Geopolitica
2001: la trasformazione dell’Impero americano

Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Questo articolo è estratto dal libro Sotto i nostri occhi.
Le «primavere arabe» organizzate da Washington e Londra
Allo scioglimento dell’Unione Sovietica, le élite degli USA credono che alla Guerra fredda possa seguire un periodo di scambi e prosperità. Tuttavia, una fazione del complesso militare-industriale impone il riarmo nel 1995 e una politica imperiale fortemente aggressiva nel 2001.
Tale gruppo, identificato come «governo di continuità» previsto in caso di distruzione delle istituzioni elette, pianifica anticipatamente le guerre in Afghanistan e in Iraq, che sono avviate solo dopo l’11 settembre.
Di fronte al fallimento militare in Iraq e all’impossibilità di attaccare l’Iran, il gruppo cambia idea, abbracciando i piani inglesi per rovesciare i regimi laici del Grande Medio Oriente e rimodellarlo in staterelli amministrati dai Fratelli musulmani.
A poco a poco prende il controllo di NATO, UE e ONU. Solo dopo milioni di vite e miliardi di dollari gli Stati Uniti cambiano strategia a partire dall’elezione di Donald Trump.
La supremazia statunitense
Alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, gli Stati Uniti si ritrovarono a essere l’unica nazione vittoriosa a non aver subito la guerra sul proprio territorio.
Approfittando di una condizione senz’altro vantaggiosa, Washington decise di sostituire Londra nel controllo dell’impero e di scontrarsi con Mosca: per ben 44 anni, dunque, una Guerra fredda sostituì la «guerra calda». Quando l’Unione Sovietica cominciò a diventare instabile e a dare segni di cedimento, il presidente George H. Bush senior pensò che fosse giunto il momento di intraprendere alcuni affari iniziando a ridurre le forze armate e ordinando la revisione della politica estera e di quella militare.
National Security Strategy of the United States (1991): «Gli Stati Uniti rimangono la sola nazione stato con forza, portata e influenza veramente globali in tutti i campi: politico, economico e militare. Non esiste nessuno che possa sostituirsi alla leadership americana»
All’indomani del crollo del Muro, Washington precisò sul proprio National Security Strategy of the United States (1991) che «Gli Stati Uniti rimangono la sola nazione stato con forza, portata e influenza veramente globali in tutti i campi: politico, economico e militare. Non esiste nessuno che possa sostituirsi alla leadership americana».
Decise così di riorganizzare il mondo con l’operazione «Desert Storm», spingendo l’alleato kuwaitiano a sottrarre il petrolio iracheno e a esigere il rimborso degli arretrati del presunto aiuto gratuito contro l’Iran. Poi incoraggiò l’alleato iracheno a risolvere la questione annettendo il Kuwait, che gli inglesi avevano arbitrariamente separato dall’Iraq 30 anni prima. Infine, invitò tutti gli Stati del mondo a sostenerlo nel riaffermare il diritto internazionale al posto delle Nazioni Unite.
Eppure la scomparsa dell’URSS avrebbe dovuto comportare logicamente quella dell’altra superpotenza, ossia gli Stati Uniti, essendo i due imperi arroccati sulle loro posizioni antagoniste.
Per evitarne la caduta, i parlamentari statunitensi imposero il riarmo al presidente Bill Clinton, nel 1995. Si consolidarono le forze armate – che avevano smobilitato un milione di uomini – benché a quel tempo non esistesse alcun rivale alla loro altezza. Il sogno di un mondo unipolare – immaginato da Bush senior e diretto dagli affari americani – cedeva quindi il passo a una folle corsa al mantenimento del progetto imperiale.
Il dominio mondiale degli Stati Uniti si è concretizzato attraverso quattro guerre condotte senza l’approvazione delle Nazioni Unite: Jugoslavia (1995 e 1999), Afghanistan (2002), Iraq (2003) e Libia (2011). Questo periodo si è concluso con i 10 veti cinesi e i 16 russi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che hanno impedito espressamente un conflitto aperto contro la Siria.
Non appena conclusa la guerra del Golfo, il repubblicano Bush senior invitò Paul Wolfowitz a scrivere la Defense Policy Guidance (1) (documento riservato, ma del quale alcuni estratti furono pubblicati dal New York Times e dal Washington Post) (2).
La «dottrina Wolfowitz» avrebbe dovuto evitare una nuova Guerra fredda e garantire il ruolo di «gendarme del mondo» agli Stati Uniti. Il presidente Bush senior smobilitò massicciamente le sue forze armate, perché non dovevano essere altro che un semplice corpo di polizia. Eppure ci siamo trovati di fronte a uno scenario opposto
Questo militante trotskista e futuro vicesegretario della Difesa così teorizzava nel documento la supremazia statunitense:
«Il nostro primo obiettivo è impedire il riemergere di un nuovo rivale – sia sul territorio dell’ex Unione Sovietica, sia altrove – che potrebbe rappresentare una minaccia paragonabile a quella dell’ex URSS. Questa è la preoccupazione principale alla base della nuova strategia di difesa regionale: richiede che ci s’impegni per impedire che qualsiasi potenza ostile possa dominare una regione le cui risorse, se poste sotto controllo, sarebbero forse sufficienti a renderla una potenza globale. Queste regioni comprendono l’Europa, l’Estremo Oriente, i territori dell’ex Unione Sovietica e il Sud-Est asiatico».
All’interno di questo obiettivo, vi sono tre aspetti ulteriori:
«Primo, gli Stati Uniti devono mostrare la leadership necessaria per stabilire e garantire un nuovo ordine mondiale in grado di convincere i potenziali concorrenti che non devono aspirare a un ruolo regionale di maggior rilievo né ad assumere una posizione aggressiva per proteggere i loro legittimi interessi».
«Secondo, nelle aree della non-difesa dobbiamo rappresentare gli interessi dei Paesi industrializzati in modo tale da scoraggiare una competizione con la nostra leadership o l’eventuale tentativo di rovesciare l’ordine politico ed economico vigente».
«Infine, dobbiamo preservare intatti i meccanismi di deterrenza nei confronti dei potenziali concorrenti per impedire che abbiano la tentazione di svolgere un ruolo regionale di maggior rilievo o, peggio, un ruolo globale».
È per dimostrare la «leadership necessaria» che Washington decise, nel 2001, di prendere il controllo di tutte le riserve di idrocarburi nel «Grande Medio Oriente», con le guerre in Afghanistan e Iraq
La «dottrina Wolfowitz» avrebbe dovuto evitare una nuova Guerra fredda e garantire il ruolo di «gendarme del mondo» agli Stati Uniti. Il presidente Bush senior smobilitò massicciamente le sue forze armate, perché non dovevano essere altro che un semplice corpo di polizia. Eppure ci siamo trovati di fronte a uno scenario opposto: prima con le quattro guerre di cui sopra, poi il conflitto in Siria, infine in Ucraina contro la Russia.
È per dimostrare la «leadership necessaria» che Washington decise, nel 2001, di prendere il controllo di tutte le riserve di idrocarburi nel «Grande Medio Oriente», con le guerre in Afghanistan e Iraq.
È per «scoraggiare una competizione [degli alleati] con la [loro] leadership» che Washington cambiò i piani nel 2004 e decise di concretizzare la proposta inglese di 1) annettere gli Stati russi non riconosciuti, iniziando dall’Ossezia del Sud, e 2) di rovesciare i governi laici arabi a favore dei Fratelli musulmani, le «Primavere arabe».
Infine, è per scoraggiare la Russia dall’assumere “un ruolo globale” che Washington oggi arma i jihadisti e gli ex jihadisti in Siria, in Ucraina e in Crimea.
Per essere attuata, la dottrina Wolfowitz richiede non solo risorse finanziarie e umane, ma soprattutto un forte desiderio di egemonia.
Un gruppo di dirigenti politici e militari spera di raggiungerlo promuovendo la candidatura del figlio di Bush senior, che ispira la famiglia Kagan a creare, all’interno dell’American Enterprise Institute, una sorta di «comitato di influenza»: il Progetto per un nuovo secolo americano.
Tale gruppo sarà costretto a falsare le elezioni presidenziali in Florida grazie ad alcuni brogli e all’aiuto del governatore Jeb Bush, fratello di Bush junior, consentendo a quest’ultimo l’ascesa alla Casa Bianca. Prima di questo, l’organizzazione si era attivamente adoperata per preparare nuove guerre di conquista, in particolare in Iraq.
Ma il nuovo presidente fa fatica a obbedire e costringe i suoi sostenitori a dare una scossa all’opinione pubblica, che paragonano a una «Nuova Pearl Harbor»: l’11 settembre 2001.
La svolta dell’11 settembre
Tutti credono di sapere ciò che è veramente successo l’11 settembre 2001 e citano gli aerei che colpirono le Torri Gemelle e distrussero parte del Pentagono. Ma dietro a questi eventi e all’interpretazione fornita dall’amministrazione Bush si nasconde tutta un’altra storia.
Mentre due aerei colpivano il World Trade Center, gli uffici del vicepresidente venivano devastati dalle fiamme e si sentivano due esplosioni al Pentagono, il coordinatore nazionale della lotta al terrorismo, Richard Clarke, avviò la procedura per la «Continuità di Governo» (COG) (3).
Ideata durante la Guerra fredda, in caso di guerra nucleare e decapitazione dei centri del potere esecutivo e legislativo avrebbe dovuto salvare il paese affidandone tutte le responsabilità a un’autorità ad interim segretamente designata in precedenza.
Mentre due aerei colpivano il World Trade Center, gli uffici del vicepresidente venivano devastati dalle fiamme e si sentivano due esplosioni al Pentagono, il coordinatore nazionale della lotta al terrorismo, Richard Clarke, avviò la procedura per la «Continuità di Governo»
Ma quel giorno nessuno dei capi eletti era morto.
Ciononostante, alle 10 di mattina George W. Bush non era più presidente degli Stati Uniti. Il potere esecutivo veniva trasferito dalla Casa Bianca a Washington al sito «R», il bunker situato nella Raven Rock Mountain (4). Unità dell’esercito e dei servizi segreti si ritrovarono nella capitale per «proteggere» i membri del Congresso e i loro team. Quasi tutti furono condotti «per la loro sicurezza» in un altro mega-bunker vicino a Washington, il Greenbrier Complex.
Il governo alternativo, la cui composizione non cambiava da almeno nove anni, includeva varie personalità di lungo corso politico tra cui il vicepresidente Dick Cheney, il segretario della Difesa Donald Rumsfeld e l’ex direttore della CIA James Woolsey.
Nel pomeriggio il primo ministro israeliano, Ariel Sharon, si rivolse agli statunitensi mentre si ignorava l’attuazione del piano per la Continuità di Governo e non si avevano notizie di George W. Bush. Manifestò la solidarietà del proprio popolo, anch’esso bersaglio del terrorismo da molto tempo. Parlò come se fosse convinto del fatto che gli attacchi fossero finiti e come se fosse il rappresentante dello Stato americano.
Nel tardo pomeriggio il governo provvisorio restituì il potere esecutivo al presidente Bush, che pronunciò un discorso televisivo, mentre i parlamentari venivano rilasciati.
Si tratta di fatti accertati e non della storiella inverosimile raccontata dall’amministrazione Bush a proposito dei kamikaze che, da una grotta afgana, avrebbero ordito un complotto per distruggere la prima potenza militare del mondo.
In un libro pubblicato trent’anni prima e divenuto il manuale dei repubblicani durante la campagna elettorale del 2000 – Strategia del colpo di Stato. Manuale pratico (5) –, lo storico Edward Luttwak spiegava che un colpo di Stato ha maggiore successo quando nessuno se ne rende conto, e quindi non vi si oppone. Avrebbe dovuto anche chiarire che, affinché il governo legale possa obbedire ai cospiratori, non basta dare l’illusione di mantenere la stessa squadra al «potere», ma è altresì necessario che i cospiratori ne facciano parte.
Le decisioni imposte dal governo provvisorio – l’11 settembre – furono approvate dal presidente Bush nei giorni successivi.
Sul fronte interno il Bill of Rights (Carta dei Diritti) – vale a dire i primi dieci emendamenti della Costituzione – fu sospeso dall’USA Patriot Act per i casi di terrorismo.
Sul piano estero furono pianificati cambi di regime e guerre sia per ostacolare lo sviluppo della Cina e distruggere tutte le strutture statali esistenti del Grande Medio Oriente.
Alle 10 di mattina George W. Bush non era più presidente degli Stati Uniti. Il potere esecutivo veniva trasferito dalla Casa Bianca a Washington al sito «R», il bunker situato nella Raven Rock Mountain
Il presidente Bush accusò gli islamisti degli attentati dell’11 settembre e dichiarò la «guerra al terrorismo», una frase che suona bene ma che in definitiva non ha senso. Infatti, il terrorismo non è una potenza, ma un metodo di azione.
In pochi anni gli attentati – che Washington pretendeva di combattere – si sono moltiplicati in tutto il mondo. Un’altra particolarità di questo nuovo conflitto è il suo nome: «guerra senza fine».
Quattro giorni dopo la tragedia il presidente Bush si trovò a presiedere un incontro surreale a Camp David, dove fu adottato il principio delle guerre per distruggere tutti gli Stati che fino ad allora non rientravano sotto controllo nel «Grande Medio Oriente», così come un progetto di omicidi politici a livello internazionale.
Questo piano fu chiamato – dal direttore della CIA, George Tenet – «Worldwide Attack Matrix», ossia la «Matrice dell’attacco mondiale».
L’incontro fu prima citato dal Washington Post (6), poi denunciato dall’ex comandante supremo della NATO, il generale Wesley Clark. Il termine «matrice» sottintende che non si tratta che della fase iniziale di una strategia molto più capillare.
Chi governa gli Stati Uniti?
Per capire la crisi istituzionale che stava per aprirsi, bisogna fare un passo indietro.
Il mito fondante degli Stati Uniti assicura che alcuni puritani, convinti dell’impossibilità di riformare la monarchia e la Chiesa inglesi, decisero di costruire nelle Americhe «la nuova Gerusalemme». Nel 1620 s’imbarcarono per il Nuovo Mondo sulla Mayflower e ringraziarono Dio per aver consentito loro di attraversare il Mar Rosso (l’Atlantico) e sfuggire alla dittatura del faraone (il re d’Inghilterra). Questo atto di riconoscenza è alla base della festa del Ringraziamento.
I puritani sostenevano di obbedire a Dio rispettando sia i comandamenti di Cristo, sia la legge ebraica. Non veneravano in modo particolare i Vangeli, ma tutta la Bibbia. Per loro, l’Antico Testamento era importante quanto il Nuovo. Praticavano una morale austera, erano convinti di essere stati scelti da Dio e di esserne benedetti attraverso la ricchezza. Pertanto, ritenevano che nessun uomo – indipendentemente da cosa facesse – potesse migliorare e che il denaro fosse un dono di Dio riservato ai fedeli.
Questa ideologia ha molte implicazioni che si sono perpetuate fino ai giorni nostri: per esempio il rifiuto di organizzare una forma di solidarietà nazionale – la previdenza sociale – sostituendola con la carità individuale; oppure, in materia penale, la convinzione che criminali si è fin dalla nascita, un principio che portò il Manhattan Institute a promuovere in molti Stati leggi che punissero con pesanti pene detentive i recidivi per piccoli reati, come il fatto di non pagare il biglietto della metropolitana.
Quattro giorni dopo la tragedia il presidente Bush si trovò a presiedere un incontro surreale a Camp David, dove fu adottato il principio delle guerre per distruggere tutti gli Stati che fino ad allora non rientravano sotto controllo nel «Grande Medio Oriente», così come un progetto di omicidi politici a livello internazionale. Questo piano fu chiamato – dal direttore della CIA, George Tenet – «Worldwide Attack Matrix», ossia la «Matrice dell’attacco mondiale».
Anche se il mito nazionale ha offuscato il fanatismo dei «Padri pellegrini», costoro al tempo instaurarono una comunità settaria, stabilirono punizioni corporali e costrinsero le donne a portare il velo. In realtà, vi sono molte somiglianze tra i loro costumi e quelli degli islamisti contemporanei.
La guerra d’indipendenza sopraggiunse quando la popolazione delle colonie era profondamente cambiata. Non proveniva più dalla sola Inghilterra, ma comprendeva anche gente del Nord Europa. I patrioti che combattevano il re d’Inghilterra speravano di diventare artefici del proprio destino, edificando istituzioni repubblicane e democratiche.
È per loro che Thomas Jefferson scrisse la Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, basandosi sull’Illuminismo in generale e sul filosofo John Locke in particolare.
Pur tuttavia, fu un’altra fonte a ispirare la Costituzione dopo la vittoria, ovvero il Patto della Mayflower, cioè l’ideologia puritana e il desiderio di creare istituzioni simili a quelle dell’Inghilterra, ma senza la nobiltà ereditaria.
Pertanto, respingendo la sovranità popolare furono istituiti i governatori degli Stati federali, un sistema d’altronde assolutamente inaccettabile che fu immediatamente «equilibrato» dai 10 emendamenti costituzionali che compongono il Bill of Rights. Il testo finale riserva pertanto la responsabilità politica alle élite degli Stati federali e attribuisce ai cittadini il diritto di difendersi in tribunale contro la «Ragion di Stato».
Sospendendo il Bill of Rights per ogni evento ricollegabile al terrorismo, l’USA Patriot Act ci riporta alla Costituzione di due secoli prima, privando i cittadini dei loro diritti in tribunale e squilibrando di nuovo le istituzioni. Sottomette perciò il potere all’ideologia puritana e garantisce unicamente gli interessi delle élite degli Stati federali.
la sera dell’11 settembre, Donald Trump nega ciò che sta per diventare la versione ufficiale sul Canal 9 di New York. Dopo aver ricordato che gli ingegneri che hanno costruito le Torri sono entrati poi nella sua azienda, sottolinea l’impossibilità che il crollo di Torri tanto massicce sia stato dovuto unicamente all’impatto degli aerei (e agli incendi). Conclude che necessariamente devono esserci stati altri fattori, non ancora noti

Il promotore immobiliare Donald Trump è stato il solo a mettere in dubbio, il pomeriggio stesso dell’11 settembre 2001, la versione del crollo delle Twin Towers imposta dall’amministrazione Bush. Mantenendo la mente fredda, Trump afferma che secondo i suoi ingegneri (che avevano costruito il World Trade Center) degli aerei di linea non potevano aver causato la distruzione delle Torri.
Il colpo di Stato dell’11 settembre ha diviso queste élite in due gruppi, ovvero chi lo ha sostenuto e chi ha finto d’ignorarlo. Le poche figure che vi si sono opposte – come il senatore Paul Wellstone – sono state fisicamente eliminate.
Hanno però preso la parola alcuni cittadini, soprattutto due immobiliari miliardari: così, la sera dell’11 settembre, Donald Trump nega ciò che sta per diventare la versione ufficiale sul Canal 9 di New York. Dopo aver ricordato che gli ingegneri che hanno costruito le Torri [Gemelle] sono entrati poi nella sua azienda, sottolinea l’impossibilità che il crollo di Torri tanto massicce sia stato dovuto unicamente all’impatto degli aerei (e agli incendi). Conclude che necessariamente devono esserci stati altri fattori, non ancora noti.
Un altro imprenditore, Jimmy Walter, sacrifica parte del suo patrimonio per acquistare spazi pubblicitari sui giornali e per pubblicare DVD che analizzino i reali motivi della devastazione.
Nei quindici anni successivi, i due gruppi di cospiratori e complici passivi – che hanno lo stesso obiettivo di dominio interno ed estero – si affrontano regolarmente finché non saranno apparentemente entrambi rovesciati dal movimento popolare guidato da Donald Trump.
Thierry Meyssan
NOTE
1) James Mann, The Rise of the Vulcans: The History of [W.] Bush’s War Cabinet, Viking (2004).
2) Patrick E. Tyler, «US Strategy Plan Calls For Insuring No Rivals Develop», New York Times, 8 marzo 1992. Barton Gellman, «Keeping the US First, Pentagon Would preclude a Rival Superpower », The Washington Post, 11 marzo 1992.
3) Richard Clarke, Against All Enemies, Inside America’s War on Terror, Free Press, 2004. Versione italiana Contro tutti i nemici. La verità sulla guerra americana contro il terrorismo, TEA Editore, 10 marzo 2005.
4) Garrett M. Graff, Raven Rock: The Story of the U.S. Government’s Secret Plan to Save Itself—While the Rest of Us Die, Simon & Shuster (2017). James Bamford, A Pretext for War, Anchor Books, 2004.
5) Edward Luttwak, Coup d’État: A Practical Handbook, Allen Lane, 1968. Versione italiana: Strategia del colpo di Stato. Manuale pratico, Rizzoli Editore, 1968. Edward Luttwak, Richard Perle, Peter Wilson e Paul Wolfowitz furono i «Quattro moschettieri» dell’ex segretario di Stato Dean Acheson.
6) Bob Woodward & Dan Blaz, «Saturday, Septembrer 15, At Camp David, Advise and Dissent», The Washington Post, January 31, 2002.
Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND
Fonte: «2001: la trasformazione dell’Impero americano», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 3 agosto 2021.
La traduzione italiana del libro è disponibile in versione cartacea.
Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
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Geopolitica
«Li prenderemo la prossima volta» Israele non esclude un altro attacco al Qatar

Israele è determinato a uccidere i leader di Hamas ovunque risiedano e continuerà i suoi sforzi finché non saranno tutti morti, ha dichiarato martedì a Fox News l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Yechiel Leiter.
In precedenza, attacchi aerei israeliani hanno colpito un edificio residenziale a Doha, in Qatar, prendendo di mira alti esponenti dell’ala politica di Hamas. Il gruppo ha affermato che i suoi funzionari sono sopravvissuti, mentre l’attacco è stato criticato dalla Casa Bianca e condannato dal Qatar.
«Se non li abbiamo presi questa volta, li prenderemo la prossima volta», ha detto il Leiter.
L’ambasciatore ha descritto Hamas come «nemico della civiltà occidentale» e ha sostenuto che le azioni di Israele stavano rimodellando il Medio Oriente in modi che gli Stati «moderati» comprendevano e apprezzavano. «In questo momento, potremmo essere oggetto di qualche critica. Se ne faranno una ragione», ha detto riferendosi ai Paesi arabi.
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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato che, sebbene smantellare Hamas sia un obiettivo legittimo, colpire un alleato degli Stati Uniti mina gli interessi sia americani che israeliani.
Leiter ha osservato che Israele «non ha mai avuto un amico migliore alla Casa Bianca» e che Washington e lo Stato Ebraico sono rimaste unite nel perseguire la distruzione del gruppo militante.
Il Qatar, che ospita funzionari di Hamas nell’ambito del suo ruolo di mediatore, ha dichiarato che tra le sei persone uccise nell’attacco israeliano c’era anche un agente di sicurezza del Qatar.
L’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, ha denunciato l’attacco come un «crimine atroce» e un «atto di aggressione», mentre il ministero degli Esteri di Doha ha accusato Israele di «terrorismo di Stato».
Israele ha promesso di dare la caccia ai leader di Hamas, ritenuti responsabili del mortale attacco dell’ottobre 2023, lanciato da Gaza verso il sud di Israele. L’ambasciatore ha giurato che i responsabili «non sopravviveranno», ovunque si trovino.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Geopolitica
Attacco israeliano in Qatar. La condanna di Trump

#Qatar / #Palestine / #Israel 🇶🇦🇵🇸🇮🇱: Israeli Air Forces carried out air strikes to assassinate Senior officials of #HAMAS in the city of #Doha.
Reportedly HAMAS negotiation team was targeted with Air-To-Surface Missiles while discussing the ceasefire in the capital of Qatar. pic.twitter.com/WdWuqY6rXq — War Noir (@war_noir) September 9, 2025
🚨🇮🇱🇶🇦🇵🇸 BREAKING: ISRAEL just AIRSTRIKED Hamas’s negotiation team in DOHA, QATAR pic.twitter.com/cTdA5fT4gP
— Jackson Hinkle 🇺🇸 (@jacksonhinklle) September 9, 2025
BREAKING:
Israeli fighter jets struck Qatar’s capital, Doha. An Israeli airstrike in Doha killed Hamas leader in Gaza, Khalil al-Hayya, and three senior members of the group’s leadership, Al Arabiya reports, citing sources. Al Hadath states those in the targeted building… pic.twitter.com/03rwdUbvZ5 — Visegrád 24 (@visegrad24) September 9, 2025
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NEW: Qatar reserves the right to retaliate for the Israeli attack against Doha, Qatari PM says
“We’ve reached a decisive moment; There should be retaliation from the whole region” pic.twitter.com/dKHnqEHNqN — Ragıp Soylu (@ragipsoylu) September 9, 2025
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Nel suo post Trump ha affermato che il bombardamento israeliano all’interno di «una nazione sovrana e stretto alleato degli Stati Uniti» non ha «favorito gli obiettivi di Israele o dell’America». «Considero il Qatar un forte alleato e amico degli Stati Uniti e mi dispiace molto per il luogo dell’attacco», ha scritto, sottolineando che l’attacco è stato «una decisione presa dal primo ministro Netanyahu, non una decisione presa da me». Trump ha affermato che, non appena informato dell’operazione, ha incaricato l’inviato speciale statunitense Steve Witkoff di avvertire i funzionari del Qatar, ma ha osservato che l’allerta è arrivata «troppo tardi per fermare l’attacco». Il presidente ha affermato che eliminare Hamas era un «obiettivo degno», ma ha espresso la speranza che «questo sfortunato incidente possa servire come un’opportunità per la PACE». Da allora Trump ha parlato con Netanyahu, che gli ha detto di voler fare la pace, e con i leader del Qatar, che ha ringraziato per il loro sostegno e ha assicurato che «una cosa del genere non accadrà più sul loro territorio». La Casa Bianca ha definito l’attacco un incidente «sfortunato». Trump ha dichiarato di aver incaricato il Segretario di Stato Marco Rubio di finalizzare un accordo di cooperazione per la difesa con il Qatar, designato come «importante alleato non NATO».( @realDonaldTrump – Truth Social Post ) ( Donald J. Trump – Sep 09, 2025, 4:20 PM ET )
This morning, the Trump Administration was notified by the United States Military that Israel was attacking Hamas which, very unfortunately, was located in a section of Doha, the Capital of… pic.twitter.com/axQSlL46gW — Fan Donald J. Trump 🇺🇸 TRUTH POSTS (@TruthTrumpPosts) September 9, 2025
“The president views Qatar as a strong ally and friend of the United States and feels very badly about the location of this attack.”
White House press sec. Karoline Leavitt read a statement after Israel’s strike on Hamas leadership in Doha. https://t.co/X3EkiIHoZ7 pic.twitter.com/OdDyR4QcgF — ABC News (@ABC) September 9, 2025
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Geopolitica
Lavrov: la Russia non ha voglia di vendetta

La Russia non ha intenzione di vendicarsi dei paesi occidentali che hanno interrotto i rapporti e fatto pressioni su Mosca a causa del conflitto in Ucraina, ha affermato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.
Intervenendo lunedì all’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca, Lavrov ha sottolineato che la Russia non intende «vendicarsi o sfogare la propria rabbia» sulle aziende che hanno deciso di sostenere i governi occidentali nel loro tentativo di sostenere Kiev e imporre sanzioni economiche a Mosca, aggiungendo che l’ostilità è generalmente «una cattiva consigliera».
«Quando i nostri ex partner occidentali torneranno in sé… non li respingeremo. Ma… terremo conto che, essendo fuggiti su ordine dei loro leader politici, si sono dimostrati inaffidabili», ha affermato il ministro.
Secondo Lavrov, qualsiasi futuro accesso al mercato dipenderà anche dalla possibilità che le aziende rappresentino un rischio per i settori vitali per l’economia e la sicurezza della Russia.
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Il ministro ha sottolineato che la Russia è aperta alla cooperazione e non ha alcuna intenzione di isolarsi. «Viviamo su un piccolo pianeta. Costruire i muri di Berlino è stato in stile occidentale… Non vogliamo costruire alcun muro», ha affermato, riferendosi al simbolo della Guerra Fredda che ha diviso la capitale tedesca dal 1961 al 1989.
«Vogliamo lavorare onestamente e se i nostri partner sono pronti a fare lo stesso sulla base dell’uguaglianza e del rispetto reciproco, siamo aperti al dialogo con tutti», ha affermato, indicando il vertice in Alaska tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo statunitense, Donald Trump, come esempio di impegno costruttivo.
Il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov ha dichiarato sabato che le aziende occidentali sarebbero state benvenute se non avessero sostenuto l’esercito ucraino e avessero rispettato gli obblighi nei confronti dello Stato e del personale russo, tra cui il pagamento degli stipendi dovuti.
Questo mese Putin ha anche respinto l’isolazionismo, sottolineando che la Russia vorrebbe evitare di chiudersi in un «guscio nazionale», poiché ciò danneggerebbe la competitività. «Non abbiamo mai respinto o espulso nessuno. Chi vuole rientrare è il benvenuto», ha aggiunto.
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