Alimentazione
Zimbabwe e Namibia daranno da mangiare agli affamati la carne di elefante: diamo ai pachidermi asilo politico in Italia

I funzionari dello Zimbabwe hanno annunciato che centinaia di elefanti saranno uccisi per sfamare la popolazione del Paese, che soffre di una grave carestia. Le autorità della vicina Namibia hanno preso una decisione simile in risposta alle minacce di carestia poste dalle prolungate siccità nella regione dell’Africa meridionale.
Tinashe Farawo, portavoce della Zimbabwe Parks and Wildlife Authority (ZimParks), ha dichiarato martedì alla Reuters che circa 200 elefanti selvatici saranno massacrati in tutto il Paese e la loro carne distribuita alle comunità colpite dalla siccità.
«Stiamo lavorando sulle modalità su come faremo», ha detto il Farawo, aggiungendoche i mammiferi saranno cacciati in aree come i distretti di Hwange, Mbire, Tsholotsho e Chiredzi, dove il loro numero è cresciuto oltre i limiti sostenibili.
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Lo Zimbabwe e lo Zambia sono tra i paesi dell’Africa meridionale più colpiti dalla siccità provocata dal fenomeno El Niño, che ha causato la perdita di raccolti su vasta scala.
Ad aprile, lo Zimbabwe ha dichiarato lo stato di calamità nazionale in risposta alla crisi, descritta come la peggiore degli ultimi 40 anni. A maggio, Harare ha riferito che più della metà dei cittadini del paese avrebbe avuto bisogno di assistenza alimentare quest’anno. Il presidente Emmerson Mnangagwa, detto anche «il coccodrillo», ha annunciato all’epoca che il suo governo aveva bisogno di 2 miliardi di dollari in aiuti per sfamare milioni di persone che soffrono la fame.
A febbraio, la nazione senza sbocco sul mare ha ricevuto 25.000 tonnellate di grano umanitario dalla Russia, nell’ambito dell’impegno di Mosca di aiutare sei paesi africani colpiti da insicurezza alimentare.
ZimParks ha dichiarato a dicembre che più di 100 elefanti sono morti a causa del maltempo. Martedì, il suo portavoce Farawo, ha espresso preoccupazione per la possibilità che altri animali muoiano nelle prossime settimane a causa della sete e della fame.
Secondo l’African Wildlife Foundation, lo Zimbabwe ospita la seconda popolazione di elefanti della savana più grande al mondo, con circa 100.000 esemplari, preceduta solo dal Botswana, che ospita oltre 130.000 di questi mammiferi sul suo territorio.
La scorsa settimana, il ministro dell’Ambiente dello Zimbabwe Sithembiso Nyoni ha dichiarato all’assemblea nazionale di aver autorizzato il programma di abbattimento di massa perché il Paese ha «più elefanti di quanti la nostra silvicoltura possa ospitare».
Verso la fine del mese scorso, la vicina Namibia ha dichiarato che ucciderà 723 animali selvatici, tra cui 83 elefanti, 30 ippopotami, 60 bufali, 50 impala, 100 gnu, 100 eland e 300 zebre, e distribuirà la carne a migliaia di persone che lottano per procurarsi il cibo.
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Il fenomeno dell’assalto ai pachidermi nell’ex Rhodesia del Nord non è nuovo.
Racconti orali di lettori zambiani di Renovatio 21 (esistono, sì) riportano di una crisi alimentare zimbabwana nei primi anni 2000 che ingenerò con probabilità una vera e propria migrazione degli elefanti: si racconta diversi esemplari arrivarono nuotando attraverso il Lago Kariba, partendo dalla sponda dello Zimbabwe, in crisi economica totale con l’inflazione divenuta grottescamente miliardaria, per arrivare sulle rive dello Zambia, dove invece l’economia non è mai davvero collassata grazie alla non disprezzabile gestione post-coloniale di leader come Kenneth Kaunda (1924-2021), terzo segretario del Movimento dei Paesi non allineati (1970-1973).
Quindi, il fallimento economico di un Paese post-coloniale porta alla migrazione, prima che degli uomini, delle bestie che fuggono dal popolo affamato. È curioso, tuttavia, pensare che gli immigrati che sbarcano incessantemente in Italia, diversamente dagli elefanti, non vengono da Paesi con l’economia devastata né fuggono da orde di persone che li vogliono mangiare.
Ne consegue che gli elefanti hanno più diritto di asilo in Italia dei migranti afroislamici tanto cari a papa Francesco e agli esecutori del Piano Kalergi.
Quindi ecco la domanda: possiamo fare cambio? Possiamo importare elefanti invece che esseri umani problematici ma senza grossi problemi a casa?
Possiamo dire tutti sì all’immigrazione se pachidermica?
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Immagine di Byrdyak via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Alimentazione
Oltre 9 mila bambini intossicati coi pasti scolastici gratuiti in Indonesia

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Alimentazione
Un terzo dei Paesi è afflitto da prezzi alimentari «anormalmente alti»: rischio di disordini sociali

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) lancia l’allarme: i prezzi dei prodotti alimentari restano eccezionalmente elevati in tutto il mondo, e in molti Paesi sono aumentati fino a cinque volte rispetto ai livelli medi del decennio scorso. Un’escalation che, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite, rischia di alimentare nuovi disordini sociali, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo o politicamente instabili.
«Le condizioni attuali ricordano i periodi che hanno preceduto la Primavera Araba e la crisi alimentare del 2007-2008», si legge nel rapporto diffuso in questi giorni. E il messaggio è chiaro: le turbolenze globali, legate alla sicurezza alimentare, «sono tutt’altro che finite».
Un’analisi di BloombergNEF, basata sui dati FAO, evidenzia come il quadro sia il risultato di una combinazione di fattori: eventi meteorologici estremi, tensioni geopolitiche e politiche monetarie espansive. L’aumento dei prezzi di gasolio e benzina – spinti anche dai conflitti in corso e dalle restrizioni commerciali – ha fatto lievitare i costi di produzione e di trasporto dei beni agricoli.
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A questo si aggiunge il fattore monetario: l’eccessiva stampa di denaro da parte di molte economie avanzate ed emergenti durante e dopo la pandemia ha rappresentato, secondo gli analisti, il principale motore dell’inflazione globale.
Secondo la FAO, nel 2023 il 50% dei Paesi del Nord America e dell’Europa ha registrato prezzi alimentari «anormalmente elevati» rispetto alla media del periodo 2015-2019. L’organizzazione definisce «anormale» un livello di prezzo superiore di almeno una deviazione standard rispetto alla media storica per ciascuna merce e regione, spiega Bloomberg.
La tendenza, tuttavia, non riguarda solo l’Occidente: anche in Asia, Africa e America Latina l’impennata dei prezzi sta riducendo l’accesso ai beni di prima necessità, colpendo le fasce più vulnerabili della popolazione.
La FAO richiama nel suo rapporto due momenti emblematici della storia recente che mostrano il legame diretto tra caro-viveri e instabilità politica.
Un esempio è la cosiddetta «Primavera araba» (2010-2011): il forte aumento dei prezzi del grano e del pane, dovuto alla siccità e ai divieti di esportazione imposti dalla Russia, contribuì a scatenare proteste in Tunisia, Egitto, Libia e Siria. L’inflazione alimentare fu un fattore chiave, che si sommò al malcontento politico e sociale.
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Un ulteriore caso è quello della crisi alimentare del 2007-2008: in quel periodo, i picchi dei prezzi globali dei cereali provocarono rivolte in oltre 30 Paesi, tra cui Haiti, Bangladesh, Egitto e Mozambico, dove i beni di prima necessità divennero inaccessibili per ampie fasce della popolazione.
Gli analisti concordano sul fatto che quando «l’inflazione alimentare supera la crescita del reddito», si innesca una spirale pericolosa che può condurre a crisi sociali e politiche.
Con l’aumento dei costi dei beni di base e la perdita di potere d’acquisto, cresce la pressione sui governi, già provati da crisi energetiche, conflitti regionali e tensioni valutarie.
In breve, il mondo potrebbe trovarsi di fronte a «una nuova stagione di rivolte per il pane».
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Alimentazione
Carestia dichiarata a Gaza da un gruppo per la sicurezza alimentare legato alle Nazioni Unite

Famine declared by IPC in #Gaza Governorate is a direct result of actions by #Israel‘s Government that has unlawfully restricted entry & distribution of humanitarian aid.
It is a war crime to use starvation as a method of warfare, and the resulting deaths may also amount to a… pic.twitter.com/knqnRpe2yH — UN Human Rights (@UNHumanRights) August 22, 2025
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