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Geopolitica

Dopo la Somalia, il Sudan del Sud e il Sudan, il caos dilaga all’Etiopia e ben presto all’Eritrea

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire

 

 

L’ambasciatore USA Jeffrey Feltman presiede all’estensione della dottrina Cebrowski al Corno d’Africa. Dopo aver incendiato il Sudan, se la prende con l’Etiopia e sanziona l’Eritrea. I tigrini (gruppo etnico etiope) sono strumento inconsapevole della strategia d’attacco di Washington a questi Stati nonché all’Unione Africana.

 

 

 

A causa dell’epidemia di COIVD la Commissione Elettorale Nazionale etiope ha rinviato le elezioni legislative di settembre 2020.

 

Il TPLF (Tigray People’s Liberation Front, Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè), principale partito tigrino, ha deciso di organizzare comunque le elezioni nella propria regione, il Tigrè appunto, separandosi così dal resto del Paese. Ovviamente il governo federale non le ha convalidate. La prova di forza ha aperto la guerra civile.

 

Gli abitanti dell’Etiopia sono 110 milioni, di cui soltanto sette milioni sono tigrini.

 

In un anno funzionari sia del TPLF sia del governo federale hanno commesso crimini di guerra, ma non si sa se li abbiano compiuti di propria iniziativa o per disposizione delle autorità. In questo caso diventerebbero «crimini contro l’umanità». Comunque sia, le zone di carestia si estendono e i massacri si moltiplicano.

 

Come sempre avviene, ciascun campo accusa l’altro delle peggiori nefandezze, senza però considerare che altri protagonisti potrebbero giocarvi un ruolo: se ci si chiedesse «a chi giovano questi crimini», la risposta non potrebbe che essere: «a chi vuole fratturare ulteriormente il Paese».

 

Dopo l’annientamento delle strutture statali del Medio Oriente Allargato, obiettivo del Pentagono è la distruzione delle strutture statali del Corno d’Africa

Dopo l’annientamento delle strutture statali del Medio Oriente Allargato, obiettivo del Pentagono è la distruzione delle strutture statali del Corno d’Africa. Già abbiamo assistito alla distruzione del Sudan, diviso nel 2011 in Sudan propriamente detto e Sudan del Sud, nonché alla distruzione dell’Etiopia, divisa nel 1993 in Etiopia propriamente detta ed Eritrea. Due Paesi oggi scossi da nuove guerre civili, che dovrebbero sfociare in ulteriori divisioni.

 

Il direttore d’orchestra, cioè il diplomatico statunitense Jeffrey D. Feltman, ha dapprima organizzato dieci anni di guerra in Siria – ossia il finanziamento e l’armamento degli jihadisti (1) – in seguito è stato nominato inviato speciale per il Corno d’Africa dal presidente Joe Biden.

 

L’intervento di Feltman il 1° novembre 2021 davanti al think tank del Pentagono, l’U.S. Institute of Peace (che per il dipartimento della Difesa rappresenta l’equivalente della National Endowment for Democracy – NED – (2) per la segreteria di Stato) riprende esattamente la retorica elaborata via via contro Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen e Libano.

 

Gli Stati Uniti già rimpatriano i propri concittadini, mantenendo sul posto soltanto il personale strettamente necessario all’ambasciata. Le agenzie di stampa occidentali diffondono informazioni per far credere che presto Addis Abeba sarà conquistata, segnando la fine dell’Etiopia e dell’Unione Africana che vi ha sede.

 

L’unico Paese sopravvissuto alla dottrina Rumsfeld/Cebrowski (3) messa in atto dal Pentagono è la Siria, grazie alla sua popolazione, consapevole che solo uno Stato può proteggere da nemici difficili da identificare.

 

Il Levante è la regione del mondo dove è nato in tempi remoti il concetto stesso di Stato. Non il concetto di Potere, ma di Stato: l’organizzazione che permette a un popolo di «reggersi in piedi» (stare in latino, da cui deriva il termine Stato in tutte le lingue europee). Dopo aver creduto che nel Paese fosse in corso una rivoluzione, i siriani hanno capito che si trattava di un attacco dall’esterno e che solo nello Stato vi era salvezza. Quindi, quali che fossero le ragioni di risentimento verso il Potere, si sono messi al servizio dello Stato e l’hanno difeso. Tutti gli altri Paesi del Medio Oriente Allargato sono crollati, dividendosi dapprima in tribù o confessioni.

 

L’Etiopia è un Paese federale formato da regioni dominate da un’etnia particolare. L’attuale conflitto è vissuto come scontro che oppone i tigrini agli omoro e agli amhara.

 

Eppure, l’opposizione al governo federale in seno agli omoro s’è alleata ai tigrini.

 

Questi ultimi sono convinti di avere il sostegno di Washington. Esibiscono compiaciuti il breve discorso di Jeffrey Feltman alle esequie del primo ministro Meles Zenawi, membro della loro tribù, rimarcando come l’ambasciatore abbia accusato a lungo il governo federale di crimini di ogni genere, soffermandosi solo brevemente su quelli commessi dai tigrini, nonché di non aver mai citato i loro alleati.

 

Washington se ne infischia dei due schieramenti, non auspica la vittoria degli uni o degli altri. Vuole solo spingere entrambi ad ammazzarsi a vicenda, fino a che nessuno dei due potrà più far sentire la propria voce

Significa non capire nulla dei meccanismi della diplomazia USA post-11 Settembre. Washington se ne infischia dei due schieramenti, non auspica la vittoria degli uni o degli altri. Vuole solo spingere entrambi ad ammazzarsi a vicenda, fino a che nessuno dei due potrà più far sentire la propria voce.

 

Il conflitto ha riportato a galla pregiudizi tribali, mai del tutto scomparsi.

 

Il primo ministro federale, Abiy Ahmed, ha tentato in tutti i modi di riconciliare il Paese con l’ex provincia dell’Eritrea, oggi Stato indipendente. Il valore dei suoi sforzi è stato riconosciuto dal Comitato per il Nobel, che nel 2019 gli ha conferito il premio Nobel per la Pace, sottolineando come un cristiano pentecostale sia riuscito a rappacificarsi con dei mussulmani. Sarà quindi difficile accusare Abiy Ahmed di «crimini contro l’umanità», come nel caso del presidente Bashar al-Assad.

 

Però l’esempio di Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace del 1991, dimostra come non esista diffamazione impossibile. Del resto, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo, Michelle Bachelet, nel rapporto sulle violazioni in Etiopia è riuscita a dire che il governo di Abiy Ahmed è innocente… ma che i crimini commessi potrebbero essere in un secondo momento riconosciuti «crimini contro l’umanità». Come a dire: il primo ministro è un uomo onesto, ma la sua immagine potrebbe essere retrospettivamente macchiata, casomai fosse necessario sbarazzarsene.

Il conflitto ha riportato a galla pregiudizi tribali, mai del tutto scomparsi

 

Del resto, Abiy Ahmed non dovrà soltanto gestire un problema che credeva risolto. Deve occuparsi anche della Grande Diga della Rinascita, in corso di riempimento, che potrebbe causare la salinizzazione del Nilo a danno del Sudan e dell’Egitto, nonché risolvere il conflitto territoriale con il Sudan per il triangolo di Al-Fashaga. Deve inoltre guardarsi dai Tribunali islamici che imperversano in Somalia e proteggere la pace conclusa con l’Eritrea.

 

I ribelli tigrini infatti non se la sono presa solo con l’Etiopia, hanno bombardato anche la frontiera con l’Eritrea – l’ex provincia che conta sei milioni di abitanti – per rilanciare la guerra civile che per quarant’anni ha dilaniato l’antico impero d’Abissinia.

 

L’Eritrea però non è caduta nella trappola: il presidente Isaias Afwerki, di etnia tigrina ma vicino alla Cina, ha inseguito il TPFL in territorio etiope, senza però attaccare l’esercito nazionale.


L’ambasciatore Jeffrey Feltman, perseverando nella politica di mandare all’aria la pace nella regione (4), ha adottato sanzioni contro l’Eritrea (5). Inaspettatamente, Addis Abeba è intervenuta in soccorso di Asmara, chiedendo agli Stati Uniti di non prendersela con uno Stato che «non costituisce minaccia per una pace duratura» (7).

 

Molti dirigenti africani hanno interpretato l’iniziativa di Feltman come espressione della volontà di Washington non soltanto di smantellare Sudan ed Etiopia per poi prendersela con l’Eritrea, ma anche di colpire l’Unione Africana.

 

A meno di un intervento di Russia o Cina, la carestia e la guerra si generalizzeranno

Il TPLF dispone di grandi quantitativi di armi che sembrerebbero essere state ordinate dal direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, dalla Svizzera (7). In considerazione degli stretti legami di Ghebreyesus con Beijing, si potrebbe supporre che le armi provengano dalla Cina. Ma è poco probabile. Si tratta piuttosto di armi fornite da un subappaltatore del Pentagono.

 

Washington, che già ha adottato sanzioni contro l’Etiopia, s’appresta a ritirare Addis Abeba dal programma AGOA (African Growth and Opportunity Act).

 

Da una decina d’anni il petrolio etiope è acquistato da transnazionali statunitensi, in cambio di prodotti manifatturieri USA. Un accordo non molto vantaggioso, ma se l’Etiopia non potrà più beneficiare dell’AGOA, non potrà più né esportare né importare dall’Occidente.

 

A meno di un intervento di Russia o Cina, la carestia e la guerra si generalizzeranno.

 

 

Thierry Meyssan

 

 

 

NOTE

1) «La Germania e l’ONU contro la Siria», di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Al-Watan (Siria) , Megachip-Globalist (Italia) , Rete Voltaire, 28 gennaio 2016.

2) «NED, vetrina legale della CIA», di Thierry Meyssan, Traduzione Alessandro Lattanzio, Оdnako (Russia) , Rete Voltaire, 8 ottobre 2010.

3) «La dottrina Rumsfeld/Cebrowski», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 25 maggio 2021.

4) «Il falso «colpo di Stato militare» in Sudan», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 2 novembre 2021.

5) «The US Treasury sanctions Eritrea», Voltaire Network, 12 novembre 2021.

7) «Il direttore dell’OMS accusato di traffico d’armi», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 20 novembre 2020.

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.

 

La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.

 

Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.

 

Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.

 

In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.

 

 

Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».

 

Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».

 

Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.

 

Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.

 

Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

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Cina

Ancora un governo filo-cinese alle Isole Salomone: Pechino mantiene la presa sul Pacifico

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il nuovo primo ministro dell’arcipelago sarà Jeremiah Manele, che ha già ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri. Gli analisti si aspettano che, nonostante i legami con la Cina, addotti un approccio meno conflittuale. Ma la competizione resta aperta tra le nazioni del Pacifico, divise tra la fedeltà ai partner occidentali e gli accordi (soprattutto sulla sicurezza) con Pechino.   Il governo delle Isole Salomone resterà filo-cinese: i deputati designati dopo la tornata elettorale del 17 aprile hanno scelto come primo ministro Jeremiah Manele, che ha ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri nel 2019, anno in cui le Isole Salomone, sotto la guida del precedente premier Manasseh Sogavare, hanno deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan per firmare, tre anni dopo, un trattato sulla sicurezza (i cui dettagli non sono stati resi pubblici) con la Cina, che continua così a mantenere una certa influenza nel Pacifico.   Sogarave la settimana scorsa aveva dichiarato che avrebbe rinunciato alla corsa a primo ministro a causa dei risultati deludenti del suo partito, e ha poi appoggiato la candidatura e la nomina di Manele, il quale ha già annunciato che manterrà stretti legami con Pechino. Ma gli analisti si aspettano che, a differenza del predecessore, Manele adotti un approccio meno conflittuale verso i partner occidentali, che guardano con preoccupazione alle relazioni tra la Cina e le nazioni insulari che costellano l’Oceano Pacifico.   Negli ultimi anni, infatti, Pechino ha rafforzato con diversi Paesi la cooperazione nell’ambito delle forze di polizia ed elargito fondi e investimenti per la costruzione di porti, strade e infrastrutture di telecomunicazione, in posti dove gli spostamenti e i contatti sono resi complicati dalla scarsità di risorse e dal progressivo aumento del livello dei mari dovuto al cambiamento climatico.

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Solo per fare alcuni esempi, dal 2013 è attivo uno scambio di agenti di polizia con le isole Figi, dove nel 2021 è arrivato per la prima volta, presso l’ambasciata cinese, anche un ufficiale di collegamento. Lo scorso anno sono state inviate squadre di esperti a Vanuatu e Kiribati (un altro Paese che ha revocato il riconoscimento a Taiwan nel 2019), mentre l’assistenza alle Isole Salomone è stata rafforzata dopo le proteste che sono scoppiate nella capitale, Honiara, nel 2021 e molti temono che il patto sulla sicurezza firmato nel 2022 preveda il dispiegamento di forze militari cinesi sull’arcipelago.   Ancora: dopo le rivolte di gennaio in Papua Nuova Guinea, il ministro degli Esteri papuano, Justin Tkachenko, ha dichiarato che a settembre la Cina si era offerta di fornire attrezzature e tecnologie di sorveglianza, ma subito dopo si è sincerato di sottolineare che, in ogni caso, la Papua Nuova Guinea non «metterà a repentaglio o comprometterà le relazioni» con i partner occidentali.   Inoltre, la Cina ha proposto investimenti per rilanciare il settore del turismo a Palau e sulle Isole Marshall, due Paesi che, insieme alla Micronesia, sono legati a Washington tramite dei Patti di libera associazione (Compacts of Free Association, COFA), che permettono agli Stati Uniti di avere accesso agli apparati di difesa e di sicurezza delle nazioni del Pacifico in caso di attacco (ma non solo).   Secondo gli esperti, la Cina ha un doppio interesse a promuovere la cooperazione di polizia con questi Paesi: da una parte vi è la necessità pratica di proteggere la diaspora e gli investimenti cinesi, soprattutto nel caso di rivolte e disordini, che si sono dimostrati frequenti.   Dall’altra è evidente che si tratta di un’area dove Pechino si è inserita per avere maggiore influenza nella regione a scapito degli Stati Uniti. I funzionari di Washington hanno nuovamente espresso le loro preoccupazioni all’inizio dell’anno dopo la visita di alcuni agenti di polizia cinesi a Kiribati, dove temono che la Cina possa ricostruire una pista d’atterraggio militare, a meno di 4mila chilometri dalle Hawaii.   Alle piccole nazioni del Pacifico, però, la competizione geopolitica tra la Cina e gli alleati occidentali potrebbe non dispiacere affatto, perché fornisce un elemento in più su cui fare leva nei rapporti diplomatici e ottenere così maggiori aiuti e risorse. Nel 2022 il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, non era riuscito a convincere i leader del Pacifico a firmare due nuovi accordi di cooperazione e l’anno successivo, il primo ministro delle Figi, Sitiveni Rabuka, aveva affermato che avrebbe stracciato l’accordo di scambio di ufficiali di polizia con la Cina, ma ha poi ammorbidito i toni.   In questa competizione per l’influenza nel Pacifico, Pechino sostiene che gli Stati Uniti non siano un partner affidabile, cercando di contrastare quella che ritiene essere una visione anti-cinese proposta dai media occidentali. A gennaio di quest’anno, in seguito a una fuga di informazioni, è stato scoperto che tra i compiti di un diplomatico cinese di stanza presso l’ambasciata di Honiara c’era anche quello di influenzare la copertura mediatica locale sulle elezioni presidenziali a Taiwan.   Gli Stati occidentali, dal canto loro, hanno evidenziato lo stile autoritario della polizia e dei funzionari provenienti dalla Cina, dove i diritti umani spesso passano in secondo piano. Nel 2017, per esempio, la polizia delle Figi aveva arrestato 77 cittadini cinesi, poi estradati in collaborazione con le autorità locali.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Arthur Chapman via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic
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Geopolitica

Trump non esclude il taglio degli aiuti a Israele, attacca Netanyahu e rivela dettagli sull’assassinio di Soleimani

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L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rifiutato di escludere il ritiro degli aiuti militari a Israele per forzare la fine della guerra a Gaza se verrà rieletto. Un tempo strenuo difensore del primo ministro Benjamin Netanyahu, Trump ha sostenuto che il leader israeliano e il suo esercito hanno «pasticciato» la guerra con Hamas.

 

In un’intervista con la rivista Time pubblicata questa settimana, il candidato alla Casa Bianca ha confermato la sua insistenza del mese scorso sul fatto che Israele dovrebbe «porre fine alla guerra» prima di perdere ulteriore sostegno internazionale.

 

«Penso che Israele abbia fatto molto male una cosa: le pubbliche relazioni», ha detto Trump al quotidiano, aggiungendo che secondo lui l’esercito israeliano non dovrebbe «inviare ogni notte immagini di edifici che crollano e vengono bombardati».

 

Alla domanda se escluderebbe di negare o applicare condizioni agli aiuti militari statunitensi a Israele per portare la guerra a una conclusione, Trump ha risposto «no», prima di lanciarsi in una feroce critica a Netanyahu.

 

«Ho avuto una brutta esperienza con Bibi», ha detto, riferendosi a Netanyahu con il suo soprannome. Trump ha ricordato come Netanyahu avrebbe promesso di prendere parte all’attacco aereo statunitense che ha ucciso il comandante militare iraniano Qassem Soleimani nel gennaio 2020, prima di ritirarsi all’ultimo minuto.

 

«È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», ha detto Trump al Time, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».

 

Come riportato da Renovatio 21, secondo rivelazioni dello scorso anno dell’ex capo dell’Intelligence israeliana, sarebbe stato lo Stato Ebraico a convincere la Casa Bianca ad uccidere il generale iraniano.

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Netanayhu, ha detto The Donald, «è stato giustamente criticato per ciò che è accaduto il 7 ottobre», riferendosi all’attacco di Hamas contro Israele. «E penso che abbia avuto un profondo impatto su di lui, nonostante tutto. Perché la gente diceva che non sarebbe dovuto succedere».

 

Israele ha, proseguito «le attrezzature più sofisticate», ha continuato. «Tutto era lì per fermarlo. E molte persone lo sapevano, migliaia e migliaia di persone lo sapevano, ma Israele non lo sapeva, e penso che sia stato fortemente incolpato per questo».

 

Trump non è la prima persona ad affermare che l’esercito e il governo israeliani non hanno risposto agli avvertimenti di un imminente attacco di Hamas. Secondo quanto riportato dai media israeliani, diversi membri del personale militare e dell’Intelligence hanno cercato di avvertire i loro superiori che era in corso un attacco, mentre i funzionari egiziani hanno riferito all’Associated Press di aver trasmesso avvertimenti alle loro controparti israeliane nelle settimane precedenti il ​​7 ottobre.

 

Trump è stato uno stretto alleato di Netanyahu durante il suo mandato alla Casa Bianca e si è descritto come «il presidente degli Stati Uniti più filo-israeliano della storia». Ha imposto sanzioni all’Iran su richiesta di Netanyahu, ha spostato l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme ovest e ha mediato gli accordi di Abramo, che hanno visto Israele normalizzare le relazioni con il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Sudan.

 

Alla domanda se potrebbe lavorare meglio con il principale rivale politico di Netanyahu, Benny Gantz, se dovesse tornare alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali di novembre, Trump non ha dato una risposta diretta. Tuttavia, ha osservato che «Gantz è bravo» e che ci sono «alcune persone molto brave che ho conosciuto in Israele che potrebbero fare un buon lavoro».

 

Benjamin Netanyahu è stato sostenuto negli anni dalla famiglia del genero di Trump Jared Kushner, il cui padre – controverso immobiliarista ebreo ortodosso finito in galera per una squallida storia di ricatti perfino a famigliari – era uno dei primi finanziatori di Bibi, il quale, si dice, quando era a Nuova York dormisse nella cameretta del Jared.

 

Il personaggio si è fatto notare di recente per aver detto che «è un peccato» che l’Europa non accolta più profughi palestinesi in fuga da Gaza, per poi fare dichiarazioni entusiastiche sul valore delle proprietà immobiliari future sul lungomare della Striscia.

 

Il Jared – che è sospettato da molti di essere una «talpa» contro Donald, perfino nel caso del raid FBI a Mar-a-Lago – e la moglie, l’adorata figlia di Trump Ivanka, sarebbero stati lasciati fuori dalla nuova campagna per esplicita richiesta dell’ex presidente.

 

Trump, in uno degli ultimissimi atti della sua presidenza, diede la grazia al traditore (e spia israeliana) Jonathan Pollard, analista dell’Intelligence USA artefice di una delle più grandi falla di segreti militari della storia degli apparati statunitensi.

 

Nei primi giorni del 2021, agli sgoccioli della presenza di Trump alla Casa Bianca, Pollard arrivò in Israele, dove lo attendevano ali di folla a festeggiarlo come un eroe (per aver tradito il loro principale alleato: incomprensibile fino al grottesco, a pensarci), tramite un jet privato messo a disposizione dal controverso magnate dei casino di Las Vegas – e finanziatore di quasi tutto il Partito Repubblicano USA come del Likud israeliano – Sheldon Adelson, morto poche ore dopo.

 

Come riportato da Renovatio 21, Trump il mese scorso ha dichiarato che il comportamento di Israele a Gaza ha causato un danno enorme alla percezione dello Stato ebraico nel mondo, mettendoli «nei guai» e incoraggiando l’antisemitismo.

 

Attacchi pubblici di Trump a Netanyahu si sono registrati già a fine 2021, mossa che gli valse uno screzio con i fondamentalisti protestanti americani, cioè i cristiano-sionisti che sostengono Israele per la profezia apocalittica secondo cui gli ebrei, ricostruendo il Terzo Tempio, genereranno il loro messia che sarà l’anticristo dei cristiani, accelerando la venuta di Cristo.

 

Tale teologia escatologica è in azione anche in questi giorni, come visibile nel caso della giovenca rossa, e di altri animali da sacrificio che hanno tentato di trafugare sul Monte del Tempio di Gerusalemme.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

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