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2001: la trasformazione dell’Impero americano

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Questo articolo è estratto dal libro Sotto i nostri occhi.

 

 

Le  «primavere arabe» organizzate da Washington e Londra

Allo scioglimento dell’Unione Sovietica, le élite degli USA credono che alla Guerra fredda possa seguire un periodo di scambi e prosperità. Tuttavia, una fazione del complesso militare-industriale impone il riarmo nel 1995 e una politica imperiale fortemente aggressiva nel 2001.

 

Tale gruppo, identificato come «governo di continuità» previsto in caso di distruzione delle istituzioni elette, pianifica anticipatamente le guerre in Afghanistan e in Iraq, che sono avviate solo dopo l’11 settembre.

 

Di fronte al fallimento militare in Iraq e all’impossibilità di attaccare l’Iran, il gruppo cambia idea, abbracciando i piani inglesi per rovesciare i regimi laici del Grande Medio Oriente e rimodellarlo in staterelli amministrati dai Fratelli musulmani.

 

A poco a poco prende il controllo di NATO, UE e ONU. Solo dopo milioni di vite e miliardi di dollari gli Stati Uniti cambiano strategia a partire dall’elezione di Donald Trump.

 

 

La supremazia statunitense

Alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, gli Stati Uniti si ritrovarono a essere l’unica nazione vittoriosa a non aver subito la guerra sul proprio territorio.

 

Approfittando di una condizione senz’altro vantaggiosa, Washington decise di sostituire Londra nel controllo dell’impero e di scontrarsi con Mosca: per ben 44 anni, dunque, una Guerra fredda sostituì la «guerra calda». Quando l’Unione Sovietica cominciò a diventare instabile e a dare segni di cedimento, il presidente George H. Bush senior pensò che fosse giunto il momento di intraprendere alcuni affari iniziando a ridurre le forze armate e ordinando la revisione della politica estera e di quella militare.

 

National Security Strategy of the United States (1991): «Gli Stati Uniti rimangono la sola nazione stato con forza, portata e influenza veramente globali in tutti i campi: politico, economico e militare. Non esiste nessuno che possa sostituirsi alla leadership americana»

All’indomani del crollo del Muro, Washington precisò sul proprio National Security Strategy of the United States (1991) che «Gli Stati Uniti rimangono la sola nazione stato con forza, portata e influenza veramente globali in tutti i campi: politico, economico e militare. Non esiste nessuno che possa sostituirsi alla leadership americana».

 

Decise così di riorganizzare il mondo con l’operazione «Desert Storm», spingendo l’alleato kuwaitiano a sottrarre il petrolio iracheno e a esigere il rimborso degli arretrati del presunto aiuto gratuito contro l’Iran. Poi incoraggiò l’alleato iracheno a risolvere la questione annettendo il Kuwait, che gli inglesi avevano arbitrariamente separato dall’Iraq 30 anni prima. Infine, invitò tutti gli Stati del mondo a sostenerlo nel riaffermare il diritto internazionale al posto delle Nazioni Unite.

 

Eppure la scomparsa dell’URSS avrebbe dovuto comportare logicamente quella dell’altra superpotenza, ossia gli Stati Uniti, essendo i due imperi arroccati sulle loro posizioni antagoniste.

 

Per evitarne la caduta, i parlamentari statunitensi imposero il riarmo al presidente Bill Clinton, nel 1995. Si consolidarono le forze armate – che avevano smobilitato un milione di uomini – benché a quel tempo non esistesse alcun rivale alla loro altezza. Il sogno di un mondo unipolare – immaginato da Bush senior e diretto dagli affari americani – cedeva quindi il passo a una folle corsa al mantenimento del progetto imperiale.

 

Il dominio mondiale degli Stati Uniti si è concretizzato attraverso quattro guerre condotte senza l’approvazione delle Nazioni Unite: Jugoslavia (1995 e 1999), Afghanistan (2002), Iraq (2003) e Libia (2011). Questo periodo si è concluso con i 10 veti cinesi e i 16 russi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che hanno impedito espressamente un conflitto aperto contro la Siria.

 

Non appena conclusa la guerra del Golfo, il repubblicano Bush senior invitò Paul Wolfowitz a scrivere la Defense Policy Guidance (1) (documento riservato, ma del quale alcuni estratti furono pubblicati dal New York Times e dal Washington Post) (2).

 

La «dottrina Wolfowitz» avrebbe dovuto evitare una nuova Guerra fredda e garantire il ruolo di «gendarme del mondo» agli Stati Uniti. Il presidente Bush senior smobilitò massicciamente le sue forze armate, perché non dovevano essere altro che un semplice corpo di polizia. Eppure ci siamo trovati di fronte a uno scenario opposto

Questo militante trotskista e futuro vicesegretario della Difesa così teorizzava nel documento la supremazia statunitense:

 

«Il nostro primo obiettivo è impedire il riemergere di un nuovo rivale – sia sul territorio dell’ex Unione Sovietica, sia altrove – che potrebbe rappresentare una minaccia paragonabile a quella dell’ex URSS. Questa è la preoccupazione principale alla base della nuova strategia di difesa regionale: richiede che ci s’impegni per impedire che qualsiasi potenza ostile possa dominare una regione le cui risorse, se poste sotto controllo, sarebbero forse sufficienti a renderla una potenza globale. Queste regioni comprendono l’Europa, l’Estremo Oriente, i territori dell’ex Unione Sovietica e il Sud-Est asiatico».

 

All’interno di questo obiettivo, vi sono tre aspetti ulteriori:

 

«Primo, gli Stati Uniti devono mostrare la leadership necessaria per stabilire e garantire un nuovo ordine mondiale in grado di convincere i potenziali concorrenti che non devono aspirare a un ruolo regionale di maggior rilievo né ad assumere una posizione aggressiva per proteggere i loro legittimi interessi».

«Secondo, nelle aree della non-difesa dobbiamo rappresentare gli interessi dei Paesi industrializzati in modo tale da scoraggiare una competizione con la nostra leadership o l’eventuale tentativo di rovesciare l’ordine politico ed economico vigente».

 

«Infine, dobbiamo preservare intatti i meccanismi di deterrenza nei confronti dei potenziali concorrenti per impedire che abbiano la tentazione di svolgere un ruolo regionale di maggior rilievo o, peggio, un ruolo globale».

 

È per dimostrare la «leadership necessaria» che Washington decise, nel 2001, di prendere il controllo di tutte le riserve di idrocarburi nel «Grande Medio Oriente», con le guerre in Afghanistan e Iraq

La «dottrina Wolfowitz» avrebbe dovuto evitare una nuova Guerra fredda e garantire il ruolo di «gendarme del mondo» agli Stati Uniti. Il presidente Bush senior smobilitò massicciamente le sue forze armate, perché non dovevano essere altro che un semplice corpo di polizia. Eppure ci siamo trovati di fronte a uno scenario opposto: prima con le quattro guerre di cui sopra, poi il conflitto in Siria, infine in Ucraina contro la Russia.

 

È per dimostrare la «leadership necessaria» che Washington decise, nel 2001, di prendere il controllo di tutte le riserve di idrocarburi nel «Grande Medio Oriente», con le guerre in Afghanistan e Iraq.

 

È per «scoraggiare una competizione [degli alleati] con la [loro] leadership» che Washington cambiò i piani nel 2004 e decise di concretizzare la proposta inglese di 1) annettere gli Stati russi non riconosciuti, iniziando dall’Ossezia del Sud, e 2) di rovesciare i governi laici arabi a favore dei Fratelli musulmani, le «Primavere arabe».

Infine, è per scoraggiare la Russia dall’assumere “un ruolo globale” che Washington oggi arma i jihadisti e gli ex jihadisti in Siria, in Ucraina e in Crimea.

 

Per essere attuata, la dottrina Wolfowitz richiede non solo risorse finanziarie e umane, ma soprattutto un forte desiderio di egemonia.

 

Un gruppo di dirigenti politici e militari spera di raggiungerlo promuovendo la candidatura del figlio di Bush senior, che ispira la famiglia Kagan a creare, all’interno dell’American Enterprise Institute, una sorta di «comitato di influenza»: il Progetto per un nuovo secolo americano.

 

Tale gruppo sarà costretto a falsare le elezioni presidenziali in Florida grazie ad alcuni brogli e all’aiuto del governatore Jeb Bush, fratello di Bush junior, consentendo a quest’ultimo l’ascesa alla Casa Bianca. Prima di questo, l’organizzazione si era attivamente adoperata per preparare nuove guerre di conquista, in particolare in Iraq.

 

Ma il nuovo presidente fa fatica a obbedire e costringe i suoi sostenitori a dare una scossa all’opinione pubblica, che paragonano a una «Nuova Pearl Harbor»: l’11 settembre 2001.

 

 

La svolta dell’11 settembre

Tutti credono di sapere ciò che è veramente successo l’11 settembre 2001 e citano gli aerei che colpirono le Torri Gemelle e distrussero parte del Pentagono. Ma dietro a questi eventi e all’interpretazione fornita dall’amministrazione Bush si nasconde tutta un’altra storia.

 

Mentre due aerei colpivano il World Trade Center, gli uffici del vicepresidente venivano devastati dalle fiamme e si sentivano due esplosioni al Pentagono, il coordinatore nazionale della lotta al terrorismo, Richard Clarke, avviò la procedura per la «Continuità di Governo» (COG) (3).

 

Ideata durante la Guerra fredda, in caso di guerra nucleare e decapitazione dei centri del potere esecutivo e legislativo avrebbe dovuto salvare il paese affidandone tutte le responsabilità a un’autorità ad interim segretamente designata in precedenza.

 

Mentre due aerei colpivano il World Trade Center, gli uffici del vicepresidente venivano devastati dalle fiamme e si sentivano due esplosioni al Pentagono, il coordinatore nazionale della lotta al terrorismo, Richard Clarke, avviò la procedura per la «Continuità di Governo»

Ma quel giorno nessuno dei capi eletti era morto.

 

Ciononostante, alle 10 di mattina George W. Bush non era più presidente degli Stati Uniti. Il potere esecutivo veniva trasferito dalla Casa Bianca a Washington al sito «R», il bunker situato nella Raven Rock Mountain (4). Unità dell’esercito e dei servizi segreti si ritrovarono nella capitale per «proteggere» i membri del Congresso e i loro team. Quasi tutti furono condotti «per la loro sicurezza» in un altro mega-bunker vicino a Washington, il Greenbrier Complex.

 

Il governo alternativo, la cui composizione non cambiava da almeno nove anni, includeva varie personalità di lungo corso politico tra cui il vicepresidente Dick Cheney, il segretario della Difesa Donald Rumsfeld e l’ex direttore della CIA James Woolsey.

 

Nel pomeriggio il primo ministro israeliano, Ariel Sharon, si rivolse agli statunitensi mentre si ignorava l’attuazione del piano per la Continuità di Governo e non si avevano notizie di George W. Bush. Manifestò la solidarietà del proprio popolo, anch’esso bersaglio del terrorismo da molto tempo. Parlò come se fosse convinto del fatto che gli attacchi fossero finiti e come se fosse il rappresentante dello Stato americano.

 

Nel tardo pomeriggio il governo provvisorio restituì il potere esecutivo al presidente Bush, che pronunciò un discorso televisivo, mentre i parlamentari venivano rilasciati.

 

Si tratta di fatti accertati e non della storiella inverosimile raccontata dall’amministrazione Bush a proposito dei kamikaze che, da una grotta afgana, avrebbero ordito un complotto per distruggere la prima potenza militare del mondo.

 

In un libro pubblicato trent’anni prima e divenuto il manuale dei repubblicani durante la campagna elettorale del 2000 – Strategia del colpo di Stato. Manuale pratico (5) –, lo storico Edward Luttwak spiegava che un colpo di Stato ha maggiore successo quando nessuno se ne rende conto, e quindi non vi si oppone. Avrebbe dovuto anche chiarire che, affinché il governo legale possa obbedire ai cospiratori, non basta dare l’illusione di mantenere la stessa squadra al «potere», ma è altresì necessario che i cospiratori ne facciano parte.

 

Le decisioni imposte dal governo provvisorio – l’11 settembre – furono approvate dal presidente Bush nei giorni successivi.

 

Sul fronte interno il Bill of Rights (Carta dei Diritti) – vale a dire i primi dieci emendamenti della Costituzione – fu sospeso dall’USA Patriot Act per i casi di terrorismo.

 

Sul piano estero furono pianificati cambi di regime e guerre sia per ostacolare lo sviluppo della Cina e distruggere tutte le strutture statali esistenti del Grande Medio Oriente.

 

Alle 10 di mattina George W. Bush non era più presidente degli Stati Uniti. Il potere esecutivo veniva trasferito dalla Casa Bianca a Washington al sito «R», il bunker situato nella Raven Rock Mountain

Il presidente Bush accusò gli islamisti degli attentati dell’11 settembre e dichiarò la «guerra al terrorismo», una frase che suona bene ma che in definitiva non ha senso. Infatti, il terrorismo non è una potenza, ma un metodo di azione.

 

In pochi anni gli attentati – che Washington pretendeva di combattere – si sono moltiplicati in tutto il mondo. Un’altra particolarità di questo nuovo conflitto è il suo nome: «guerra senza fine».

 

Quattro giorni dopo la tragedia il presidente Bush si trovò a presiedere un incontro surreale a Camp David, dove fu adottato il principio delle guerre per distruggere tutti gli Stati che fino ad allora non rientravano sotto controllo nel «Grande Medio Oriente», così come un progetto di omicidi politici a livello internazionale.

 

Questo piano fu chiamato – dal direttore della CIA, George Tenet – «Worldwide Attack Matrix», ossia la «Matrice dell’attacco mondiale».

 

L’incontro fu prima citato dal Washington Post (6), poi denunciato dall’ex comandante supremo della NATO, il generale Wesley Clark. Il termine «matrice» sottintende che non si tratta che della fase iniziale di una strategia molto più capillare.

 

 

Chi governa gli Stati Uniti?

Per capire la crisi istituzionale che stava per aprirsi, bisogna fare un passo indietro.

 

Il mito fondante degli Stati Uniti assicura che alcuni puritani, convinti dell’impossibilità di riformare la monarchia e la Chiesa inglesi, decisero di costruire nelle Americhe «la nuova Gerusalemme». Nel 1620 s’imbarcarono per il Nuovo Mondo sulla Mayflower e ringraziarono Dio per aver consentito loro di attraversare il Mar Rosso (l’Atlantico) e sfuggire alla dittatura del faraone (il re d’Inghilterra). Questo atto di riconoscenza è alla base della festa del Ringraziamento.

 

I puritani sostenevano di obbedire a Dio rispettando sia i comandamenti di Cristo, sia la legge ebraica. Non veneravano in modo particolare i Vangeli, ma tutta la Bibbia. Per loro, l’Antico Testamento era importante quanto il Nuovo. Praticavano una morale austera, erano convinti di essere stati scelti da Dio e di esserne benedetti attraverso la ricchezza. Pertanto, ritenevano che nessun uomo – indipendentemente da cosa facesse – potesse migliorare e che il denaro fosse un dono di Dio riservato ai fedeli.

 

Questa ideologia ha molte implicazioni che si sono perpetuate fino ai giorni nostri: per esempio il rifiuto di organizzare una forma di solidarietà nazionale – la previdenza sociale – sostituendola con la carità individuale; oppure, in materia penale, la convinzione che criminali si è fin dalla nascita, un principio che portò il Manhattan Institute a promuovere in molti Stati leggi che punissero con pesanti pene detentive i recidivi per piccoli reati, come il fatto di non pagare il biglietto della metropolitana.

Quattro giorni dopo la tragedia il presidente Bush si trovò a presiedere un incontro surreale a Camp David, dove fu adottato il principio delle guerre per distruggere tutti gli Stati che fino ad allora non rientravano sotto controllo nel «Grande Medio Oriente», così come un progetto di omicidi politici a livello internazionale. Questo piano fu chiamato – dal direttore della CIA, George Tenet – «Worldwide Attack Matrix», ossia la «Matrice dell’attacco mondiale».

 

Anche se il mito nazionale ha offuscato il fanatismo dei «Padri pellegrini», costoro al tempo instaurarono una comunità settaria, stabilirono punizioni corporali e costrinsero le donne a portare il velo. In realtà, vi sono molte somiglianze tra i loro costumi e quelli degli islamisti contemporanei.

 

La guerra d’indipendenza sopraggiunse quando la popolazione delle colonie era profondamente cambiata. Non proveniva più dalla sola Inghilterra, ma comprendeva anche gente del Nord Europa. I patrioti che combattevano il re d’Inghilterra speravano di diventare artefici del proprio destino, edificando istituzioni repubblicane e democratiche.

 

È per loro che Thomas Jefferson scrisse la Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, basandosi sull’Illuminismo in generale e sul filosofo John Locke in particolare.

 

Pur tuttavia, fu un’altra fonte a ispirare la Costituzione dopo la vittoria, ovvero il Patto della Mayflower, cioè l’ideologia puritana e il desiderio di creare istituzioni simili a quelle dell’Inghilterra, ma senza la nobiltà ereditaria.

 

Pertanto, respingendo la sovranità popolare furono istituiti i governatori degli Stati federali, un sistema d’altronde assolutamente inaccettabile che fu immediatamente «equilibrato» dai 10 emendamenti costituzionali che compongono il Bill of Rights. Il testo finale riserva pertanto la responsabilità politica alle élite degli Stati federali e attribuisce ai cittadini il diritto di difendersi in tribunale contro la «Ragion di Stato».

 

Sospendendo il Bill of Rights per ogni evento ricollegabile al terrorismo, l’USA Patriot Act ci riporta alla Costituzione di due secoli prima, privando i cittadini dei loro diritti in tribunale e squilibrando di nuovo le istituzioni. Sottomette perciò il potere all’ideologia puritana e garantisce unicamente gli interessi delle élite degli Stati federali.

 

la sera dell’11 settembre, Donald Trump nega ciò che sta per diventare la versione ufficiale sul Canal 9 di New York. Dopo aver ricordato che gli ingegneri che hanno costruito le Torri sono entrati poi nella sua azienda, sottolinea l’impossibilità che il crollo di Torri tanto massicce sia stato dovuto unicamente all’impatto degli aerei (e agli incendi). Conclude che necessariamente devono esserci stati altri fattori, non ancora noti

Il promotore immobiliare Donald Trump è stato il solo a mettere in dubbio, il pomeriggio stesso dell’11 settembre 2001, la versione del crollo delle Twin Towers imposta dall’amministrazione Bush. Mantenendo la mente fredda, Trump afferma che secondo i suoi ingegneri (che avevano costruito il World Trade Center) degli aerei di linea non potevano aver causato la distruzione delle Torri.

 

Il colpo di Stato dell’11 settembre ha diviso queste élite in due gruppi, ovvero chi lo ha sostenuto e chi ha finto d’ignorarlo. Le poche figure che vi si sono opposte – come il senatore Paul Wellstone – sono state fisicamente eliminate.

 

Hanno però preso la parola alcuni cittadini, soprattutto due immobiliari miliardari: così, la sera dell’11 settembre, Donald Trump nega ciò che sta per diventare la versione ufficiale sul Canal 9 di New York. Dopo aver ricordato che gli ingegneri che hanno costruito le Torri [Gemelle] sono entrati poi nella sua azienda, sottolinea l’impossibilità che il crollo di Torri tanto massicce sia stato dovuto unicamente all’impatto degli aerei (e agli incendi). Conclude che necessariamente devono esserci stati altri fattori, non ancora noti.

 

Un altro imprenditore, Jimmy Walter, sacrifica parte del suo patrimonio per acquistare spazi pubblicitari sui giornali e per pubblicare DVD che analizzino i reali motivi della devastazione.

 

Nei quindici anni successivi, i due gruppi di cospiratori e complici passivi – che hanno lo stesso obiettivo di dominio interno ed estero – si affrontano regolarmente finché non saranno apparentemente entrambi rovesciati dal movimento popolare guidato da Donald Trump.

 

 

Thierry Meyssan

 

 

NOTE

1)  James Mann, The Rise of the Vulcans: The History of [W.] Bush’s War Cabinet, Viking (2004).

2) Patrick E. Tyler, «US Strategy Plan Calls For Insuring No Rivals Develop»,  New York Times,  8 marzo 1992. Barton Gellman, «Keeping the US First, Pentagon Would preclude a Rival Superpower », The Washington Post, 11 marzo 1992.

3) Richard Clarke, Against All Enemies, Inside America’s War on Terror,  Free Press, 2004. Versione italiana Contro tutti i nemici. La verità sulla guerra americana contro il terrorismo, TEA Editore, 10 marzo 2005.

4) Garrett M. Graff, Raven Rock: The Story of the U.S. Government’s Secret Plan to Save Itself—While the Rest of Us Die,  Simon & Shuster (2017). James Bamford, A Pretext for War, Anchor Books, 2004.

5) Edward Luttwak, Coup d’État: A Practical Handbook,  Allen Lane, 1968. Versione italiana: Strategia del colpo di Stato. Manuale pratico, Rizzoli Editore, 1968. Edward Luttwak, Richard Perle, Peter Wilson e Paul Wolfowitz furono i «Quattro moschettieri» dell’ex segretario di Stato Dean Acheson.

6) Bob Woodward & Dan Blaz, «Saturday, Septembrer 15, At Camp David, Advise and Dissent», The Washington Post, January 31, 2002.

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

La traduzione italiana del libro è disponibile in versione cartacea.

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

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Trump: Zelens’kyj deve essere «realista»

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Il presidente statunitense Donald Trump ha dichiarato che Volodymyr Zelens’kyj deve fare i conti con la realtà del conflitto contro la Russia e con l’urgenza di indire nuove elezioni.

 

Il mandato presidenziale quinquennale di Zelens’kyj è scaduto a maggio 2024, ma il leader ucraino ha sempre escluso il voto per via della legge marziale in vigore. Vladimir Putin ha più volte sostenuto che lo Zelens’kyj non può più essere considerato un interlocutore legittimo e che la sua posizione renderebbe giuridicamente problematico qualsiasi accordo di pace.

 

Mercoledì Trump ha affrontato la questione Ucraina in una telefonata con i leader di Regno Unito, Francia e Germania. «Ne abbiamo parlato in termini piuttosto netti, ora aspettiamo di vedere le loro risposte», ha riferito ai giornalisti alla Casa Bianca.

 

«Penso che Zelens’kyj debba essere realista. Mi domando quanto tempo passerà ancora prima che si tengano le elezioni. Dopotutto è una democrazia… Sono anni che non si vota», ha aggiunto Trump, sottolineando che l’Ucraina sta «perdendo moltissima gente».

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Il presidente americano ha poi sostenuto che l’opinione pubblica ucraina sia largamente favorevole a un’intesa con Mosca: «Se guardiamo i sondaggi, l’82 % degli ucraini vuole un accordo – è uscito proprio un sondaggio con questa cifra».

 

Trump ha insistito sulla necessità di chiudere rapidamente il conflitto: «Non possiamo permetterci di perdere altro tempo».

 

Secondo Axios e RBC-Ucraina, Kiev ha trasmesso agli Stati Uniti la sua ultima proposta di pace. Zelens’kyj , che fino a ieri escludeva elezioni in tempo di legge marziale, ha dichiarato mercoledì di essere disposto a indire il voto, a patto però che Stati Uniti e alleati europei forniscano solide garanzie di sicurezza.

 

Il consenso verso Zelens’kyj è precipitato al 20 % dopo uno scandalo di corruzione nel settore energetico che ha travolto suoi stretti collaboratori e provocato le dimissioni di diversi alti funzionari. Trump ha più volte invitato il leader ucraino a tornare alle urne, ribadendo che la corruzione endemica resta uno dei problemi più gravi del paese.

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Geopolitica

Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela

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Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.   L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.   «Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.   Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».   Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.  

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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.   Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.   Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.   Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».   Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.   Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.   «L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.   Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».   Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».  

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.

 

Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.

 

«Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.

 

Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».

 

Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.

 

Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.

 

Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 

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