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Sanità

Non cercano il tasso di reinfezioni. Perché?

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Leggendo i vari report sanitari che da due anni vengono aggiornati quotidianamente da tutti i Paesi Occidentali, balza all’occhio una lacuna enorme. Questi report infatti non raccolgono il numero di ricontagi.

 

Le autorità sanitarie catalogano i casi COVID sotto molti parametri (età, genere, regioni geografiche, etc.) e la raccolta dati è stata ulteriormente aggiornata introducendo nuovi parametri monitoriati: ad esempio, avrete fatto caso che da dicembre 2021 – per argomentare l’utilità della terza dose – i report inglesi e italiani hanno introdotto lo screening di parametri nuovi come il conteggio dei casi positivi distinti tra persone vaccinate da più di 120 giorni e meno di 120 giorni.

 

Possiamo immaginare che questa raccolta dati sia stata aggiornata semplicemente facendo una domanda ai pazienti (o cercando banalmente nella rispettiva cartella clinica): quando il paziente aveva fatto l’ultima dose di vaccino? Più o meno di 120 giorni dal momento in cui è stato trovato positivo?

 

Però, facendo un po’ di storia delle gestione pandemica, balza all’occhio una lacuna incredibile: nessuno ha mai cercato se e quanto tempo prima un paziente fosse giù risultato positivo. Cioè, nessuno ha mai cercato qual è la possibilità di ricontagiarsi dal COVID.

 

Questo è ciò che permetterebbe di capire la copertura immunitaria acquisita naturalmente da infezione COVID e confrontarla con quella acquisita tramite le vaccinazioni disponibili.

 

Provate a fare questa domanda al ministero della Salute: un soggetto non vaccinato che ha avuto l’infezione può reinfettarsi e quando? Tale soggetto mai vaccinato e infettato può poi reinfettarsi più facilmente rispetto a un soggetto vaccinato che ha comunque avuto l’infezione?

 

Non è possibile rispondere, perché incredibilmente nessuna autorità sanitaria sta ricercando questo banale (e doveroso) parametro, per cui vi sono solo supposizioni basate su qualche screening a posteriori, i cui numeri non sono però divulgati né accertabili.

 

Troviamo da mesi opinioni discordanti a riguardo, espresse da qualche virostar sui giornali, senza che vi siano alle spalle dati strutturati, nemmeno si trattasse del campionato di fantacalcio.

 

Eppure i dati da studiare già esisterebbero: esistendo la banca dati su cui si fonda il green pass, sarebbe sufficiente estrarre i dati in modo anonimo e verificare quanti e quali pazienti hanno avuto più casi di reinfezione. Sarebbe un lavoro di Big Data che richiederebbe qualche ora coi moderni database in uso dalle autorità sanitarie. Quindi, virtualmente dato già esiste, ma nessuno lo estrae dai database del sistema sanitario.

Ora, non serve scomodare Conan Doyle, per dedurre che se questi dati portassero acqua al mulino della vaccinazioni del Ministero della Salute, li avremmo già visti raccolti e pubblicati. Ma così non è.

 

Esattamente come abbiamo visto introdotto il parametro «vaccinato da più di 120 giorni» a dicembre 2021 per convincere le persone a farsi il booster. È altresì probabile che proprio tale parametro verrà tolto dai report qualora si scoprisse che anche la dose booster decade dopo 120 giorni.

 

Cosa che sembra ormai di dominio pubblico se ne parla pure il Corriere del 27 marzo:

 

«Quanto dura la protezione della terza dose di vaccino? Si tende a pensare che la durata sia di almeno quattro mesi, ma il tempo varia da individuo a individuo in quanto la risposta allo stimolo vaccinale è molto soggettiva».

 

Il fatto, dunque, che il tasso di reinfezioni non sia mai stato pubblicato – nonostante sarebbe già raccolto e potenzialmente processabile come spiegato sopra – lascia dedurre che il regime sanitario troverebbe in esso un argomento sfavorevole alle direttive dell’autorità.

 

Di quale argomenti si potrebbe trattare?

 

Le ipotesi si stringono a due:

 

1) potrebbe emergere che la percentuale di persone non vaccinate o vaccinate che contrae infezione sviluppa una protezione naturale molto duratura. E siccome le persone che hanno avuto il COVID sono stimate a circa il 30 % della popolazione totale, questo toglierebbe argomenti per obbligare ai richiami il 30% della popolazione. Dunque, se ci svelassero che un contagiato è altamente coperto da reinfezione per 12 mesi, avremmo un argomento scientifico facile per rifiutare la vaccinazione per i prossimi 12 mesi.

 

Più il governo ti rivela che un guarito è coperto, più si abbassa lo stato di emergenza sanitaria. Fino a diventare endemia, cioè un virus col quale si convive, come tanti.

 

Ecco che allora il governo sanitario non deve renderlo noto e deve far credere di essere sempre altamente esposti al pericolo di ricontagio.

 

2) oppure potrebbe emergere qualcosa di ancora più sfavorevole al regime sanitario vaccinista: si potrebbe scoprire che una persona mai vaccinata e contagiata sviluppa una difesa contro la reinfezione superiore a quella di un soggetto vaccinato e infettato.

 

Questo scenario scatenerebbe addirittura una richiesta di risarcimento danni da parte dei soggetti vaccinati, visto che la vaccinazione risulterebbe peggiorativa.

 

Un soggetto non a rischio – prendiamo un ragazzo – direbbe infatti «mi sarebbe allora convenuto fare il COVID piuttosto che sottopormi alle tue 3 dosi di vaccino».

 

L’idea può essere venuta a moltissimi, vista l’aneddotica circolata soprattutto durante l’ultima ondata, quella di inizio inverno: soggetti giovani guariti non contagiati, nonostante contatto pieno con i positivi; soggetti omologhi freschi di booster ammalati.

 

Questo dimostrerebbe che in certi soggetti l’immunità naturale acquisita è potente e duratura.

 

Esistono spiegazioni possibili a questa dinamica? Sì. E per certo alcune sono scientificamente basate.

 

A) I vaccini mRna «addestrano» il sistema immunitario a riconoscere la proteina spike del virus, che tuttavia rappresenta una parte specifica dello stesso. E siccome le vaccinazioni mRna ancora oggi in uso sono state progettate sulla spike della prima versione del COVID del 2020 (la variante Alfa), rimane plausibile che il sistema immunitario non riconosca allo stesso modo varianti che abbiano una proteina spike che si discosta di molto da quella Alfa.

 

La cosa invece non accade se il sistema immunitario ha imparato a riconoscere tutta la superficie del virus (e non solo la spike), cosa che tendenzilmente avviene a seguito di infezione naturale.

 

A questo punto – poiché non cercano questi dati come sopra spiegato – non è chiaro se un soggetto vaccinato che prenda il COVID riesca a sviluppare immunità su tutta la superficie del virus oppure se la vaccinaizone mRna gli precluda questa possibilità. Ciò  sarebbe un fenomeno gravissimo di immunodeficienza acquisita, di cui ci sono alcune recenti prove in laboratorio, e di cui parleremo in un altro articolo dedicato.

 

B) Un team italiano ha svolto uno studio pubblicato da Lancet a dicembre 2021 che avevamo già esposto su Renovatio 21. La vaccinazione mRNA elimina gli anticorpi neutralizzanti dalle mucose orali. Queste sono la prima barriera di contrasto all’infezione.

 

A questo riguardo si osserva che tale fenomeno accertato potrebbe essere peggiorativo anche della salute di soggetti non vaccinati che hanno sviluppato immunità naturale a seguito di infezione: noi siamo portati a credere che con le altre ondate influenzali (con altri coronavirus) il tasso di ricontagio fosse più basso di quello che vediamo oggi.

 

Ma in quei contesti non c’era il 90% della popolazione che aveva perso anticorpi neutralizzanti a seguito di vaccinazione mRNA.

 

Pertanto potremmo aver un numero maggiore di soggetti non vaccinati che sembrano sviluppare immunità naturale meno duratura rispetto alle altre forme influenzali per il semplice fatto che il 90% di popolazione vaccinata li espone a continui ricontagi. Cosa che normalmente non avviene perché il «gregge» aiuta a limitare la circolazione del virus.

 

In altre parole – avendo vaccinato il 90 % della popolazione che rimane poi priva di anticorpi neutralizzanti nelle mucose orali – si verificherebbe quella che potremmo chiamare una anti-immunità di gregge.

 

Cosa che nelle normali epidemie influenzali non avveniva.

 

C) con una normale influenza l’immunità naturale dura pochi mesi perché il sistema immunitario viene stimolato contemporanemente in milioni di soggetti ed in tutti questi la copertura va scemando simultaneamente. Ma che cosa accade se la diffusione del contagio viene dilazionata attraverso misure di contenimento (lockdown, isolamenti, mascherine e tamponi)?

 

Accade che un soggetto si troverà mediamente esposto a continui contatti col virus che ne stimoleranno continuamente la risposta immunitaria.

 

Dunque, un ragazzo che fosse guarito dal COVID – frequentando in seguito la scuola che mantiene misure di contenimento – potrebbe avere una risposta immunitaria al massimo grado per molti mesi: appunto perché i suoi compagni di classe non si ammalano tutti contemporanemante a lui, ma pochi alla volta. Si tratta di fatto di continui booster naturali per un soggetto già guarito. Dopo un certo arco di tempo tutta la classe dovrebbe trovarsi ad essere iper protetta e la circolazione sarebbe soffocata, essendo composta da soggetti guariti e ampiamente «boosterati» tra di loro.

 

Questo però non sta avvenendo, nonostante il tasso dei contagi sia sempre molto alto. Dunque, non dipende dal fatto che le misure di contenimento funzionino troppo efficacemente, bensì dipende necessariamente dal fatto che qualcuno non riesce mai ad acquisire immunità naturale rispetto al virus: cioè continua a contagiarsi e a ricontagiare.

 

Quanti sono? Domandiamo, non è che sono in maggioranza i soggetti vaccinati a presentare questo inconveniente?

 

Non lo sappiamo, perché nessuno cerca questo parametro.

 

Ma dovremmo cercarlo, perché se fossero i soggetti vaccinati a presentare questo inconveniente, significherebbe che proprio la campagna vaccinale prolungherà la circolazione del COVID all’infinito.

 

In conclusione, senza che le autorità sanitarie si degnino di pubblicare i dati sui ricontagi, tutte le questioni sopra indicate rimarranno indeterminate. È  questo che vogliono?

 

Lo stesso dicasi della questione legata alla «velocità di diffusione» delle nuove varianti. Quando sentiamo dire che le nuove varianti si sono diffuse perché sono più veloci a diffondersi, potremmo essere in presenza di una confusione logica tra effetto e causa.

 

Ad esempio, per ipotesi, il fatto che la variante Omicron si diffonda più velocemente della variante Delta potrebbe essere semplicemente l’effetto di un indebolimento collettivo del sistema immunitario causato dalla vaccinazione, e non la causa della minore performance del sistema immunitario rispetto alla variante. Cioè, significherebbe che, se nessuno si fosse vaccinato, la velocità di diffusione della variante Omicron sarebbe rimasta e percepita analoga a quella della Delta.

 

Esiste una prova di questa ipotesi?

 

Certamente esiste e l’abbiamo dimostrata su Renovatio 21 coi numeri dei report inglesi: dopo alcune settimane i vaccinati hanno un tasso di contagio che è il doppio rispetto ai non vaccinati.

 

Il che spiega come – visto dall’esterno – sembra che complessivamente la variante Omicron abbia una velocità di diffusine più elevata. In realtà non è la variante ad avere intrinscamente una maggiore velocità di diffusione, bensì la maggiore velocità di diffusione dipende dal fatto che essa trovi la strada spianata in una popolazione vaccinata al 90%.

 

Il sospetto è che nessun governo mai pubblicherà i dati sui ricontagi divisi per cluster (mai vaccinati, vaccinati doppia dose e vaccinati tripla dosi) perché questi argomenti diventerebbero autoevidenti. E i cittadini chiederebbero i danni o rigetterebbero ulteriori obblighi vaccinali.

 

A maggior ragione invece – se i dati sui ricontagi supportassero le campagne vaccinali – perché i governi non li hanno ancora pubblicati? Sarebbe così facile.

 

 

Gian Battista Airaghi

 

 

 

 

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Ospedale

«Sapevo che stavano uccidendo le persone»: un informatore afferma che i protocolli ospedalieri COVID hanno portato alla morte dei pazienti

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

In un’emozionante testimonianza sull’autobus «Vax-Unvax» di CHD, una programmatrice medica ospedaliera ha discusso dei protocolli ospedalieri e degli incentivi finanziari durante la pandemia di COVID-19 che, a suo avviso, hanno portato a morti prevenibili dei pazienti, compreso l’uso improprio di remdesivir e ventilatori e l’incapacità di indagare adeguatamente sui danni da vaccino.

 

«Gli ospedali sono diventati il ​​luogo in cui le persone vanno a morire invece che il luogo in cui vanno per guarire», ha detto Zowe (nome di fantasia), una programmatrice medica che ha lavorato per diversi ospedali di Phoenix, in Arizona, durante la pandemia di COVID-19.

 

In un’emozionante testimonianza con Polly Tommey sull’autobus «Vax-Unvax» di Children’s Health Defense (CHD) all’inizio di questo mese a Salem, Oregon, l’informatrice ha esposto le pratiche e i protocolli che, a suo avviso, hanno portato alla morte dei pazienti.

 

In qualità di programmatore medico, il compito di Zowe era rivedere le cartelle cliniche dei pazienti e assegnare codici per diagnosi e trattamenti. I codici determinavano il modo in cui venivano pagati gli ospedali e i medici.

 

«Io la chiamo l’intelligenza centrale dell’ospedale o la visualizzazione a livello di SimCity», ha detto.

 

Ma Zowe ha detto che ciò a cui ha assistito durante la pandemia l’ha lasciata sconvolta e l’ha costretta a parlare apertamente.


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Mancanza di pazienti COVID all’inizio della pandemia

Secondo Zowe, gli ospedali non erano a corto di posti letto quando è iniziata la pandemia ed è stata annunciata l’iniziativa «appiattire la curva».

 

«All’epoca non avevamo pazienti in ospedale. Hanno iniziato lentamente ad arrivare, forse dopo mesi e mesi», ha detto.

 

Nonostante il basso numero di pazienti, agli ospedali è stato chiesto di creare posti letto rimandando i pazienti a casa prima del solito. Zowe ha osservato che questa pratica rappresentava un cambiamento significativo rispetto ai protocolli pre-pandemia, poiché comportava una responsabilità finanziaria per gli ospedali.

 

«Se i pazienti tornassero, dovremmo pagare per le loro cure», ha spiegato. «È una regola Medicare, quindi era decisamente molto diversa».

 

Incentivi finanziari per il trattamento COVID

Nel 2020 sono stati introdotti nuovi codici ICD-10 (Classificazione internazionale delle malattie, decima revisione) per la diagnosi di COVID-19 e un codice aggiornato per i trattamenti con remdesivir correlati a COVID-19 , portando a significativi incentivi finanziari per gli ospedali che trattano pazienti affetti dal virus.

 

«Dovevano avere quella diagnosi per ottenere il bonus del 20% per i pazienti COVID», ha detto Zowe. Ha spiegato che un paziente a cui è stato somministrato remdesivir ha anche qualificato l’ospedale per «un ulteriore bonus del 20% nel pagamento a causa del rischio di una tecnologia non provata».

 

Gli ospedali inizialmente ricevevano idrossiclorochina gratuitamente dalle scorte nazionali e le persone trattate con essa «stavano effettivamente bene» prima che gli ospedali passassero improvvisamente a remdesivir, ha detto Zowe.

 

Tuttavia, dopo che i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno annunciato il nuovo codice ICD-10 per le infezioni da COVID-19, in vigore dal 1° aprile 2020, e la Food and Drug Administration statunitense ha concesso a remdesivir un’autorizzazione all’uso di emergenza il 1° maggio, le cose hanno cominciato a cambiare.

 

«Era come una linea nella sabbia», ha detto Zowe a Polly. «Abbiamo sospeso l’azitromicina e l’idrossiclorochina e siamo passati direttamente al remdesivir».

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Remdesivir e protocolli di ventilazione

Secondo Zowe, gli incentivi finanziari per l’uso del remdesivir hanno portato al suo uso diffuso, nonostante il rischio noto.

 

«L’ospedale aveva un protocollo sul remdesivir, sapevano che causava danni ai reni», ha detto Zowe. Ha spiegato che l’ospedale ha richiesto un consulto sulle malattie infettive e un consulto renale prima di somministrare il farmaco, e che i pazienti con malattia renale cronica di stadio 3 o superiore sono stati squalificati dal riceverlo.

 

Tuttavia, molti pazienti trattati con remdesivir hanno comunque sviluppato insufficienza renale nel giro di pochi giorni, ha affermato.

 

«Alcuni pazienti sono finiti a casa con prescrizioni di dialisi domiciliare, alcuni pazienti sono finiti in una lista di trapianti di rene, altri pazienti sono finiti con una malattia renale cronica dopo aver ricevuto remdesivir – se sono sopravvissuti», ha detto.

 

Zowe ha affrontato anche l’uso improprio dei ventilatori. «A un certo punto [il sistema intranet dell’ospedale] ha inviato un messaggio in cui si diceva che le impostazioni di FiO2 [concentrazione di ossigeno] sui ventilatori stavano uccidendo persone», ha detto. Ma quando tornò a cercare il messaggio, lo trovò cancellato.

 

Zowe ha detto a The Defender che dopo aver visto il messaggio, ha monitorato il numero di pazienti che morivano attaccati ai ventilatori per verificare che le impostazioni fossero state modificate, ma ha scoperto che «il protocollo era lo stesso e i pazienti stavano ancora morendo attaccati ai ventilatori».

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Pratiche di test PCR discutibili

Secondo Zowe, il CARES Act ha fornito finanziamenti per test PCR illimitati per il COVID-19 , il che ha portato a un cambiamento significativo nelle pratiche di test.

 

«Normalmente i test costano denaro agli ospedali, quindi a loro non piace fare molti test diagnostici», ha detto.

 

Tuttavia, con i nuovi finanziamenti e incentivi, gli ospedali sono passati dal testare solo i pazienti sintomatici a testare tutti i pazienti.

 

«I pazienti… venivano per la rimozione della cistifellea, una gamba rotta o un incidente in moto o in macchina o qualsiasi altra cosa», ha detto Zowe, «e mentre erano in ospedale, facevano lo screening».

 

«L’ottanta per cento della nostra popolazione di pazienti è diventata positiva al COVID, indipendentemente dal fatto che presentassero sintomi o meno, e ciò non era mai accaduto prima», ha affermato Zowe.

 

Zowe ha anche rivelato che i pazienti sono stati ripetutamente testati fino a ottenere un risultato positivo.

 

«Farebbero… sei, sette, otto test e sarebbero positivi, ma il paziente non avrebbe nulla di sbagliato e il medico sarebbe davvero confuso», ha detto.

 

In altri casi, i pazienti riceverebbero diversi test negativi seguiti da un unico risultato positivo, che verrebbe quindi utilizzato per giustificare il trattamento del paziente per COVID-19.

 

Zowe ha detto:

 

«Se risultassero positivi al COVID-19, allora inizierebbero il trattamento e li metterebbero sul ventilatore abbastanza presto. Avrebbero iniziato il remdesivir e poi avrebbero avuto insufficienza renale ed edema polmonare».

 

«Volevano semplicemente girare intorno allo scarico ed era come se nulla che l’ospedale potesse fare li avrebbe salvati… Le persone sono morte senza poter dire addio alle loro famiglie. Alcuni di loro hanno appena ricevuto una telefonata. Alcuni non hanno ottenuto nulla».

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Danni e morti da vaccino

Zowe ha anche assistito a un numero preoccupante di gravi reazioni avverse ai vaccini mRNA COVID-19.

 

«Non ho mai visto niente del genere», ha detto, descrivendo pazienti con insufficienza multiorgano che nel giro di poche ore sarebbero morti di fegato, polmone, rene… insufficienza respiratoria”, ha detto. «La chiamavano ‘”sepsi“».

 

Oltre all’insufficienza multiorgano, Zowe ha riferito di aver visto pazienti con convulsioni incontrollabili. «I pazienti diurni soffrivano di convulsioni e nessun farmaco potrebbe fermarle», ha detto. «Alla fine, hanno dovuto essere soppressi».

 

«L’hanno chiamata encefalite o encefalopatia e poi anche l’organizzazione di informazione sulla codifica – AHIMA – ha ammesso “encefalite associata a COVID-19“».

 

Altre lesioni da vaccino includevano coaguli di sangue insoliti, ictus e amputazioni.

 

Zowe ha descritto persone sane sui vent’anni, abituate a fare escursioni e correre maratone, che «all’improvviso hanno avuto bisogno di una gamba amputata perché avevano un enorme coagulo di sangue che andava dall’anca fino alla gamba».

 

Nonostante queste gravi reazioni, i medici spesso non sono riusciti a collegare le lesioni ai vaccini. «Dicevano semplicemente: “È un ictus, è un attacco di cuore, è un coagulo di sangue” e non collegherebbero mai le due cose», ha detto.

 

«Prima che lanciassero le iniezioni di mRNA, non sapevo che fosse possibile per un essere umano morire in modo così orribile e così rapido».

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Impossibilità di segnalare danni da vaccino

Secondo Zowe, i codificatori medici hanno dovuto affrontare sfide significative nel segnalare accuratamente le lesioni da vaccino COVID-19 a causa della mancanza di codici ICD-10 specifici.

 

«Non c’era modo per noi di segnalare effettivamente che qualcuno fosse arrivato con un infarto o una miocardite o convulsioni o encefalite o qualunque cosa fosse… a causa del vaccino COVID-19», ha detto a The Defender.

 

Ha affermato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ospita il sistema di codifica ICD-10, ha impiegato anni per rendere disponibile un codice specifico per le lesioni da vaccino COVID-19.

 

«La cosa migliore che potevamo fare era segnalarlo come dovuto a un “vaccino non specificato”», ha detto Zowe, sottolineando che questo codice era disponibile da decenni, insieme a codici di danno vaccinale più specifici per i vaccini per morbillo, parotite e rosolia o MPR, tetano e influenza.

 

Zowe ha affermato che è importante disporre di codici ICD-10 accurati per i danni da vaccino perché i ricercatori e i programmi di farmacovigilanza li utilizzano per monitorare gli effetti avversi durante gli studi clinici e la sorveglianza post-marketing.

 

I ricercatori che studiano la connessione tra miocardite e vaccini COVID-19 dovrebbero esaminare individualmente ogni tabella con il codice del «vaccino non specificato», ha spiegato Zowe, «e sperare che i dati siano abbastanza buoni per capire, beh, quale vaccino era?»

 

«Piangerei fino a dormire la notte»

L’esperienza di lavorare in un ospedale durante la pandemia ha avuto un impatto emotivo su Zowe. «Sapevo che stavano uccidendo delle persone. … Piangerei fino a dormire la notte», ha confessato. «C’è stata così tanta morte. Era quasi insopportabile».

 

Zowe ha deciso di lasciare il lavoro nell’aprile 2021 a causa degli obblighi di vaccinazione dell’ospedale. “Non mi sarei vaccinata e non mi sarei sottoposta al test PCR», ha detto. «Sapevo che non avrei potuto ottenere un’esenzione, quindi ho lasciato».

 

La sfiducia di Zowe negli ospedali e nei vaccini ha lasciato un impatto duraturo sulla sua vita. Quando Polly le ha chiesto se avrebbe portato qualcuno che ama in ospedale, Zowe ha risposto: «È una domanda davvero difficile perché voglio dire di no al 100%, ma ci sono alcune eccezioni… come quando ti si rompe il braccio».

 

Ha aggiunto: «dovrei conoscere il medico o il team di assistenza in quell’ospedale. Dovrei esaminarli».

 

Zowe ha detto a The Defender che spera di pubblicare un libro sulle sue esperienze entro la fine dell’anno.

 

John-Michael Dumais

 

© 25 aprile 2024, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Sanità

Fauci è un «animale politico disonesto ed egoista»: parla il responsabile della Sanità della Florida

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Il chirurgo generale della Florida, il dottor Joseph Ladapo, ha recentemente espresso un infuocato sfogo sugli orribili consigli medici forniti dal dottor Anthony Fauci durante la pandemia di COVID.   Durante un’intervista con l’attore Russell Brand, il dottor Ladapo ha affermato che Fauci è «un animale politico disonesto ed egoista che ha una formazione scientifica», aggiungendo che «è ovviamente una persona disonesta e inaffidabile».   Il dottor Joseph Ladapo non ha usato mezzi termini. Quando Russell Brand ha chiesto quali «lezioni possiamo imparare dalla figura di Anthony Fauci?», il medico harvardiano ha risposto che «forse la lezione numero uno è esaminare veramente chi fornisce le tue informazioni. Penso che molte persone, all’inizio, siano state completamente incantate dal dottor Fauci».

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Tuttavia, continua il chirurgo generale della Florida, «c’erano alcune voci che potevano vederlo per quello che è (…) E lui è un animale politico disonesto ed egoista che sembra avere una formazione scientifica».   «Lo abbiamo visto… ingannava le persone in tanti modi. L’intera faccenda della mascherina era semplicemente epica. Durante l’intervista con 60 Minutes [nota trasmissione di giornalismo della TV americana, ndr] diceva che “nessuno ha davvero bisogno di indossarne una”. Il che in realtà era coerente con la scienza, perché la scienza non era di supporto» all’uso dei filtri facciali, dice il Ladapo.   Poi, continua il medico floridiano, Fauci «ha ribaltato la sceneggiatura, e quando la pandemia stava effettivamente iniziando a calmarsi eravamo arrivati ​​a forse due o tre mascherine». Il lettore di Renovatio 21, può ricordare e confermare.   «Quindi devi guardare le fonti di informazione e sentire davvero se risuonano con te in termini di connessione con ciò che sembra vero» chiosa il dottore. «E lui chiaramente… non ho nulla contro di lui, in realtà… ma puoi guardarlo, ed è ovviamente una persona disonesta e inaffidabile».   Come riportato da Renovatio 21, il dottor Ladapo, appuntato come surgeon general (ossia come responsabile della sanità pubblica dello Stato) dal governatore della Florida Ron De Santis, quattro mesi fa ha avanzato pubblicamente la richiesta di sospendere l’uso dei vaccini mRNA.   La sanità floridiana, in questi anni, non si era mai tirata indietro dal segnalare come i sieri mRNA avessero causato un «aumento sostanziale» degli eventi avversi. Lo stesso governatore DeSantis ha annunciato che lo Stato della Florida riterrà responsabili i produttori per le affermazioni fatte sull’mRNA.   Fauci è oggetto di molteplici accuse, tra cui quelle del senatore del Kentucky Rand Paul, medico figlio di Ron Paul, che ha chiesto contro Fauci un’investigazione quantomeno per spergiuro. Numerose altre accuse sono piovute sul deus ex machina pandemico americano, come quella di aver negato ed ingannato sulle origini del COVID.   L’ex direttore dell’ente di controllo epidemico americano CDC Robert Redfield ancora l’anno scorso ha ripetuto di non avere «nessun dubbio» sul fatto che Fauci ha finanziato la ricerca Gain of Function che può aver portato alla pandemia COVID.

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Contro Fauci si espresse apertamente anche il miliardario Elone Musk, dicendo che i suoi pronomi erano «perseguite / Fauci» e che il Gain of Function «dovrebbe essere chiamato ricerca sulle armi biologiche poiché la sua funzione è la morte». Non una grinza, in effetti.   Renovatio 21 aveva riportato nel maggio 2020, a pandemia appena iniziata, l’implicazione del governo USA nel laboratorio di Wuhano. Robert F. Kennedy jr. aveva già dato l’allarme sul fatto che «il National Institute of Allergy and Disease Disease (NIAID) presieduto dal Dr. Anthony Fauci ha devoluto 3,7 milioni di dollari agli scienziati del laboratorio di Wuhan». Come avrebbe scritto anni dopo lo stesso Kennedy, il Fauci ha una «storia oscura» che deve essere portata alla luce.   La realtà è che i legami tra la sanità statunitense diretta da Fauci e Wuhano sono molto più profondi – e non solo della sanità USA.   Come ha detto il senatore Paul, «Fauci potrebbe essere il responsabile dell’intera pandemia».   L’Italia, tra diplomazia e indotti industrial-sanitari-universitari-statali vari, lo ha ovviamente ricoperto di premi.

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Sanità

La Francia multa i pazienti che mancano alle visite mediche

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Il governo francese propone di multare i pazienti che non si presentano alle visite mediche senza una buona scusa, ha annunciato il primo ministro Gabriel Attal.

 

Secondo quanto riferito, la politica mira a sostenere il servizio sanitario mentre fatica a far fronte alle crescenti richieste di una popolazione che invecchia, in mezzo alla carenza di personale e all’aumento dei costi.

 

L’Attal ha dichiarato lunedì che circa 27 milioni di pazienti ogni anno non si presentano alle visite mediche. «Non possiamo permettere che ciò continui», ha affermato il primo ministro, sottolineando che la nuova misura potrebbe liberare tra i 15 e i 20 milioni di appuntamenti all’anno per altri pazienti.

 

Il passo proposto farebbe parte di una legge che, se approvata dal parlamento, potrebbe entrare in vigore a partire da gennaio 2025. L’annuncio di Attal della proposta di sanzione di 5 euro per la mancata presentazione agli appuntamenti programmati è stato accolto con l’immediata protesta da parte dei sindacati dei medici e dei gruppi di pazienti.

 

«Non funzionerà. È solo una tassa… e il risultato finale sarà che il sistema sanitario perderà», ha detto al giornale britannico Guardian Patrick Pelloux, presidente dell’Associazione dei medici d’urgenza.

 

Il medico di famiglia Luc Duquesnel avrebbe dichiarato alla radio France Bleu che sarebbe meglio «educare le persone piuttosto che dire ai professionisti che devono tassarli, cosa che metterebbe a dura prova i rapporti con i nostri pazienti».

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Secondo Gerard Raymond, presidente dell’Associazione francese dei pazienti, contrario al provvedimento, la sanzione mira a far sentire i pazienti colpevoli piuttosto che responsabili.

 

Secondo il piano, i pazienti sarebbero obbligati a fornire i dettagli della carta di debito o di credito al momento di fissare un appuntamento. Se non si presentano senza dare almeno 24 ore di preavviso, i medici potrebbero multarli. I pazienti con un valido motivo per non presentarsi all’appuntamento sarebbero esentati.

 

Spetterebbe al medico decidere se il motivo della mancata visita fosse sufficientemente ragionevole da evitare la multa.

 

La carenza di medici è da tempo il problema più grande del sistema sanitario nazionale francese, insieme all’accesso alle cure e ai lunghi tempi di attesa, scrive RT.

 

Il premier Attal ha detto che cercherà anche di aumentare il numero di studenti che terminano la formazione medica ad alta pressione nel tentativo di affrontare una grave carenza di personale medico.

 

Secondo il primo ministro, il numero di studenti che accedono al secondo anno di laurea in medicina aumenterebbe da 10.000 all’anno nel 2023 a 12.000 nel 2025 e 16.000 nel 2027.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Francia ha appena costituzionalizzato la pratica dell’aborto procurato (in una nazione che nel 2021 ha contato, ufficialmente, un aborto ogni tre nascite), e si sta muovendo verso l’istituzione di un regime eutanatico che elimini anziani a pieno ritmo, un po’ come preconizzato dal grand commis parigino e ideologo globalista, Jacques Attali, il quale è mentore, più che di Attal, di Macron.

 

Il quale Macron pare impegnato a dichiarare ripetutamente l’invio di truppe francesie NATO – in Ucraina, provocando una crisi con la superpotenza atomica russa che potrebbe escalare nella Terza Guerra Mondiale.

 

È per questo che stanno liberando gli appuntamenti dai medici?

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