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Geopolitica

F-35 caduto nel Mar della Cina. Corsa contro il tempo degli USA per recuperarlo prima dei cinesi

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L’esercito americano sta cercando freneticamente un caccia F-35C da 100 milioni di dollari nel Mar Cinese Meridionale dopo che il suo pilota si è schiantato contro la portaerei USS Carl Vinson mentre tentava di atterrare, riporta l’Associated Press.

 

Il pilota è stato in grado di premere il pulsante di espulsione e di allontanarsi in sicurezza dall’incidente. L’avveniristico caccia, tuttavia, è finito affondato.

 

«La Marina degli Stati Uniti sta prendendo accordi per le operazioni di recupero per l’aereo F-35C coinvolto nell’incidente a bordo della USS Carl Vinson nel Mar Cinese Meridionale», ha affermato il tenente Nicholas Lingo in una dichiarazione riportata dalla testata britannica The Independent.

 

Secondo quanto riferito, il jet F-35C Lightning II trasportava radar avanzati e tecnologia stealth, il che lo rende un obiettivo piuttosto grande per gli avversari degli USA

Secondo quanto riferito, il jet F-35C Lightning II trasportava radar avanzati e tecnologia stealth, il che lo rende un obiettivo piuttosto grande per gli avversari degli USA.

 

Non sappiamo ancora se altri Paesi, in particolare la Cina, data la vicinanza, lo stiano effettivamente cercando, avrebbe dichiarato il tenente Lingo, secondo cui i militari non possono «speculare su quali siano le intenzioni della Repubblica popolare cinese su questo argomento».

 

L’F-35, prodotto da Lockheed Martin, è il sistema d’arma più costoso mai costruito, con un costo di vita stimato di 1,6 trilioni di dollari.

 

La sua produzione riguarda anche stabilimenti italiani gestiti da Leonardo, già Finmeccanica, a Cameri, in provincia di Novara: si tratta dell’unica unità di produzione e manutenzione F-35 in Europa.

 

Attorno all’acquisto miliardario di F-35 per l’aviazione italiana si è concentrata tanta polemica del partito maggioritario in Parlamento, il Movimento 5 Stelle, che aveva fatto degli F-35 un suo tema politico pacifista e pauperista – del tipo, destiniamo il budget per gli aerei ad altro.

 

Dopo aver cavalcato questo argomento nella campagna elettorale 2018, la questione sembrava essersi inabissata. Poi, nel 2020, 50 senatori grillini hanno presentato un’interrogazione per dare alla sanità i fondi per gli F-35: ricordando sempre che, in quel momento, come sempre dal 2018, i pentastellati erano al governo con Conte bis.

 

Un caso non dissimile a quello dell’F-35 finito sul fondo del Mar cinese meridionale vi fu nel 1999, con l’abbattimento del misterioso caccia stealth F-117 Nighthawk sopra i cieli della Serbia durante i bombardamenti NATO della Yugoslavia di Milosevic, per i quali il governo D’Alema aveva concesso le basi militari su suolo italiano, e lo scarico di bombe a grappolo sui nostri mari.

 

Il pilota, anche in quel caso, riuscì ad eiettarsi e a paracadutarsi a terra, illeso. Non fu tuttavia catturato: le forze USA riuscirono a recuperarlo e a riportarlo al sicuro, nella (vicinissima) base di Aviano, dove quando recuperavano piloti americani abbattuti in Serbia si scatenava tra i soldati un entusiasmo generale stile Superbowl.

 

Meno festosi, probabilmente, erano i vertici del Pentagono che sapevano che i resti dell’aereo costituivano un trasferimento tecnologico non autorizzato verso potenze ostili. Qualcuno poteva prendere i rottami e fare retroingegneria: l’ingrediente segreto dell’aereo poteva essere scoperto, quindi il vantaggio degli USA sarebbe quindi stato annullato.

 

I serbi festeggiarono l’aereo abbattuto, con video di bambini sopra i resti del caccia che i radar non dovrebbero rilevare. Nelle continue dimostrazioni di piazza a Belgrado durante i bombardamenti, spuntò anche un cartello in inglese «Sorry we did not know it was invisible»: «scusate, non sapevamo fosse invisibile».

 

Anche allora si sprecarono le speculazioni: come era stato possibile che la Serbia avesse colpito un aereo ritenuto «invisibile»? Allora, con Internet agli albori, non c’era ancora la fobia del complotto, per cui un po’ dappertutto, sia a destra che a sinistra, si diffuse la voce che ad aiutare l’abbattimento poteva essere stata una potenza tecnologicamente avanzata, magari con l’uso di satelliti…

 

C’è da ricordare che la Russia è considerabile, sempre, un Paese che non lascia mai soli i cugini slavi, nemmeno quando con Tito essi erano fautori di un socialismo «non allineato».

 

C’è da rammentare, ancora più concretamente, che circa 40 giorni dopo una bomba americana centrò l’ambasciata cinese a Belgrado. Grazie alle straordinarie dichiarazioni fatte in pubblico l’anno scorso da Di Dongsheng, professore all’Università Renmin di Pechino, sappiamo che il problema (non di poco conto…) sorto con Pechino fu presto risolto, grazie ad un canale segreto di contatti tra l’élite cinese e lo Stato profondo USA.

 

«Tra il 1992 e il 2016 la Cina e gli USA erano capaci di risolvere ogni problema o di crisi, come (…) il bombardamento dell’ambasciata [di Belgrado, 1999] (…)  le cose venivano risolte subito, come le litigate di una coppia che iniziano sul guanciale e finiscono in fondo al letto».

 

«Aggiustavamo tutto in due mesi. Qual è la ragione? Dirò qualcosa di esplosivo: è perché abbiamo persone al vertice. Al vertice del nucleo delle cerchie più interiori del potere e dell’influenza in America, Noi abbiamo i nostri vecchi amici».

 

Di fatto, la questione si risolse per il meglio: pochi anni dopo la Cina, grazie agli sforzi di Clinton e del cosiddetto «Ulivo mondiale» allora al potere, entro nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, dando il via definitivo alla globalizzazione, cioè alla sinizzazione produttiva, che ha devastato l’economia reale di Paesi manufatturieri come l’Italia, e non solo.

 

Vale la pena di ricordare cosa aggiunse il professore in quella conferenza ripresa in video tenuta prima dell’insediamento di Biden, quando ancora la lotta per la certificazione del voto era in corso.

 

«Ora vediamo che Biden è stato eletto. L’élite tradizionale, l’élite politica, l’establishment sono molto vicini a Wall Street, giusto? (…) Trump ha detto che il figlio di Biden ha una sorta di fondazione globale. Lo avete sentito? Chi lo ha aiutato a mettere in piedi le fondazioni?»

 

Sui rapporti tra i Biden (padre e figlio drogato e accusato di depravazione e corruzione) con il potere cinese, Renovatio 21 ha pubblicato diversi articoli.

 

 

 

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Geopolitica

La giunta militare birmana vieta agli uomini di andare a lavorare all’estero

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Si tratta di un provvedimento che si accompagna all’obbligo di leva obbligatoria imposto a febbraio agli uomini fino a 35 anni (e alle donne fino a 27). Negli ultimi tre mesi 100mila uomini hanno fatto domanda di espatrio e molti altri, per sfuggire al reclutamento, sono fuggiti in Thailandia.

 

La giunta militare al potere in Myanmar ha vietato agli uomini che hanno i requisiti per essere arruolati di andare a lavorare all’estero. La misura, annunciata dal ministero del Lavoro, è entrata in vigore due giorni fa, dopo che a febbraio era stata imposta la leva obbligatoria per gli uomini tra i 18 e i 35 anni e le donne tra i 18 e i 27 a causa delle continue perdite e sconfitte riportate dall’esercito birmano nel conflitto civile. Nei mesi successivi almeno 100mila uomini avevano fatto richiesta di espatrio.

 

Nyunt Win, segretario permanente del ministero del Lavoro, ha dichiarato che il provvedimento non si applica a coloro che hanno già ottenuto il permesso di partire. «Coloro che hanno già ottenuto l’autorizzazione sono esenti da questo divieto. Quando lo aboliremo dipende dalle circostanze. Questo è tutto ciò che posso dire per ora», ha spiegato.

 

Una fonte anonima ha rivelato a Myanmar Now che durante un incontro precedente all’annuncio i vertici militari si erano lamentati «del fatto che troppi giovani lasciano il Paese per sfuggire alla legge sulla leva obbligatoria».

 

Secondo lo United States Institute of Peace. l’esercito birmano è composto da appena 130mila soldati, di cui solo la metà pronti a essere dispiegati. Gli esperti concordano nel ritenere l’obbligo di leva un tentativo disperato per aumentare il numero di truppe, che si è progressivamente ridotto negli oltre tre anni di conflitto.

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Con l’inizio della guerra civile dopo il colpo di Stato del febbraio 2021, quando l’esercito ha spodestato il precedente governo guidato da Aung San Suu Kyi, migliaia di cittadini birmani sono fuggiti all’estero, cercando lavoro soprattutto in Thailandia, Malaysia, Singapore, Corea del Sud e anche Emirati Arabi Uniti.

 

Prima dell’introduzione della leva obbligatoria, il regime militare birmano, a corto di liquidità oltre che di uomini, aveva già introdotto due misure economiche che hanno penalizzato i lavoratori migranti: questi sono stati obbligati a utilizzare canali ufficiali per l’invio delle rimesse, versando (a tassi meno vantaggiosi) un quarto del loro stipendio, pena un divieto di espatrio per i tre anni successivi, e sono stati poi costretti a pagare le imposte sul reddito estero (su cui già pagano le tasse).

 

Ma ora, con l’imposizione del divieto di espatrio, «tutti hanno perso la speranza nel futuro», ha detto alla BBC un uomo che si stava preparando a lasciare il Myanmar per il Giappone. «Non ci sono opportunità di lavoro nel Paese e ora ci hanno anche proibito di lasciarlo. Non ci è permesso fare nulla?», ha aggiunto.

 

Molti giovani in età per essere arruolati nelle ultime settimane sono fuggiti in Thailandia grazie alle conquiste delle forze della resistenza, che sembrava avessero preso il controllo della città commerciale di Myawaddy. Un controllo, da parte delle milizie etniche locali e altri gruppi armati, durato però solo due settimane.

 

Circa 15mila persone sono fuggite durante gli scontri, rifugiandosi in monasteri e campi improvvisati lungo il fiume Moei, che separa il Myanmar dalla Thailandia. Secondo le Nazioni unite il numero totale di sfollati a causa del conflitto è di almeno 2,6 milioni.

 

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Geopolitica

Borrell lamenta che alcuni Stati UE ancora considereno la Russia «un buon amico»

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Il capo della politica estera dell’UE, Josep Borrell, ha ammesso che non tutti gli Stati membri vedono la Russia come «la minaccia più esistenziale» per l’Europa, sostenendo che le controversie tra i membri impediscono al blocco di assumere una posizione unitaria su Mosca e frenano gli aiuti militari all’Ucraina.   Parlando venerdì all’Università di Oxford, nel Regno Unito, Borrell ha affermato di vedere «più confronto e meno cooperazione» negli affari mondiali, e ha sollevato esempi di dissenso tra i membri dell’UE quando si tratta del presidente russo Vladimir Putin e del conflitto in Ucraina.   «Oggi Putin rappresenta una minaccia esistenziale per tutti noi. Se Putin avrà successo in Ucraina, non si fermerà qui», ha dichiarato il Borrell, aggiungendo che una vittoria russa minerebbe la sicurezza dell’Europa. Tuttavia «non tutti nell’Unione europea condividono questa valutazione», ha sottolineato.   «Alcuni membri del Consiglio europeo dicono: “Ebbene, no, la Russia non è una minaccia esistenziale. Almeno non per me. Considero la Russia un buon amico”», ha detto al pubblico oxoniano l’alto funzionario della diplomazia UE, senza nominare contee specifiche. «In un’unione governata all’unanimità, le nostre politiche nei confronti della Russia sono sempre minacciate da un unico veto: ne basta uno».   L’UE ha imposto molteplici serie di sanzioni alla Russia da quando Mosca ha lanciato la sua operazione militare in Ucraina nel febbraio 2022.

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Tuttavia, i primi ministri ungherese Viktor Orban e slovacco Robert Fico si sono rifiutati di inviare armi all’Ucraina e hanno sottolineato che il conflitto dovrebbe essere risolto attraverso i negoziati.   L’Ungheria ha bloccato per diversi mesi il pacchetto di aiuti da 50 miliardi di euro dell’Ue all’Ucraina, finché Orban non ha revocato il suo veto nel febbraio 2024.   All’inizio di questa settimana, il presidente francese Emmanuel Macron ha rifiutato ancora una volta di escludere l’invio di truppe NATO in Ucraina, sostenendo che è in gioco «la sopravvivenza del continente». Le sue osservazioni sono state pesantemente criticate dal ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto, che ha affermato che l’invio di forze NATO in Ucraina potrebbe innescare una guerra globale a tutto campo.   Mosca, nel frattempo, ha accusato Macron di aver causato una pericolosa «escalation verbale» che potrebbe portare il conflitto fuori controllo.   Il catalano Borrell, nominato come cosiddetto mister PESC (come viene chiamato l’Alto rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza Comune) dalla Commissione Von der Leyen, a novembre si era vantato pubblicamente della «donazione» di 27 miliardi di euro che l’UE avrebbe fatto a Kiev. L’irriguardosa e poco diplomatica osservazione di Borrell arrivava dopo che il capo della Chiesa cattolica aveva dichiarato in un’intervista all’emittente svizzera RSI lo scorso fine settimana che sarebbe una dimostrazione di coraggio da parte di Kiev se alzasse «bandiera bianca» e avviasse negoziati di pace con la Russia.   Due mesi fa il Borrell aveva attaccato il papa per la sua posizione su negoziati in Ucraina, dichiarando che il romano pontefice era entrato in un giardino dove nessuno lo aveva invitato».   Come riportato da Renovatio 21, bizzarre uscite del Borrello si sono accumulate anche durante la crisi ucraina, con sparate guerrafondaie e insulti alla Federazione Russa – in particolare la storia per cui la Russia sarebbe «una stazione di benzina con armi atomiche», una frusta offesa al Paese orientale che rimbomba nei circoli diplomatici dall’Ottocento, molto prima delle armi nucleari, passando perfino per la penna di Leone Tolstoj.

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Macron dice che con l’Ucraina sconfitta i missili russi minacceranno la Francia. Crosetto parla di «spiralizzazione del conflitto»

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Una vittoria totale della Russia sull’Ucraina, nella quale l’intero paese venisse sconfitto, sarebbe dannosa per la sicurezza europea e della NATO, poiché potrebbe consentire a Mosca di piazzare missili alle porte dell’UE, ha affermato il presidente francese Emmanuel Macron.

 

Sabato, in un’intervista al quotidiano francese La Tribune, Macron, che notoriamente ha rifiutato di escludere l’invio di truppe occidentali in Ucraina, ha ancora una volta sostenuto una politica di «ambiguità strategica» nei confronti della Russia, sostenendo che l’idea chiave alla base di tale approccio è per proiettare forza «senza fornire troppi dettagli».

 

Descrivendo la Russia come «un avversario», il presidente francese ha sottolineato che stabilire «limiti a priori» sarebbe interpretato come debolezza. «Dobbiamo togliergli ogni visibilità, perché è ciò che crea la capacità di deterrenza», ha sostenuto.

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Macron ha inoltre sottolineato che l’Ucraina è fondamentale per la sicurezza della Francia perché si trova a soli 1.500 chilometri dai suoi confini. «Se la Russia vince, un secondo dopo, non ci sarà più alcuna sicurezza in Romania, Polonia, Lituania e nemmeno nel nostro Paese. La capacità e la portata dei missili balistici russi ci espongono tutti», ha affermato.

 

I commenti del presidente arrivano dopo che, il mese scorso, aveva suggerito che le nazioni occidentali «dovrebbero legittimamente chiedersi» se dovrebbero inviare truppe in Ucraina «se i russi dovessero sfondare la linea del fronte, e se ci fosse una richiesta ucraina».

 

Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha risposto definendo la dichiarazione del Macron «molto importante e molto pericolosa», aggiungendo che è un’ulteriore testimonianza del coinvolgimento diretto di Parigi nel conflitto. Anche la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha avvertito che delle forze NATO «non rimarrà nulla» se verranno inviate in prima linea in Ucraina.

 

Alcune nazioni occidentali si sono espresse contro l’invio di truppe in Ucraina, compreso il Regno Unito, uno dei più convinti sostenitori di Kiev. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha insistito venerdì sul fatto che, mentre Londra continuerà a sostenere l’Ucraina, i soldati della NATO nel Paese «potrebbero costituire una pericolosa escalation».

 

Il presidente russo Vladimir Putin, tuttavia, ha ripetutamente respinto l’ipotesi secondo cui Mosca potrebbe attaccare la NATO come «una sciocchezza», affermando che il suo Paese non aveva alcun interesse a farlo.

 

Nel frattempo, il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha attaccato Macron per i suoi commenti continui su possibili forze occidentali in Ucraina.

 

Crosetto ha affermato al Corriere della Sera che, se personalmente non può giudicare il presidente di un «Paese amico come la Francia», allo stesso tempo non riesce a comprendere «la finalità e l’utilità di queste dichiarazioni, che oggettivamente innalzano la tensione».

 

Il ministro ha inoltre escluso la possibilità che l’Italia invii le proprie forze per intervenire direttamente nel conflitto ucraino, perché «a differenza di altri, noi abbiamo nel nostro ordinamento il divieto esplicito di interventi militari diretti, al di fuori di quanto previsto dalle leggi e dalla Costituzione». «Possiamo prevedere interventi armati solo su mandato internazionale, ad esempio in attuazione di una risoluzione dell’ONU» ha continuato il capo del Dicastero della Difesa.

 

«Quello ipotizzato in Ucraina non solo non rientrerebbe in questo caso, ma innescherebbe una ulteriore spiralizzazione del conflitto che non gioverebbe soprattutto agli stessi ucraini. Insomma, non esistono le condizioni per un nostro coinvolgimento diretto».

 

Anche il ministro degli Esteri dell’Ungheria – che è Paese NATO – Peter Szijjarto ha condannato le osservazioni del presidente francese, spiegando che se un membro della NATO «impegna truppe di terra, ci sarà uno scontro diretto NATO-Russia e sarà allora la Terza Guerra Mondiale».

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Il primo ministro della Slovacchia – pure nazione NATO – Robert Fico ha anche sottolineato che la NATO non ha alcuna giustificazione per inviare truppe in Ucraina perché il paese non è uno Stato membro e ha promesso che «nessun soldato slovacco metterà piede oltre il confine slovacco-ucraino».

 

Come riportato da Renovatio 21, le minacce francesi hanno invece trovato terreno fertile in Finlandia, Paese appena divenuto membro della NATO.

 

Il presidente francese si è spinto fino al punto di immaginare un ritorno della Crimea all’Ucraina. Putin ha sostenuto che truppe di Stati NATO già stanno operando sul fronte ucraino, e che l’Occidente sta flirtando con la guerra nucleare e la distruzione della civiltà.

 

Gli stessi francesi, secondo un sondaggio, sono contrari all’idea di soldati schierati su territorio ucraino proposta da Macron, il quale, bizzarramente, ha poi chiesto un cessate il fuoco per le Olimpiadi di Parigi della prossima estate.

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