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Geopolitica

Jeddah: il piano di sviluppo lascia oltre 500mila persone senza casa

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Un rapporto di Amnesty International parla di demolizioni indiscriminate e insensibili. Colpiti almeno 558mila abitanti, agli stranieri negati anche i risarcimenti promessi dallo Stato. Dietro l’immagine di nazione «progressista e sfarzosa» emergono «storie orribili di abusi e violazioni». 

Le demolizioni indiscriminate e «insensibili» avviate dalle autorità saudite nel piano di sviluppo e rilancio della città portuale di Jeddah, che coinvolgono almeno 558mila abitanti, sono «discriminatorie» e violano le norme internazionali in tema di diritti umani.

 

A lanciare l’accusa in un rapporto pubblicato nei giorni scorsi è Amnesty International, secondo cui gli sgomberi forzati e gli abbattimenti per far posto a un nuovo progetto di urbanizzazione in chiave moderna hanno colpito duramente i lavoratori migranti stranieri.

 

Fra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, i vertici amministrativi hanno cacciato centinaia di migliaia di persone dalle loro case. Dai documenti della municipalità di Jeddah emerge che agli espropri dovrebbero corrispondere una serie di risarcimenti, promessi a titolo compensativo; tuttavia, da questa norma sono esclusi gli stranieri e gli immigrati che costituiscono, in realtà, il 47% del totale di quanti sono costretti a cercare una nuova sistemazione.

 

Diana Semaan, vice-direttrice ad interim di Amnesty International per il Medio oriente e il Nord Africa, sottolinea che «dietro l’immagine progressista e sfarzosa che l’Arabia Saudita sta cercando di presentare al mondo, ci sono storie orribili di abusi e violazioni».

 

«Non solo – prosegue l’attivista – hanno cacciato i residenti dalle loro case, senza alcuna sensibilità e dando loro il tempo di andarsene o risarcimenti adeguati per trovare un’alternativa, ma hanno anche discriminato centinaia di migliaia di cittadini stranieri escludendoli dal regime di compensazione».

 

Alcuni abitanti di Jeddah interpellati da Middle East Eye nel gennaio scorso hanno detto di essere stati colti «di sorpresa» dalle demolizioni e di aver avuto «pochissimo tempo» per trovare un’altra sistemazione o di salutare i vicini, con i quali hanno convissuto per generazioni. Alcuni sono stati costretti ad abbandonare i mobili all’aperto, trovando rifugio sotto i ponti. Una ricerca del gruppo attivista ALQST pubblicata ad aprile conferma che le demolizioni sono state mal gestite, con oltre il 71% degli intervistati che ha rivelato di non aver ricevuto alcuna forma di sostegno.

 

Jeddah è la seconda città per numero di abitanti del regno wahhabita e ospita fino a 4,5 milioni di persone. È un importante centro economico e la porta d’accesso alla Mecca per milioni di fedeli musulmani, ogni anno, sulla strada dell’Hajj (il pellegrinaggio maggiore). I quartieri sinora oggetto di demolizione si trovano a sud, in un’area vista da molti come il cuore e l’anima stessa della città che affaccia sul mar Rosso.

 

Il settore meridionale è stato a lungo relegato ai margini dei grandi progetti di sviluppo, mentre tutti i piani e gli investimenti si concentravano a nord. Tuttavia, la zona sud di Jeddah presenta delle peculiarità che la rendono unica, per il suo essere vivace a livello sociale e multietnica, per il flusso migratorio che da decenni ha determinato una profonda commistione urbana.

 

Tuttavia, il rapporto di Amnesty mostra come la narrativa di Stato saudita abbia a più riprese stigmatizzato questa caratteristica unica, attaccando gli abitanti dell’area e collegandoli a «malattie, crimini efferati, traffico di stupefacenti e furti».

 

Il piano di sviluppo che ha determinato la cacciata di oltre mezzo milione di persone da Jeddah è parte del programma riformista a livello economico, sociale e culturale chiamato «Vision 2030» e voluto in prima persona dal principe ereditario Mohammad bin Salman (MbS). Un progetto ad ampio respiro che tocca diversi settori della vita del Paese, ma che rischia di relegare ai margini le fasce più povere e deboli come emerge dalla vicenda del «martire di Neom», un eroe della lotta anti-esproprio ucciso dalle forze di sicurezza.

 

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

Trump: Zelens’kyj deve essere «realista»

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Il presidente statunitense Donald Trump ha dichiarato che Volodymyr Zelens’kyj deve fare i conti con la realtà del conflitto contro la Russia e con l’urgenza di indire nuove elezioni.

 

Il mandato presidenziale quinquennale di Zelens’kyj è scaduto a maggio 2024, ma il leader ucraino ha sempre escluso il voto per via della legge marziale in vigore. Vladimir Putin ha più volte sostenuto che lo Zelens’kyj non può più essere considerato un interlocutore legittimo e che la sua posizione renderebbe giuridicamente problematico qualsiasi accordo di pace.

 

Mercoledì Trump ha affrontato la questione Ucraina in una telefonata con i leader di Regno Unito, Francia e Germania. «Ne abbiamo parlato in termini piuttosto netti, ora aspettiamo di vedere le loro risposte», ha riferito ai giornalisti alla Casa Bianca.

 

«Penso che Zelens’kyj debba essere realista. Mi domando quanto tempo passerà ancora prima che si tengano le elezioni. Dopotutto è una democrazia… Sono anni che non si vota», ha aggiunto Trump, sottolineando che l’Ucraina sta «perdendo moltissima gente».

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Il presidente americano ha poi sostenuto che l’opinione pubblica ucraina sia largamente favorevole a un’intesa con Mosca: «Se guardiamo i sondaggi, l’82 % degli ucraini vuole un accordo – è uscito proprio un sondaggio con questa cifra».

 

Trump ha insistito sulla necessità di chiudere rapidamente il conflitto: «Non possiamo permetterci di perdere altro tempo».

 

Secondo Axios e RBC-Ucraina, Kiev ha trasmesso agli Stati Uniti la sua ultima proposta di pace. Zelens’kyj , che fino a ieri escludeva elezioni in tempo di legge marziale, ha dichiarato mercoledì di essere disposto a indire il voto, a patto però che Stati Uniti e alleati europei forniscano solide garanzie di sicurezza.

 

Il consenso verso Zelens’kyj è precipitato al 20 % dopo uno scandalo di corruzione nel settore energetico che ha travolto suoi stretti collaboratori e provocato le dimissioni di diversi alti funzionari. Trump ha più volte invitato il leader ucraino a tornare alle urne, ribadendo che la corruzione endemica resta uno dei problemi più gravi del paese.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

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Geopolitica

Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela

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Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.   L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.   «Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.   Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».   Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.  

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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.   Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.   Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.   Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».   Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.   Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.   «L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.   Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».   Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».  

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Immagine screenshot da Twitter

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.

 

Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.

 

«Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.

 

Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».

 

Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.

 

Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.

 

Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 

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