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Persecuzioni

L’India assolve imputati della destra indù per mancanza di prove, ma tiene in carcere due suore

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Pragya Singh Thakur, leader dell’estrema destra nazionalista e altri sei imputati sono stati assolti per un attentato che uccise 7 persone nel 2008 a Malegaon «per mancanza di prove». Intanto in Chhattisgarh due religiose restano in carcere dopo essere state accusate di conversioni forzate nonostante non ci sia nessuna prova a confermare l’accusa. La vicenda sta generando proteste politiche e nuove accuse di repressione contro le minoranze religiose.

 

Dopo un processo durato 17 anni, oggi un tribunale speciale indiano ha assolto tutti i sette imputati per l’attentato di Malegaon, compresi l’ex deputata del Bharatiya Janata Party (BJP), Pragya Singh Thakur, e il tenente colonnello Prasad Purohit, «per mancanza di prove».

 

Il 29 settembre 2008 una bomba nascosta su una motocicletta esplose a Malegaon, nel Maharashtra, uccidendo sei persone e ferendone altre 101. Nel frattempo, però, due suore arrestate in Chhattisgarh con le accuse di conversioni forzate non hanno ricevuto la libertà su cauzione, ennesimo segnale di repressione nei confronti delle minoranze religiose.

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Il verdetto, pronunciato dal giudice speciale A. K. Lahoti, ha valutato le prove raccolte dalla squadra anti-terrorismo del Maharashtra e, successivamente, dall’Agenzia nazionale investigativa (NIA). Secondo il tribunale, l’ordigno era probabilmente collocato all’esterno della motocicletta e non all’interno, mentre alcuni certificati medici presentavano manipolazioni. Non è emersa alcuna prova sulla provenienza o il deposito dell’ordigno nella casa di Purohit, né elementi che indichino che l’ufficiale abbia preparato la bomba.

 

Il giudice ha rilevato che non ci sono prove che identifichino chi abbia parcheggiato la motocicletta o chi abbia collocato la bomba. Il verbale sul luogo dell’esplosione è stato giudicato difettoso e la raccolta dei reperti non effettuata da esperti, con risultati forensi che non possono essere ritenuti conclusivi. Anche le intercettazioni disponibili sono state giudicate non affidabili a causa di inadeguate autorizzazioni all’intercettazione, anche se gli incontri che avrebbero permesso poi l’organizzazione dell’attentato erano state giudicate centrali per le indagini in un primo momento.

 

Secondo la corte, però, l’accusa non è riuscita a dimostrare che gli incontri abbiano avuto luogo o che sia stata ordita una cospirazione.

 

Riguardo all’associazione Abhinav Bharat, fondata nel 2006 da un maggiore dell’esercito in pensione e vicina all’estrema destra indù, la corte ha riconosciuto che Sudhakar Chaturvedi ne era il tesoriere e Purohit un fiduciario. Sebbene quest’ultimo abbia usato fondi dell’organizzazione per spese personali, il tribunale ha ritenuto non ci sono prove che i fondi siano stati utilizzati per attività terroristiche. Tutti gli imputati hanno così ottenuto l’assoluzione, mentre lo Stato dovrà versare 200mila rupie (circa 2 mila euro) alle famiglie delle vittime e 50 mila (circa 500 euro) ai feriti.

 

Sadhvi Pragya, ex parlamentare di Bhopal e attivista di Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad, un’organizzazione studentesca di estrema destra, durante gli anni universitari, è da tempo considerata un simbolo dell’ultranazionalismo indù. Nel 2019 aveva provocato indignazione nazionale un suo commento in cui aveva definito Nathuram Godse, l’assassino del Mahatma Gandhi, «un patriota». Il padre, Chandrapal Singh Thakur, faceva parte delle RSS, nota organizzazione paramilitare che si ispira all’ideologia Hindutva.

 

Nel frattempo nello Stato centrale del Chhattisgarh a due suore indiane è stato riservato un trattamento completamente diverso. Il tribunale distrettuale di Durg ha dichiarato di non avere giurisdizione sulle richieste di libertà su cauzione presentate dalle consorelle arrestate alla stazione ferroviaria il 18 luglio con accuse di «traffico umano e conversioni forzate» e ha spiegato che la questione dovrebbe essere esaminata dal tribunale designato dalla National Investigation Agency presso l’Alta Corte di Bilaspur.

 

Secondo quanto riferito dall’avvocato Rajkumar Tiwari all’agenzia PTI, la corte «ha respinto la richiesta di libertà su cauzione delle suore osservando che non ha la giurisdizione di esaminare il caso e che potrebbero dover rivolgersi a un tribunale speciale per ulteriori azioni legali». La polizia ha ora 15 giorni per chiedere al governo centrale il trasferimento del fascicolo.

 

Le suore, Preeti Marry e Vandana Francis, sono detenute nel carcere centrale di Durg. Il loro arresto, basato su una denuncia di un militante del Bajrang Dal, un’altra organizzazione dell’estrema destra indù, ha scatenato proteste di gruppi ecclesiali e attivisti per i diritti umani. Le famiglie delle tre donne che le religiose avrebbero tentato di “trafficare” hanno smentito le accuse, affermando che erano adulte e che avevano dato il loro consenso a spostarsi.

 

«La denuncia della Polizia ferroviaria è basata solo sul sospetto che sia stato commesso un reato. Non c’è stata alcuna indagine preliminare, per questo il FIR è annullabile», ha dichiarato l’avvocato Tamaskar Tondon.

 

Il caso è diventato terreno di scontro politico: deputati del Kerala hanno protestato davanti al Parlamento, mentre Priyanka Gandhi Vadra, sorella del leader del Congress Rahul Gandhi, ha accusato il BJP di «atrocità contro le minoranze». «Non è affatto giusto, queste donne non possono essere maltrattate e trattate in questo modo. Non si possono accusare le persone di cose che non fanno. Non agiscono su nulla di concreto» ha aggiunto Priyanka Gandhi, «quindi non mi aspetto un’azione, ma è nostro compito fare pressione su di loro il più possibile».

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Brinda Karat, membro del Partito Comunista Indiano, ha cercato di incontrare le suore. In seguito ha commentato la vicenda dicendo che non dovrebbe essere necessario per le donne avere un permesso scritto per recarsi al lavoro.

 

Il presidente del BJP del Kerala, Rajeev Chandrasekhar, ha respinto con forza l’affermazione del chief minister del Chhattisgarh, Vishnu Deo Sai, anch’egli del BJP, secondo cui le suore sarebbero coinvolte in traffici e conversioni religiose. «Crediamo che non siano accadute cose del genere. È un’accusa. Vediamo poi chi ha fatto tutte queste cose e per quale motivo», ha detto Chandrasekhar ai giornalisti.

 

Suor Asha Paul, una suora della Congregazione della Sacra Famiglia di Delhi, ha affermato che a nessun rappresentante della Chiesa è stato permesso di incontrare le suore detenute.

 

«Abbiamo ragione di credere che le giovani donne siano state costrette a cambiare le loro dichiarazioni. Secondo quanto riferito, sono state costrette a dichiarare di essere state prese contro la loro volontà», ha detto suor Ash. «Abbiamo tutte le prove dei moduli di consenso dei genitori, dell’identificazione e della documentazione che dimostra che non c’è stata alcuna costrizione o conversione», ha aggiunto la religiosa.

 

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Cisgiordania, la difficile sopravvivenza dell’ultimo villaggio cristiano

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Taybeh, una piccola città cristiana di 1.500 abitanti situata 30 chilometri a nord di Gerusalemme, era normalmente amministrata dall’Autorità Nazionale Palestinese in base agli Accordi di Oslo del 1993. Dopo l’attacco di Hamas, si trova nei Territori Palestinesi occupati da Israele, che intende annetterla ed espellere i palestinesi.   Oggi, Taybeh è l’unica città della Palestina la cui popolazione è interamente cristiana. L’esercito israeliano sta rafforzando la sua presa sui palestinesi, limitandone gli spostamenti e confinandoli nei ghetti. Gli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi sono in costante aumento.   L’agenzia di stampa cath.ch ha raccolto le testimonianze di un residente e del parroco della parrocchia cattolica di Taybeh. Le conversazioni telefoniche hanno avuto luogo dal Libano, poiché il governo israeliano proibisce ai giornalisti di entrare in Cisgiordania e nelle zone di combattimento.

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Palestinesi in lockdown

Fouad Muaddi, trentatré anni, di origini palestinesi e colombiane, ha studiato all’Università di Bordeaux. Assistente dell’ambasciatore ecuadoriano, viaggia quotidianamente da Taybeh a Ramallah, una distanza di 18 chilometri. Ai posti di blocco dell’esercito israeliano, le attese sono interminabili e il passaggio incerto. A tutto questo si aggiunge un vero e proprio apartheid stradale : strade fatiscenti intersecate da tunnel bui per i veicoli palestinesi e strade aperte e ben tenute per gli israeliani.   L’enclave in cui vive Fouad comprende sei villaggi. È stata istituita dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. In questi territori isolati, i palestinesi devono costantemente giustificare la propria identità se vogliono spostarsi. È impossibile per loro avere una vita sociale, trascorrere una serata con amici lontani o visitare i parenti. Per costringere le famiglie a rientrare in queste enclave, i coloni attaccano le case situate all’esterno, espellendo le famiglie che vi abitano.  

Appropriazione di terreni

Nella chiesa latina di Cristo Redentore a Taybeh, padre Fawadleh’ Bashar, 38 anni, parroco, testimonia che «da giugno 2024 gli attacchi sono aumentati considerevolmente». «Ora, il terreno a est del villaggio è sotto costante attacco», spiega. Infatti, ogni mattina i coloni vengono a pascolare lì le loro mandrie di mucche, impedendo di fatto ai proprietari terrieri di accedere alle loro terre e di coltivarle.   «I coloni, spesso armati, non danneggiano i familiari, ma la loro presenza danneggia gli ulivi», con conseguenze significative per l’economia locale, basata in gran parte sulla produzione di olio d’oliva, un prodotto di una certa reputazione. Il sacerdote teme il peggio per il raccolto di quest’anno.   Le mucche sono diventate un «nuovo strumento di colonizzazione in un numero crescente» di villaggi in Cisgiordania, spiega la rivista Custody of the Holy Land Magazine. E di recente è emerso un altro tipo di aggressione: i coloni hanno appiccato il fuoco ai terreni dei residenti, proprio accanto alle loro finestre. Un incendio è scoppiato anche dietro la storica chiesa di San Giorgio el-Khader , risalente al V secolo, la chiesa più antica di Taybeh.

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Combattere l’inesorabile esilio

Per evitare il peggio – di fronte agli attacchi diffusi e diurni dei coloni – alcuni leader della comunità non hanno altra scelta che suggerire un esodo di massa. «Quest’anno, su una popolazione di circa 1.500 persone, una decina di famiglie sono fuggite. È una vera piaga», lamenta padre Bashar. Per mitigare questo fenomeno, il sacerdote e i suoi colleghi hanno avviato iniziative concrete per rivitalizzare la comunità.   «Siamo riusciti a creare oltre 40 posti di lavoro per la comunità, nonostante le difficoltà che affrontiamo, grazie ai donatori e al lavoro del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Questi posti di lavoro forniscono impiego presso la scuola e la casa di riposo affiliata alla parrocchia».   «Abbiamo anche creato una stazione radio online, con più di sette posti di lavoro fissi, e aperto una pensione intitolata a Charles de Foucauld». Inoltre, ci sono un’accademia musicale, una squadra di calcio e corsi di danza e folklore palestinese.   Un anno fa, il Patriarcato Latino di Gerusalemme e la parrocchia di Taybeh hanno acquisito un terreno contenente una casa non finita, con l’obiettivo di avviare un progetto abitativo per giovani famiglie, al fine di limitare l’emigrazione rurale. «Se l’iniziativa avrà successo, questo progetto consentirà inizialmente il completamento di cinque case».   «Poi, in una seconda fase, inizierà la costruzione di 15 appartamenti. Queste case sono destinate alle famiglie che stanno pensando di emigrare. Stiamo lavorando per raccogliere fondi per completare questi progetti. Nonostante le difficoltà accumulate negli ultimi tre anni, speriamo di mantenere viva la fiamma della speranza per Taybeh e la comunità di Terra Santa».   Taybeh ha tre parrocchie: la chiesa greco-ortodossa di San Giorgio, la chiesa greco-melchita cattolica di San Giorgio e la chiesa latina di Cristo Redentore, costruita nel 1860, oltre alla canonica. Nel 1888, padre Charles de Foucauld visitò la parrocchia latina di Taybeh. Gesù vi ​​si rifugiò prima della sua Passione; il Vangelo di Giovanni ne fa riferimento (Gv 11, 54). Taybeh era allora conosciuta come Efraim.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine di Ralf Lotys via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported
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I partiti della sinistra spagnuola ancora una volta non riescono a prendere il controllo della cattedrale di Cordova

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La campagna condotta dalla sinistra per espropriare la cattedrale di Cordova, un tempo moschea, è fallita ancora una volta.

 

Enrique Santiago, un comunista, aveva approfittato dell’incendio che aveva colpito la Cattedrale di Cordova per cercare di «nazionalizzare» l’edificio. Ricordiamo che venerdì 8 agosto 2025, un incendio scoppiò nel famoso monumento, danneggiando gravemente una cappella il cui tetto crollò sotto il peso dell’acqua utilizzata dai vigili del fuoco.

 

Santiago aveva chiesto se il governo avrebbe «adottato misure per riconoscere legalmente la proprietà pubblica della moschea, garantire una gestione pubblica e trasparente e redigere un codice di buone pratiche tra amministrazioni pubbliche, università, cittadini e UNESCO per impedire qualsiasi azione che potesse danneggiare l’immagine e il significato del monumento, come richiesto dalla Piattaforma della Moschea di Cordova e da altri gruppi di cittadini».

 

Il governo spagnolo rispose al deputato Sumar di Cordova che non esisteva alcuna base giuridica per contestare la proprietà della Cattedrale di Cordova da parte del Capitolo.

 

Il governo ha dichiarato che «non vi sono precedenti per contestare l’attuale proprietà dell’immobile» a favore del Capitolo della Cattedrale di Cordova, l’istituzione che ha registrato il monumento nel catasto nel 2006 con il nome di Santa Iglesia Catedral de Córdoba (Santa Chiesa di Cordova). La posizione del governo si basa su diverse relazioni del Servizio Legale dello Stato che hanno analizzato i reclami presentati da privati.

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Secondo la risposta ufficiale, «nell’ambito delle indagini preliminari condotte a seguito di una denuncia presentata da un privato che sosteneva che la diocesi di Cordova aveva usurpato la proprietà nota come Moschea-Cattedrale, e sulla base della relazione del Servizio Legale dello Stato di Cordova datata 9 aprile 2014, si è concluso che non vi erano prove che l’edificio potesse essere di proprietà dell’Amministrazione Generale dello Stato»

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Questa conclusione è stata ratificata in diverse occasioni. Il governo specifica che «è stata ratificata in un’ulteriore lettera del ricorrente il 12 maggio 2014».

 

Successivamente, «sono stati presentati nuovi reclami il 4 agosto 2014 e il 10 gennaio 2017 e, a seguito della relazione del Servizio Legale dello Stato del 12 aprile 2017, si è concluso che non era stata presentata alcuna prova per modificare il criterio sopra menzionato e che pertanto doveva essere confermato”»

 

Dal 1236, l’edificio è ufficialmente una chiesa ed è legalmente proprietà della Chiesa cattolica. Detiene il titolo canonico di cattedrale. Questa cattedrale è oggetto di «rivendicazioni» da parte di alcuni gruppi musulmani. Il culto musulmano vi è formalmente proibito.

 

La Commissione Islamica di Spagna, «sostenuta dal Partito Socialista Spagnolo», ha chiesto il permesso nel 2004 di «pregare» lì. Nel 2007, la Lega Araba ha fatto lo stesso presso l’OSCE, e la Commissione Islamica di Spagna ha fatto appello all’UNESCO nel 2008, richieste respinte dagli ultimi due vescovi di Cordova. Ci sono stati diversi tentativi di intrusione violenta da parte dei musulmani.

 

Un gruppo di pressione ha contestato e continua a contestare la proprietà legale della Chiesa cattolica, nonostante la sua consolidata tradizione storica e giuridica, sostenendo la «gestione pubblica» del monumento. Questa iniziativa esemplifica il movimento di sinistra spagnolo che lotta per la separazione tra Chiesa e Stato e contro il diritto della Chiesa alla proprietà dei propri luoghi di culto.

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Immagine di Francisco de Asís Alfaro Fernández via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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Roma tace sulla morte dell’eroico vescovo cinese clandestino

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Il vescovo Julius Jia Zhiguo, guida della Chiesa cattolica clandestina cinese che ha patito decenni di persecuzione sotto il Partito Comunista Cinese (PCC), è deceduto a 90 anni. La sua morte non ha tuttavia ricevuto alcuna risposta ufficiale dal Vaticano. Il vescovo Jia, a lungo nel mirino per il suo ministero pastorale, è stato ripetutamente arrestato dal Partito Comunista.   Dal 1962, Jia ha subito numerose detenzioni, dagli arresti domiciliari a 15 anni di carcere, per aver rifiutato di sottomettersi alla Chiesa di Stato del regime. I suoi arresti hanno segnato un arresto significativo nei negoziati tra Roma e Cina.   Nel 2009, l’arresto di Jia provocò uno stallo nei colloqui tra Vaticano e Associazione Patriottica Cattolica, approvata dallo Stato cinese. Sotto Benedetto XVI, Roma adottò cautela nei rapporti con i prelati cinesi, mentre si intensificava la persecuzione della Chiesa clandestina fedele al Vaticano.   «Situazioni di questo tipo creano ostacoli a quel dialogo costruttivo con le autorità competenti… Questo non è, purtroppo, un caso isolato», affermò la commissione vaticana.

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Dopo l’accordo sino-vaticano, supervisionato dal cardinale Pietro Parolin, il tono è mutato. Con l’aumento delle tensioni in Vaticano sull’Accordo Provvisorio con la Cina – che assegna al PCC autorità nella nomina dei vescovi – molti membri della Chiesa cattolica clandestina cinese si sentono abbandonarsi abbandonati da Roma.   Il Vaticano ha insistito su L’Osservatore Romano che l’accordo mirava all’«unità».   «Lo scopo principale dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei Vescovi in Cina è sostenere e promuovere l’annuncio del Vangelo in quelle terre, ricostituendo la piena e visibile unità della Chiesa», ha dichiarato il Vaticano.   L’unità auspicata dal Vaticano non si è ancora realizzata, poiché la persecuzione dei cattolici in Cina persiste.   Jia ha gestito un orfanotrofio in Cina per 30 anni, subendo continue pressioni dal governo cinese affinché gli sottraessero i bambini. Durante la pandemia di COVID-19, il PCC avrebbe tentato di fargli firmare un accordo che permetteva alla sua chiesa di rimanere aperta solo se avesse promesso l’esclusione dei minori di 18 anni.   In un’intervista a La Stampa nel 2016, il vescovo Jia spiegò come fosse riuscito a sopportare una persecuzione così intensa.   «Ci bastava avere Dio nel cuore. Questo mi ha accompagnato e custodito per tutto quel tempo. Ci sono state tante difficoltà, ma Dio mi era accanto, e questo bastava».  

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