa atlantica non porta da nessuna parte – o meglio, ha capito che così come sono le cose, lui non può ricavarne niente. Aveva fatto figure da cioccolataio a ripetizione. Dice che la NATO abbaia, poi fa una foto mentre bacia una bandiera di Maidan. Insulta i ceceni e i buriati, poi difende i monaci della Lavra. Insomma, aveva voglia di provarci. Del resto i papi servono anche a quello – e lui magari ha compreso pure che ad una certa deve dimostrare – materialmente, formalmente, mediaticamente – di esserne uno.

 

E invece no. Quello arriva, con la felpetta nera con il tridente che pare proprio quello delle milizie di Bandera che collaborarono con Hitler nella pulizia etnica (apice assoluto raggiunto da Vespa: Zelens’kyj che accusa Putin di aver inventato e diffuso l’idea che in Ucraina ci sono i nazisti, e lo dice con il logo ucronazista sul petto e sulle spalline).

 

Dimentichiamoci il dress code: il giorno prima, ad un evento «familiota», gli era toccato di sedersi a fianco di Giorgia Meloni che, in barba ad ogni regola nota nei secoli (ma qualcuno del protocollo non glielo ha detto?) si è presentata vestita di bianco come lui, pantaloni e taccazzi, e in più la manina a toccare il braccio del papa, quasi come faceva il suo amico rivale Macron, che gli metteva le mani in faccia.

 

Zelens’kyj non ha avuto bisogno di toccare il papa, perché gli è superiore. Se il cristianesimo si basa su un Dio che si fa vittima dell’umanità, ecco qui il presidente di una Nazione che ha battuto ogni record di vittimismo globale, al punto che potrebbe rubare alla Polonia il titolo di «Cristo fra le Nazioni», se non fosse che di fatto a Kiev e dintorni va in onda ora una vera persecuzione anticristiana.

 

Eccolo allora che si siede prima del pontefice, non aspetta che l’anziano vicario di Cristo in terra, che lo accoglie con il bastone, si sieda in casa sua. Dettagli, direte. Maddeché. Se lo pensate non avete capito come funziona la diplomazia, né la prossemica, né le semplici relazioni interpersonali.

 

«Con tutto il rispetto per Sua Santità, noi non abbiamo bisogno di mediatori, noi abbiamo bisogno di una pace giusta. E invitiamo il Papa, come altri leader, per lavorare ad una pace giusta ma prima dobbiamo fare tutto il resto», dice il re di Kiev dinanzi ad una pletora di direttori di giornaloni chez Bruno Vespa, che peraltro era quello, se non erriamo, che si commuoveva fino alle lagrime quando il papa polacco (un’etnia massacrata da Bandera, lì rappresentato dal simboletto sul maglione) lo chiamò in studio.

 

«Non si può fare una mediazione con Putin, nessun Paese al mondo lo può fare». Punto. Caro omino bianco, mettitela via.

 

«Nessun Paese al mondo». Neppure un Paese curioso come il Vaticano, sembra dire l’attore divenuto presidente – votato per una piattaforma, va ripetuto, che garantiva una pace ritrovata con la Russia.

 

Non che sia esattamente comune, rifiutare un’offerta diplomatica della Santa Sede. Una delle Nazioni più spietatamente militariste che la storia recente rammenti, il Giappone imperiale, chiese verso la fine della guerra la mediazione del papato per un armistizio con gli americani. È una storia che raccontiamo, su Renovatio 21, ogni anno dal 6 al 9 agosto, le date del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki.

 

L’azione dei diplomatici nipponici, da poco accreditati presso la Santa Sede, fu, a quanto sembra, bloccata da Montini, allora sostituto segretario di Stato. Montini, è stato talvolta accusato, fra le altre cose, di essere stato in rapporti con il vero padre dell’Italia postbellica, la superspia USA James Jesus Angleton. Insomma: la mediazione vaticana avrebbe potuto evitare l’olocausto termonucleare di due splendide città giapponesi…

 

Con il regime di Kiev abbiamo a che fare con tutt’altra creatura. Respinge la mano che gli viene data, schifa la pace, manca di rispetto all’autorità perfino religiosa, non pare aver nessun interesse riguardo al rischio di annichilimento della sua terra. I militari giapponesi, quelli per cui si creano problemi ogni agosto per la commemorazione di tanti passati alla storia come «criminali di guerra», a confronto della banda di Kiev erano dei bambini. Qui invece c’è uno serio.

 

Chi insinua che sia la cocaina a rendere così il presidente-comico TV ucraino, con forniture costanti da parte della cintura di neonazisti che ne cura la sicurezza personale – e che sono gli stessi probabilmente che hanno detto che lo avrebbero impiccato sul principale viale di Kiev se avesse retrocesso di un centimetro rispetto alla Russia – non ha alcuna prova per dirlo. E nemmeno una fonte di qualche tipo, visto che quello che aveva raccolto la voce per le strade ucraine, chiamandolo «the cokehead of Kiev» («il cocainomane di Kiev»), è stato ri-arrestato, ed è sparito: nessuno sa dove sia Gonzalo Lira, e crediamo sia il caso di dire una preghiera, visto che, come notava Maria Zakharova, nessun giornalista ne sta chiedendo la liberazione, né il Gabriel Boric presidente goscista del suo Paese, il Cile (Nazione portata all’indipendenza da un avo di Lira, il libertador José Miguel Carrera) sembra aver voglia di chiederlo indietro ai servizi segreti interni ucraini.

 

Zelens’kyj ha fatto il tour d’Europa, in una versione avanzata della questua per le armi – vuole i caccia occidentali, magari pilotati da occidentali, altro che la pace del papa. A Roma è venuto sì, ma aveva giri più importanti da fare, per esempio a Berlino, dove c’è il governo più ridicolmente desovranizzato dell’universo, ha accettato il premio Carlo Magno (quando si parla di grandi re) assieme a 3 miliardi in armamenti. In Olanda è passato perché doveva dare un messaggio simbolico: io all’Aia ci vado da eroe, Putin ci arriverà da detenuto. Londra poi, non poteva mancare – ovvio.

 

Sono giorni tuttavia, che il Volodymyr è nervoso. Domenica a Berlino ha lasciato il suo cellulare in un’auto, prima che un agente di polizia lo ricongiungesse con esso. Si era recato in macchina alla Cancelleria tedesca domenica pomeriggio, dove ha tenuto un incontro con il cancelliere Olaf Scholz. Le foto pubblicate da Bild mostrano che è stato portato su un elicottero dopo l’appuntamento, ma ha lasciato il cellulare in macchina. Immediatamente prima della partenza dell’elicottero, un ufficiale della polizia criminale federale ha individuato il dispositivo e lo ha portato di corsa all’ucraino.

 

Tutto questo è stato riferito il tabloid tedesco Bild. Bisogna tenere a mente che, secondo i documenti del Pentagono trapelati, quel telefono non può che essere intercettato come nessun altro.

 

Anzi diciamo pure che le intercettazioni su Zelens’kyj uscite in questi giorni – sul Washington Post, non su un canale Telegram russofilo – fanno capire che la figura è più preoccupante di quanto già non pensiate.

 

Secondo i nuovi Pentagon leaks, nonostante l’assicurazione pubblica che avrebbe limitato l’azione militare ai confini del suo paese nel 1991, Zelens’kyj ha elaborato piani per condurre attacchi in profondità all’interno della Russia e ha suggerito di «distruggere» l’industria dell’Ungheria.

 

Citando i rapporti dell’intelligence statunitense recentemente pubblicati su un server di gioco, il WaPo ha scrive che Zelenskyj avrebbe suggerito in una riunione dello scorso gennaio che le sue truppe «conducessero attacchi in Russia», mentre attraversavano il confine per «occupare città di confine russe non specificate» al fine di «dare La leva di Kiev nei colloqui con Mosca». Ricorderete, in quei giorni, un attacco terroristico nell’oblast’ di Brjansk che fece due morti; i perpetratori dissero di agire con l’approvazione di Kiev, ma al tempo era difficile capire cosa stessa accadendo.

 

Mentre i sostenitori occidentali dell’Ucraina erano fino a poco fa riluttanti a fornirgli missili a lungo raggio per paura che li usasse contro obiettivi all’interno della Russia, Zelens’kyj già suggeriva al suo principale comandante militare, il generale Valery Zaluzhny, di usare i droni per «attaccare luoghi di schieramento non specificati a Rostov», che è una città russa distante dai confini. Detto, fatto: prima e dopo il presunto incontro, le forze ucraine hanno utilizzato i droni per attaccare le infrastrutture nella regione di Rostov, che confina con l’ex territorio ucraino di Lugansk.

 

Poi il capolavoro. L’operazione da vero, grande amico della UE e della NATO, cui anela fortemente di far parte. In un incontro con il vice primo ministro Yulia Svridenko a febbraio, Zelensky avrebbe suggerito all’Ucraina di «far saltare in aria» l’oleodotto Druzhba («amicizia», in russo), che trasporta il petrolio russo in Ungheria. Secondo i documenti citati dal quotidiano di Washington, lo Zelens’kyj avrebbe detto che «l’Ucraina dovrebbe semplicemente far saltare in aria l’oleodotto e distruggere… l’industria ungherese [del primo ministro] Viktor Orban, che si basa pesantemente sul petrolio russo».

 

Le spie americane che intercettavano Zelens’kyj minimizzavano: si trattava di «minacce iperboliche e senza senso». Eccerto. Tuttavia, l’oleodotto Druzhba è stato attaccato in diverse occasioni dall’incontro, l’ultima volta quando è stato colpito da esplosivi lanciati da droni lo scorso mercoledì. L’Ungheria, rammentiamo, è sia nella UE che soprattutto nella NATO. Un attacco a Budapest farebbe scattare l’articolo 5, quindi tutti contro Kiev. No? Non è andata esattamente così quando gli ucraini hanno ammazzato cittadini polacchi, su territorio polacco, con dei missili chissà come andati a Nord-Ovest invece che a Sud-Est. Misteri.

 

Non è finita. In un episodio che mostra la vetta inimmaginabile raggiunta dalla censura in Occidente, abbiamo visto uno dei maggiori quotidiani del pianeta autocensurare, per carità di patria (ucraina), alcuni commenti rilasciati da Zelens’kyj, oramai incontrovertibilmente fuori controllo.

 

Il Washington Post infatti ha tagliato un ampio segmento da un’intervista con il presidente-attore, in cui questi spingeva il giornale a rivelare presunti traditori tra le sue fila e accusava con rabbia i giornalisti del WaPo di aiutare la Russia pubblicando informazioni da documenti trapelati.

Citando documenti del Pentagono trapelati di recente, il Post stava spiegando a Zelens’kyj durante le interviste che le spie americane avevano preso nota un incontro tra il presidente e il capo del servizio ucraino GUR Kirill Budanov a febbraio in cui questi gli aveva detto di aver appreso di un piano Wagner per «destabilizzare la Moldavia», dicendo altresì che era in grado contrastare questo presunto piano esponendo i suoi «affari» con Prigozhin, descrivendo il boss Wagner come «un traditore che ha lavorato con l’Ucraina».

 

Zelens’kyj ha risposto con rabbia, prima chiedendo chi all’interno del suo governo avesse consegnato questo documento al Post. Chiunque fosse, ha detto, stava commettendo «alto tradimento», che «è il crimine più grave nel nostro Paese». Non sappiamo in Ucraina, ma negli USA la pena per il tradimento è la morte per esecuzione. È questo che il re di Kiev sta invocando? Pena di morte immediata?

 

Ad occhio, l’eroe non deve fidarsi moltissimo di chi gli sta intorno. Nonostante gli fosse stato detto che il documento non proveniva da Kiev, ma da Washington, Zelens’kyj ha chiesto al suo intervistatore «con quale funzionario ucraino ha parlato?»

 

Insomma, giornalista, fuori la fonte: che devo mettere al muro qualcuno, mi sa.

 

Sissì, nervosetto. E non chiedete come mai, perché la spiegazione più semplice – quella da Rasoio di Occam – è solo un’illazione disgustosa. La paranoia magari gli è venuta così, naturalmente, senza bisogni di aiuti.

Il WaPo tuttavia non ha ancora pubblicato un articolo basato su quel documento, e quando è stato informato che era il primo funzionario ucraino con cui il giornale aveva parlato, lo Zelens’kyj ha esortato il suo intervistatore a non pubblicare l’articolo, sostenendo che così facendo avrebbe «demotivato l’Ucraina» e accusando i giornalisti di «giocare con me».

 

«In questo momento stai giocando con, credo, cose che non vanno bene per la nostra gente», ha tuonato il presidente ucraino, chiedendo al giornalista del Washington Post: «il tuo obiettivo è aiutare la Russia?» Quando il giornalista ha detto che non era così, Zelens’kyj ha ribattuto che «beh, sembra diversamente».

Qui arriva il colpo di scena – e il colpo di grazia per l’attendibilità del giornalismo occidentale. Domenica, però, la conversazione di cui sopra – durante il quale Zelensky non ha contestato che l’incontro con Budanov fosse avvenuto – era stato fatto sparire dalla trascrizione online della conversazione sul Washington Post. Sul documento l’intero scambio di ben 1.400 parole è stato rimosso, senza spiegazione alcuna.

 

L’autocensura del prestigioso quotidiano della capitale USA non è il primo incidente in cui in Occidente si cancella informazioni potenzialmente imbarazzanti o dannose per il regime Kiev. A dicembre, la Commissione europea aveva cancellato un video e la relativa trascrizione in cui il presidente della Commissione Ursula von der Leyen affermava che l’esercito ucraino aveva subito 100.000 vittime dall’inizio dell’operazione militare russa dieci mesi prima. «Sono solo 10 mila» attaccò subito il consigliere di Zelens’kyj Oleksij Arestovich – lo stesso che, come riportato da Renovatio 21, ad una certa saltò fuori con l’idea di Zelens’kyj monarca alla Tolkien.

 

Lo avevamo scritto quando, sbalorditi, avevamo notato che non vi era stata nessuna reazione da parte di giornali e politica in Europa e America quando, nei primi giorni del conflitto, venne giustiziato brutalmente per strada uno dei negoziatori ucraini, Denis Kireev. Un omicidio efferato di cui sappiamo ancora poco, se non che sono stati gli ucraini, che neanche hanno fatto lo sforzo di dare la colpa ad improbabili agenti russi.

 

Lo sbalordimento è continuato: parlamentari assassinati, ragazze russe fatte saltare in aria, intellettuali russi disintegrati nei caffè o per strada: e il tutto oramai rivendicato apertamente dai vertici, da quello stesso capo dei servizi Budanov dell’intercettazione sulla Moldavia. E poi ancora, un ignaro camionista mandato sul ponte di Crimea a morire nella detonazione che doveva rovinare il compleanno di Putin.

 

C’è, dietro a tutto questo sangue, una mente infantile, psicotica, nichilista, oscena – goffa, pure. C’è ovviamente un netto divorzio dalla realtà, che permette spargimenti di sangue indicibili, che vediamo talvolta in scene di crudeltà che arrivano dal fronte.

 

Lo ripetiamo a quelli che si spellano le manine con gli applausi e, prosciutto oftalmico ben saldo in faccia, sbianchettano i vecchi articoli in rete: non avete capito con chi avete a che fare.

 

Non avete capito lo stato psicologico di Zelens’kyj, e di quelli che gli stanno intorno. Non avete capito che l’intero apparato apocalittico sopranazionale che gli sta dietro vuole che sia proprio così – scostante, furioso, incerto, scollato dalla realtà, paranoide, fuori controllo: quindi totalmente manipolabile. Il pupazzo giusto per portare il mondo alla catastrofe.

 

Perché, a questo punto lo crediamo, è questo che vogliono.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di Pubblico Dominio CC0 via Flickr.

 

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Scade il mandato di Zelens’kyj. Medvedev: «obiettivo legittimo», l’Ucraina è «un classico Stato fallito»

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Il mandato quinquennale di Volodymyr  Zelens’kyj come presidente dell’Ucraina si è concluso lunedì 20 maggio. I suoi critici, specie russi, ora sollevano dubbi sulla sua legittimità come capo di Stato.

 

Il 31 marzo avrebbero dovuto svolgersi in Ucraina le elezioni presidenziali. Tuttavia, Zelens’kyj ha annunciato nel dicembre 2023 che non si sarebbero svolte elezioni presidenziali o parlamentari finché sarà in vigore la legge marziale.

 

La legge marziale è stata imposta dopo l’inizio del conflitto con la Russia nel febbraio 2022 e da allora è stata più volte prorogata dalla Verkhovna Rada, il Parlamento monocamerale ucraino.

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All’inizio dell’anno lo Zelens’kyj aveva ribadito che le elezioni sono «premature» a causa della guerra e della mobilitazione nazionale. Mercoledì scorso i legislatori hanno prolungato le misure di emergenza di altri tre mesi.

 

Non è tardata la reazione del  capo del Consiglio di sicurezza russo, il sempre più fumantino, sempre meno diplomatico, sempre più apocalittico Dmitrij Medvedev.

 

Ieri l’ex presidente della Federazione Russa ha sostenuto che annullando le elezioni il leader ucraino ha «sputato» sulla costituzione nazionale, ha ignorato la Corte costituzionale e ha optato per «l’usurpazione del potere supremo».

 

Parlando all’agenzia di stampa TASS, Medvedev ha suggerito che lo Zelens’kyj teme di dover affrontare una competizione con l’ex capo militare ucraino, generale Valerij Zaluzhny e con l’ex presidente Pyotr Poroshenko, poiché avrebbero «troppe carte vincenti».

 

«Tutte queste manipolazioni con le leggi significano solo una cosa: la morte dello stato fallito dell’Ucraina, la sua trasformazione in un classico stato fallito, per usare il vocabolario americano», ha dichiarato il Medvedev all’agenzia russa.

 

Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sostenuto gli sforzi di Zelens’kyj per rimanere al potere perché temevano «la vergognosa caduta del suo regime criminale», ha sottolineato l’alto funzionario del Cremlino.

 

«Ecco perché c’è un’alta probabilità che Zelenskyj avrebbe perso miseramente queste elezioni, e i cittadini del suo Paese inesistente avrebbero voluto un nuovo presidente nella speranza che avviasse i negoziati di pace con la Russia», ha tuonato sempre più incontenibile l’ex presidente russo.

 

Medvedev ha proseguito la tirata dicendo ai giornalisti che Zelens’kyj è «un parvenu politico» che ha vinto nel 2019 proprio perché ha condotto una campagna «sulla retorica della pace». Tuttavia, i sostenitori occidentali del regime di Kiev non potevano permettere la pace perché «guadagnano bene con i sanguinosi baccanali», ha sentenziato.

 

In quanto leader di un «regime politico ostile», lo Zelens’kyj sarebbe un obiettivo militare legittimo, ha continuato Medvedev nelle dichiarazioni alla TASS, spiegando come la questione della legittimità di Zelens’kyj come presidente non rivesta particolare importanza per Mosca.

 

«Per la Russia, la definitiva perdita di legittimità da parte dello pseudopresidente dell’ex Ucraina non cambierà nulla», ha dichiarato l’ex presidente russo, sottolineando che i leader dei Paesi che fanno la guerra sono «sempre considerati» un obiettivo militare legittimo.

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Medvedev è arrivato a definire Zelens’kyj come «criminale di guerra», che dovrebbe essere catturato e assicurato alla giustizia o «liquidato come terrorista» per i suoi crimini contro russi e ucraini, riporta il sito governativo russo RT, e non ha lesinato discorsi piuttosto minacciosi come quando ha parlato del destino del vertice ucraino che, secondo le parole di Medvedev può essere catturato e processato, oppure incontrare la stessa sorte del «maestro spirituale» Stepan Bandera, leader dei nazionalisti integralisti ucraini collaborazionisti hitleriani assassinato da agenti sovietici a Monaco nel 1959.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Medvedev aveva dichiarato il mese scorso che a complottare per l’eliminazione di Zelens’kyj sarebbero le stesse forze occidentali sue alleate.

 

Zelens’kyj è apparso sulla lista dei ricercati del Ministero degli Interni russo all’inizio di questo mese, anche se non sono stati rilasciati dati sui procedimenti penali contro di lui.

 

Ad ogni modo, il Medvedev, ha respinto l’idea che qualcosa di sostanziale cambierà in Ucraina dopo il 21 maggio. Gli ucraini «non vivevano comunque in uno Stato di diritto», ha detto, sostenendo che «la legge e la giustizia sono state dimenticate dieci anni fa», con il colpo di Stato di Maidan sostenuto dagli Stati Uniti a Kiev e l’inizio del conflitto nel Donbass.

 

Come riportato da Renovatio 21, usando la legge marziale per rimandare le elezioni, l’anno scorso Zelens’kyj era arrivato a far capire all’Europa che avrebbe tenuto le elezioni se gliele avessero pagate. Alcuni sostengono che la visita canterina del segretario di Stato Blinken a Kiev la scorsa settimana significhi il semaforo di verde di Washington all’assenza di consultazioni popolari: del resto, la democrazia si difende così, saltando le elezioni.

 

Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha recentemente affermato che «verrà presto il momento in cui molte persone, comprese quelle in Ucraina, metteranno in dubbio la legittimità» dello Zelens’kyj.

 

Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato venerdì, durante la sua visita di Stato in Cina, che la questione della legittimità di Zelens’kyj è qualcosa che «il sistema politico e giuridico dell’Ucraina» deve affrontare, «prima di tutto la Corte Costituzionale», osservando che la Costituzione di Kiev consente «diverse opzioni».

 

«Per noi questo è importante perché se si tratta di firmare qualsiasi documento, sicuramente dovremmo firmare documenti su una questione così importante con le autorità legittime», ha spiegato Putin, rivelando che il Cremlino aveva mantenuto contatti regolari con il presidente Zelenskyj prima dello scoppio delle ostilità.

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Geopolitica

Gli israeliani negano il coinvolgimento nella morte del presidente iraniano

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Il governo israeliano non ha nulla a che fare con la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero domenica, ha riferito Reuters, citando un funzionario anonimo.   Raisi e molti altri funzionari iraniani, tra cui il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, sono rimasti uccisi quando l’elicottero su cui viaggiavano è precipitato nella provincia montuosa dell’Azerbaigian orientale, nel nord-ovest dell’Iran. Dopo più di dieci ore di ricerche – ostacolate dalla nebbia e dalla pioggia – il presidente e il suo entourage sono stati confermati morti.   Sabato il capo dello Stato si era recato nella regione di confine dopo essersi unito al presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev per inaugurare una diga. Raisi si era impegnato a visitare ciascuna delle 30 province dell’Iran almeno una volta all’anno, e quindi viaggiava regolarmente per il paese.

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La sua morte ha fatto ipotizzare che dietro l’incidente potrebbe esserci Israele, nemico di lunga data dell’Iran, scrive RT.   Lunedì un funzionario israeliano, che ha chiesto l’anonimato, ha negato il coinvolgimento della nazione nell’incidente, dicendo a Reuters «Non siamo stati noi».   L’ultima ondata di tensioni tra Israele e Iran è iniziata il 1° aprile, dopo che un presunto attacco aereo israeliano ha colpito il consolato iraniano nella capitale siriana Damasco. L’attacco ha ucciso sette ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), tra cui due generali di alto rango.   In risposta, Teheran ha lanciato decine di droni e missili contro Israele, che in seguito ha reagito con una manciata di droni e missili lanciati dall’aria.   La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il “regime sionista”, come chiama Israele.   Il ministro israeliano del Patrimonio, Amichai Eliyahu – noto per aver dichiarato la possibilità di nuclearizzare Gaza –  ha reagito alla notizia della morte di Raisi pubblicando l’immagine di un bicchiere di vino su X, accompagnata da un «cin-cin» nella didascalia.   Avigdor Lieberman, ex ministro della Difesa e leader del partito di opposizione di destra Yisrael Beiteinu, ha dichiarato al sito di notizie Ynet che Israele «non verserà una lacrima per la morte del presidente iraniano».   Il leader supremo iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato cinque giorni di lutto nel Paese per le vittime dell’incidente. Il vice di Raisi, Mohammad Mokhber, ha assunto la presidenza dopo l’approvazione di Khamenei lunedì. Mokhber manterrà la carica per 50 giorni fino allo svolgimento delle elezioni.

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Solo poche settimane fa il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.   «Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», aveva detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.   Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.   Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.   Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.   Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».

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Immagine di President of Russia via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
     
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La Spagna richiama l’ambasciatore dopo che Milei dice che la moglie del primo ministro è «corrotta»

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La Spagna ha richiamato il suo ambasciatore in Argentina e ha chiesto scuse dopo che il presidente argentino, Javier Milei, ha fatto commenti sprezzanti sulla moglie del primo ministro spagnolo Pedro Sanchez durante una manifestazione politica nella capitale Madrid.

 

Intervenendo domenica a un evento organizzato dal partito spagnolo di estrema destra Vox – dove a partecipato in teleconferenza anche il premier italiano Giorgia Meloni, habitué degli eventi di Santiago Abascal – il Milei ha bollato Begona Gomez, consorte del premier Sanchez, come «corrotta» e ha descritto il socialismo come «maledetto e cancerogeno».

 

Le osservazioni arrivano dopo che un tribunale di Madrid il mese scorso ha avviato un’indagine sul presunto spaccio di influenza e corruzione di Gomez. Sotto inchiesta anche il PSOE, Partito Socialista Operaio spagnuolo guidato dal marito ora al potere in Ispagna.

 


 

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«Le élite globali non si rendono conto di quanto possa essere distruttivo attuare le idee del socialismo… anche se hai una moglie corrotta, diciamo, si sporca e ti prendi cinque giorni per pensarci», ha affermato Milei , riferendosi alla pausa di cinque giorni dai pubblici uffici che Pedro Sanchez ha preso in seguito alle accuse contro la moglie.

 

«Non lasciamo che il lato oscuro, nero, satanico, atroce, orribile e cancerogeno che è il socialismo prevalga su di noi», ha aggiunto promuovendo i suoi libri sul libertarismo a una festa dopo la manifestazione.

 

Il ministro degli Esteri spagnolo Jose Manuel Albares ha immediatamente chiesto scuse pubbliche a Milei per i commenti, sostenendo che il suo comportamento «ha portato il rapporto tra Spagna e Argentina al suo stato più serio nella storia recente».

 

«È inaccettabile che un presidente in carica in visita in Spagna insulti la Spagna e il primo ministro spagnolo, un fatto che rompe con tutte le consuetudini diplomatiche e le regole più elementari di convivenza tra paesi», ha detto Albares in una dichiarazione video pubblicata su X domenica.

 

«Per questo motivo ho appena richiamato per consultazioni il nostro ambasciatore a Buenos Aires “sine die“», ha aggiunto il ministro.

 

Non è previsto che Milei incontrerà il primo ministro spagnolo o il re Felipe VI durante la sua visita, il che va contro il protocollo diplomatico. Il presidente sudamericano ha quindi rifiutato di scusarsi per le sue osservazioni, con un portavoce che ha detto che i funzionari spagnoli dovrebbero invece ritrattare i presunti insulti che hanno fatto contro il presidente argentino.

 

I rapporti tra Spagna e Argentina sono in declino dall’ascesa al potere di Milei a dicembre. Il premier Sanchez aveva sostenuto alle elezioni il rivale di Milei, Sergio Massa, e, secondo quanto riportato, non è stato in contatto con il leader argentino dopo la sua vittoria.

 

All’inizio di questo mese, il ministro dei trasporti spagnolo Oscar Puente aveva affermato che il presidente argentino aveva «ingerito sostanze» durante la sua campagna elettorale, alla quale Milei ha risposto con una dichiarazione in cui criticava le politiche del PSOE e indicava le accuse di corruzione contro la moglie di Sanchez.

 

Il Sanchez sostiene che non c’è verità nelle accuse mosse alla moglie e ha chiesto l’archiviazione del caso.

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La Spagna si accoda ad una serie di Paesi che hanno in questo momento gravi problemi diplomatici con Buenos Aires.

 

La Repubblica Popolare Cinese ha risposto pubblicamente ai piani annunciati da Milei in campagna elettorale di rompere i legami (perlomeno commerciali) tra l’Argentina e Pechino.

 

La Colombia ha espulso tutti i diplomatici argentini dopo che Milei ha definito il presidente colombiano Petro «assassino terrorista». Da notare come due settimane fa la Bogotá abbia rotto tutti i rapporti con Israele, Paese nel cuore del presidente argentino.

 

Come riportato da Renovatio 21, scorso mese Milei – che è consigliato da rabbini lubavitcher e sarebbe sul punto di «convertirsi» al giudaismo – ha offerto dichiarazioni di «chiaro e inflessibile sostegno a Israele» contro l’Iran, arrivando ad invitare l’ambasciatore dello Stato Ebraico a partecipare a una riunione del «gabinetto di crisi» argentino. La mossa, secondo quanto riferito, ha mandato in subbuglio i diplomatici argentini.

 

A fine 2023, prima di salire sul palco di una trasmissione TV di capodanno e limonare pubblicamente con la presentatrice all’epoca sua fidanzata, Milei aveva dichiarato l’intenzione di far uscire l’Argentina dai BRICS.

 

C’è da dire che in tutto questo marasma, una relazione internazionale il Milei pare averla sanata: quella con il Vaticano, dove ha abbracciato il papa suo connazionale dopo averlo chiamato, tra gli altri epiteti, «imbecille», «rappresentante del maligno», «affine ai comunisti assassini».

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