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Persecuzioni

Sudan, un anno di guerra ha lasciato il Paese senza seminaristi

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Dal 15 aprile 2023, violenti combattimenti hanno contrapposto l’esercito sudanese comandato dall’attuale presidente di transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Rapid Support Forces (RSF), un gruppo paramilitare guidato dal vicepresidente, il generale Mohammed Hamdan Dagalo, conosciuto anche con lo pseudonimo di Hemedti.

 

Dopo la destituzione di Omar al-Bashir – insediato al potere con un colpo di stato nel 1989 – i due uomini hanno rovesciato il governo instaurato l’11 aprile 2019. Ma hanno litigato sull’integrazione delle forze di sicurezza nell’esercito regolare e nella distribuzione della ricchezza: il Sudan è il terzo produttore di oro in Africa e Hemedti possiede miniere d’oro nel Nord del paese.

 

Nell’aprile 2023 la situazione è cambiata: in un Paese già indebolito è scoppiata la «guerra dei generali». La popolazione è in agonia e la piccola comunità cristiana si sta riducendo al nulla. Senza che nessuno dei belligeranti si tiri indietro, il futuro appare cupo. I dati ufficiali mostrano più di 13.900 morti e 8,1 milioni di sfollati, di cui circa 1,8 milioni fuori dal Paese.

 

«Data l’intensità della guerra, molti residenti si chiedono come entrambe le parti possano avere così tante armi dopo un anno di combattimenti e, quindi, chi le finanzia», ​​afferma la coordinatrice del progetto Kinga Schierstaedt per l’organizzazione benefica cattolica internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre (ACN) nel Sudan.

 

La popolazione muore di fame a causa di un conflitto dimenticato. Quanto alla Chiesa locale, «prima della guerra rappresentava il 5% della popolazione, ma era tollerata e poteva gestire alcuni ospedali e scuole, anche se non era autorizzata a proclamare apertamente la fede», spiega Kinga Schierstaedt.

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La caduta di Omar al-Bashir ha portato alcuni miglioramenti in termini di libertà religiosa e sono state abolite le pene previste dal codice penale della sharia. È stato allora che ACS ha potuto finanziare e contribuire all’importazione di un computer per la diocesi di El Obeid, cosa che negli anni precedenti sarebbe stata impossibile, continua Kinga Schierstaedt. Ma questa nuova libertà fu di breve durata.

 

Pur essendo minoritaria, la Chiesa è sempre stata un «porto di pace» per la popolazione e molte persone si sono rifugiate nelle chiese all’inizio della guerra. Oggi, questo rifugio è esso stesso indebolito. Molti missionari e comunità religiose hanno dovuto lasciare il Paese, parrocchie, ospedali e scuole cessarono le loro attività.

 

Il seminario di Khartum ha dovuto chiudere i battenti. Fortunatamente alcuni seminaristi riusciti a fuggire hanno potuto continuare la loro formazione nella diocesi di Malakal, nel vicino Paese del Sud Sudan. Mons. Michael Didi, arcivescovo di Khartoum, si trovava a Port Sudan, sulla costa del Mar Rosso, quando è scoppiata la guerra e non ha potuto tornare nella sua città.

 

Mons. Tombe Trile, vescovo della diocesi di El Obeid, ha dovuto trasferirsi nella cattedrale perché la sua casa era parzialmente distrutta. Molti cristiani sono fuggiti a piedi o attraverso il Nilo e si sono stabiliti in campi profughi dove la sopravvivenza è una lotta quotidiana. Oggi l’esistenza stessa della Chiesa in Sudan è messa in discussione.

 

Tuttavia, ci sono alcune luci in mezzo all’oscurità. «Se è vero che la guerra continua, non può soffocare la vita. Sedici nuovi cristiani sono stati battezzati a Port Sudan durante la Veglia Pasquale e 34 adulti sono stati cresimati a Kosti!» confida un testimone.

 

La Chiesa rimane molto attiva anche in Sud Sudan, assistendo i rifugiati provenienti dal vicino nord e aiutando i seminaristi sudanesi a continuare la loro formazione, grazie, tra gli altri, al sostegno di ACS. «La Chiesa del Sud Sudan si sta preparando per il futuro aiutando i cristiani sudanesi a prepararsi per la pace di domani», conclude Kinga Schierstaedt.

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Immagine di Quodvultdeus via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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Cina

Cina, Bambini presi di mira da politiche antireligiose

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L’estate del 2025 ha visto una nuova escalation nella sinizzazione delle religioni in Cina. I bambini sono diventati i bersagli preferiti del regime comunista, che organizza attività di propaganda mirate a scoraggiarli dall’aderire a qualsiasi religione che si discosti dai principi decretati dal Partito Comunista sotto l’onnipotente Xi Jinping.   In una preoccupante dimostrazione di propaganda orchestrata dallo Stato, il governo cinese sta ancora una volta rivolgendo il suo apparato ideologico verso i membri più vulnerabili della società: i bambini.   A Shanghai, più precisamente nel distretto di Baoshan, sono state organizzate attività estive per trasformare i giovani in «piccoli guardiani» della comunità, come rivelato dal sito web di notizie Bitter Winter, che si impegna a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla persecuzione della religione, cristiana o di altro tipo, in Cina.   Scoraggiati dall’essere motivati ​​dalla curiosità o dalla compassione, questi bambini indottrinati sono armati di slogan e narrazioni volte a denigrare i cosiddetti gruppi religiosi «illegali», chiamati xie jiao, spesso tradotti come “sette malvagie”, ma che in realtà si riferiscono a organizzazioni religiose non riconosciute dallo Stato e non affiliate al Partito Comunista Cinese (PCC). A partire dall’inizio dell’estate del 2025, i bambini del distretto di Baoshab sono stati mobilitati per distribuire volantini contro gli xie jiao.   Sotto la maschera di concetti come «servizio alla comunità» o «alfabetizzazione scientifica», queste attività sono puro e semplice condizionamento ideologico. I bambini sono incoraggiati a recitare discorsi ostili agli xie jiao, distribuire opuscoli e mettere in scena sketch che demonizzano le minoranze religiose. L’obiettivo è chiaro: instillare fin dalla tenera età una lealtà incrollabile alla dottrina ufficiale di Xi Jinping e normalizzare la repressione di ogni espressione religiosa.   Ciò che colpisce è il tono celebrativo con cui viene presentata questa manipolazione. I contenuti digitali resi pubblici dall’Associazione Cinese Anti-Xie Jiao esaltano la «purezza» della forza dei bambini nel difendere la loro «patria armoniosa». Uno dei momenti più inquietanti della campagna di propaganda è stata l’organizzazione di un processo simulato in una reale aula di tribunale.

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Sotto la supervisione dei giudici, i bambini hanno assunto i ruoli di «giudici», «pubblici ministeri», «imputati» e «avvocati difensori», rievocando con agghiacciante realismo un caso penale in cui i membri degli xie jiao sono stati condannati a lunghe pene detentive.   Presentata come una lezione di alfabetizzazione giuridica, questa performance aveva uno scopo ben più sinistro: radicare nella mente dei bambini una visione di «moralità» definita dallo Stato e equiparare il comportamento «illegale» all’espressione religiosa.   Gli xie jiao sono da tempo uno strumento utilizzato dalla Cina per delegittimare e criminalizzare i gruppi religiosi che si discostano dalla dottrina ufficiale del PCC. Dal Falun Gong al culto di Dio Onnipotente, fino alle chiese cristiane clandestine, questa etichetta ha giustificato programmi di sorveglianza, detenzione e rieducazione. Coinvolgendo i bambini in questa crociata, lo Stato non solo perpetua la sua repressione, ma ne garantisce anche la longevità.   Per inciso, è comico vedere uno Stato totalitario comunista ufficialmente ateo conferire un attestato di merito alle buone religioni che accettano di sottomettersi ai suoi criteri. Da quando ha stretto la morsa sull’apparato statale cinese, Xi Jinping ha intrapreso una feroce campagna di «sinizzazione» delle religioni che, con il pretesto di acculturare ogni forma di religiosità allo spirito cinese, in realtà si sforza di rendere le religioni sempre più subordinate al PCC e alla sua dottrina.   È in questo contesto di tensione che si pone il dilemma dell’accordo provvisorio firmato nel 2018 tra la Santa Sede e la Cina: uno sforzo per porre fine allo scisma delle consacrazioni episcopali avvenute senza mandato papale per alcuni, e una capitolazione di fronte alle richieste comuniste per altri.   Una questione scottante che, come molte altre, è ora sulla scrivania di Papa Leone XIV.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Persecuzioni

Nuove leggi di repressione religiosa in India

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Dopo l’approvazione del disegno di legge anti-conversione in Rajasthan e del Maharashtra Public Security Bill si sono verificate alcune proteste in India. In Rajasthan la legge colpisce persino le conversioni volontarie e i matrimoni interreligiosi, mentre in Maharashtra l’esecutivo potrà dichiarare «illegali» intere organizzazioni senza prove concrete. Nel frattempo la Corte suprema ha chiesto chiarimenti agli Stati sulla costituzionalità di queste norme.

 

In India cresce la contestazione dopo l’approvazione di due leggi controverse: il disegno di legge anti-conversione in Rajasthan e il Maharashtra Public Security Bill, ribattezzato dai manifestanti «Public Oppression Bill». I disegni di legge hanno dato adito a contestazioni che evidenziano un comune allarme per la riduzione degli spazi democratici nel Paese.

 

In Rajasthan, la People’s Union For Civil Liberties (PUCL), un’organizzazione per la difesa dei diritti democratici, ha definito il disegno di legge anti-conversione, approvato il 9 settembre 2025 dall’Assemblea legislativa, una grave minaccia ai diritti fondamentali. Promossa dal governo locale guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP), la legge è stata approvata nonostante lo stesso ministero degli Affari Interni del Rajasthan abbia dichiarato che non ci sono stati casi di «love jihad» nel corso degli ultimi anni.

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Oltre al contenuto, la PUCL critica l’assenza di dibattito e la decisione del presidente dell’Assemblea di procedere al voto senza l’opposizione, uscita dall’aula in segno di protesta, sottolineando che ciò costituisce una grave violazione del processo democratico.

 

L’organizzazione ha definito il provvedimento «draconiano», sostenendo che minaccia diritti civili costituzionali come la libertà di coscienza, di parola, di dialogo interreligioso, di uguaglianza e di scelta individuale. Tra i punti più contestati figurano le definizioni vaghe di concetti come «coercizione» e «allettamento», che rischiano di criminalizzare persino una semplice conversazione tra persone di fedi diverse.

 

La legge rende inoltre illegali anche le conversioni volontarie tra adulti, colpendo chiunque «convinca» o «aiuti» in tale scelta, con possibili conseguenze sui matrimoni interreligiosi e persino su unioni omosessuali.

 

Il testo prevede eccezioni per la «riconversione» alla fede d’origine («ghar wapsi»), ma senza chiarire i limiti temporali o pratici, aprendo così la strada a interpretazioni arbitrarie e a possibili abusi contro minoranze religiose.

 

Le sanzioni, inoltre, sono particolarmente severe: da sette a quattordici anni di carcere e multe fino a 5 lakh di rupie (circa 5 mila euro), con pene più alte per donne, minori e comunità emarginate. A ciò si aggiunge un forte controllo amministrativo: ogni conversione richiederà l’approvazione del magistrato distrettuale e, in caso di accusa, sarà la persona coinvolta a dover dimostrare la propria innocenza, in contrasto con i principi costituzionali.

 

Se in Rajasthan la battaglia riguarda la libertà religiosa e la scelta individuale, in un altro stato dell’India, il Maharashtra, la protesta delle organizzazioni civili punta a difendere la libertà di parola e il diritto di manifestare. Nelle ultime settimane si sono mobilitate l’opposizione politica e la società civile contro l’approvazione del Maharashtra Special Public Security Bill, chiamato dai contestatori «Public Oppression Bill».

 

Migliaia di persone sono scese in piazza a Mumbai, Pune e in numerosi altri distretti, dando vita a una delle più ampie mobilitazioni degli ultimi anni nello Stato dell’India centro-occidentale. I manifestanti ritengono che la legge, anche in questo caso promossa dal BJP, mette a rischio la libertà di espressione, il diritto al dissenso e alla protesta trasformando l’amministrazione locale in uno «Stato di polizia», dove le libertà fondamentali sono subordinate a misure di sicurezza e controllo sociale.

 

Il provvedimento consente al governo statale di dichiarare un’organizzazione «illegale» senza fornire una definizione chiara delle attività proibite, lasciando spazio a interpretazioni arbitrarie. La legge punisce non solo l’appartenenza a tali gruppi, ma anche la semplice associazione o il sostegno, rendendo più facile l’avvio di procedimenti penali. Le nuove disposizioni preoccupano gli osservatori per il rischio di arresti senza mandato e di detenzione preventiva, strumenti che potrebbero essere impiegati per reprimere il dissenso e le proteste.

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Non si tratta della prima mobilitazione: già in aprile e poi in luglio gli oppositori erano scesi in piazza per contestare la normativa. Nei comizi, i relatori hanno ricordato che la norma viola gli articoli 14, 19 e 21 della Costituzione e conferisce poteri illimitati al governo. Lo slogan che ha unito le piazze è stato chiaro: «Not Public Security, but Public Oppression Bill!».

 

Negli ultimi giorni la Corte suprema ha richiesto ai governi di vari Stati di fornire spiegazioni sulle leggi anti-conversione, mettendo in discussione la loro validità costituzionale. Un collegio composto dal presidente della Corte Suprema dell’India, Bhushan R. Gavai, e dal Giudice K. Vinod Chandran, ha esaminato le petizioni riguardo le leggi sulla «libertà di religione» emanate da Uttar Pradesh, Madhya Pradesh, Himachal Pradesh, Uttarakhand, Chhattisgarh, Gujarat, Haryana, Jharkhand e Karnataka, concedendo agli Stati quattro settimane per rispondere alle richieste di chiarimento.

 

Si tratta si questioni aperte da anni, ma i ricorrenti sostengono che le comuni preoccupazioni costituzionali in questione giustificano un’udienza da parte della Corte suprema.

 

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Immagine di G20 Argentina via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

 

 

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Bioetica

Il vescovo Mutsaerts: Chesterton ha dimostrato perché l’aborto è la tirannia dei forti contro i deboli

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Renovatio 21 pubblica la traduzione di questo testo del vescovo Robertus Gerardus Leonia Maria Mutsaerts, ausiliare della diocesi di Hertogenbosch, Paesi Bassi, apparsa su LifeSiteNews.   Sono un ammiratore convinto di G.K. Chesterton (1874-1936) è stato uno scrittore e pensatore inglese noto per la sua strenua difesa della moralità tradizionale e dei valori cristiani. Sebbene ai tempi di Chesterton l’aborto non fosse né legale né diffuso come lo è oggi, egli affrontò chiaramente temi correlati nei suoi saggi e libri: il valore di ogni vita umana, la sacralità della famiglia e i pericoli di tendenze moderne come l’individualismo e il materialismo.   In questo saggio analizzo come Chesterton avrebbe risposto alle moderne leggi sull’aborto, che non offrono alcuna tutela legale al nascituro. Ciò è in netto contrasto con il principio giuridico romano del curator ventris , in base al quale veniva nominato un tutore per tutelare gli interessi del nascituro.   Chesterton partiva sempre dalla convinzione che ogni vita umana abbia valore e dignità intrinseci, in quanto creatura di Dio. Ai suoi tempi si oppose fermamente alle teorie eugenetiche e a qualsiasi filosofia che considerasse alcuni gruppi di persone meno umani. Osservò che tali idee potevano ottenere i loro «benefici» solo negando l’umanità a un’intera categoria di persone.   Laddove gli eugenetisti disumanizzavano gli «inferiori», l’aborto fa qualcosa di simile con un gruppo ancora più vulnerabile: «le persone più deboli e indifese: i nascituri». Chesterton sottolineava che il nascituro è un essere umano completo, e parlava dell’aborto inequivocabilmente come «il massacro dei nascituri». Un linguaggio così forte dimostra che considerava l’aborto un attacco diretto alla dignità umana e alla vita umana stessa.

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Poiché Chesterton era profondamente religioso, considerava la vita – anche nel grembo materno – sacra e voluta da Dio. Sottolineava che nessuna persona o istituzione ha il diritto di distruggere deliberatamente una vita umana innocente. Seguendo la tradizione, Chesterton credeva che il diritto alla vita provenga direttamente da Dio per ogni essere umano, incluso il bambino nel grembo materno, e che nessuna ragione terrena (medica, sociale o economica) possa giustificarne la distruzione.   La sua indignazione morale contro l’aborto scaturisce da questo principio. Rise di un corrispondente che sosteneva l’aborto per ridurre la povertà, affermando che quest’uomo «sperava» nell’«omicidio di massa di nascituri», mentre «si disperava» all’idea di un semplice aumento dei salari. Con pungente ironia, Chesterton scrisse di tali riformatori: «spera nel degrado femminile, spera nella distruzione umana». Ciò dimostra che Chesterton considerava l’aborto non solo un torto personale, ma una malattia sociale – un orrore consentito solo quando la società dimentica la verità fondamentale che ogni vita umana, per quanto piccola o fragile, ha un valore infinito.   Per Chesterton, il bambino non era solo un individuo dotato di dignità, ma anche una fonte di significato per i genitori e la società. Nutriva una profonda riverenza e quasi un timore reverenziale per la miracolosa vitalità di ogni bambino. Nel suo saggio A Defence of Baby Worship, descrive come ogni bambino, in un certo senso, ricrei il mondo: «con ogni nuovo bambino, l’intero universo viene nuovamente messo alla prova».   Il bambino porta con sé una freschezza e una meraviglia che nemmeno i più grandi filosofi possono eguagliare: «come se con ognuno di loro tutte le cose si rinnovassero di nuovo», scrisse, «e l’universo venisse nuovamente messo alla prova». Questa visione lirica sottolinea la convinzione di Chesterton che un nuovo bambino sia una meraviglia unica e irripetibile, una nuova riaffermazione della vita che scuote continuamente il mondo degli adulti.   Chesterton descrisse addirittura la nascita come «l’avventura suprema». In Eretici scrisse: «l’avventura suprema è nascere”. Paragonò l’ingresso in famiglia attraverso la nascita all’ingresso in una fiaba: «quando entriamo in famiglia, con l’atto di nascere, entriamo in una fiaba». Questo dimostra quanto profondamente considerasse l’arrivo di un bambino come qualcosa di quasi sacro, pieno di mistero e possibilità.   Considerava la famiglia il fondamento della società e una «società in miniatura» che crea e ama i propri nuovi cittadini. Un bambino, per Chesterton, dava significato alla genitorialità e collegava le generazioni: «il bambino è una spiegazione del padre e della madre, e il fatto che sia un bambino umano è la spiegazione degli antichi legami umani». Che oggi un bambino non ancora nato sia legalmente trattato come se non fosse un bambino o una persona è in contrasto con tutto ciò che Chesterton rappresentava.   Chesterton difese i bambini anche nelle sue critiche ai mali sociali. In Eugenetica e altri malanni schernì l’idea che alcuni bambini potessero essere «indesiderati». Troverebbe del tutto inaccettabile sacrificare il bambino stesso in nome della prosperità o della «qualità della vita». Le politiche moderne che scelgono di eliminare i bambini non ancora nati invece di risolvere i problemi sociali, le considererebbe una perversione della giustizia e della ragione.   Chesterton era critico nei confronti di molti aspetti della modernità, soprattutto quando si scontravano con verità eterne. Una volta descrisse la mentalità modernista come quella di qualcuno che prova così tanta pietà per gli animali, ad esempio, da essere disposto a sacrificare vite umane – una preoccupante inversione di valori. Già nel 1914 Chesterton predisse: «ovunque ci sia adorazione degli animali, ci sarà sacrificio umano». Con ciò intendeva dire che la tendenza sentimentale moderna a venerare ideali astratti – ad esempio, invocando i “diritti delle donne” ignorando i diritti del bambino – spesso coincide con l’indifferenza o la crudeltà verso le persone vulnerabili.   Nella cultura contemporanea ne vediamo echi: le persone possono indignarsi più per la crudeltà sugli animali o per le questioni ambientali che per l’aborto di massa dei bambini non ancora nati. Chesterton definirebbe tali priorità folli, segno che la modernità ha perso la sua bussola morale.   Un altro tratto distintivo dei tempi moderni che Chesterton criticò aspramente è l’individualismo estremo e il materialismo. Notò che, in nome della «libertà», le persone spesso si imprigionavano in piaceri superficiali. In nessun luogo questo è più chiaro che nel suo saggio Bambini e distributismo, dove derideva le coppie che evitavano di avere figli per avere più tempo e denaro per l’intrattenimento e il lusso. Scrisse che il suo disprezzo raggiunse il suo apice «quando sento il suggerimento comune che le persone non vogliono avere figli per essere libere di andare a teatro, o libere di non essere interrotte nella loro carrieraÐ.   Mise deliberatamente «libero» tra virgolette, perché non la considerava vera libertà. «Ciò che mi fa venire voglia di calpestare queste persone come fossero zerbini è che usano la parola “libero”. In ogni atto del genere si incatenano al sistema meccanico più servile che l’umanità abbia mai sopportato». Invece di abbracciare la libertà creativa e vivificante della genitorialità, si sottomettono a quella che Chesterton chiamava la costrizione del consumo e della tecnologia: carriere e mode imposte da poteri anonimi. Questa è falsa libertà: barattare la vocazione più profonda dell’umanità (trasmettere la vita) con piaceri fugaci.

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Chesterton contrapponeva questa falsa libertà alla vera libertà che un bambino porta con sé. «Un bambino è il segno e il sacramento della libertà personale», dichiarava. Sembra paradossale, poiché un bambino porta responsabilità e limiti ai genitori. Ma Chesterton la vedeva diversamente: un bambino è una nuova volontà, «un nuovo libero arbitrio aggiunto alle volontà del mondo», che i genitori liberamente generano e liberamente proteggono. È il loro contributo creativo alla creazione – un atto unico non prodotto da una «mente» o da un tecnocrate sociale, ma da loro stessi e da Dio. E questa nuova vita è “molto più bella, meravigliosa e sorprendente” di qualsiasi invenzione o macchina da intrattenimento che la civiltà moderna possa produrre.   Chesterton vedeva nel fatto che gli uomini moderni osino rifiutare questo dono meraviglioso un sintomo di cecità morale. «Quando le persone non percepiscono più quanto ciò sia straordinario, hanno perso ogni apprezzamento per le cose primarie; hanno perso ogni senso delle proporzioni», ammoniva. Con parole insolitamente dure, Chesterton affermò che queste persone «preferiscono la feccia della vita alle fonti della vita». In altre parole, scelgono i piaceri vuoti, ripetitivi e futili di una società consumistica stanca rispetto alla fresca vitalità che porta un nuovo figlio. Questo non è progresso, ma decadenza.   Chesterton si rese conto già ai suoi tempi che la cosiddetta idea «progressista» del controllo delle nascite era una china scivolosa: «il controllo delle nascite attraversa lo Stato moderno e guida la marcia del progresso dall’aborto all’infanticidio», scrisse in tono beffardo. Previde che una volta superato un limite (la prevenzione delle nascite), ne sarebbe presto seguito un altro (la distruzione della vita esistente) – una previsione che suona inquietantemente profetica negli odierni dibattiti sull’aborto e persino sull’infanticidio.   Chesterton considererebbe l’attuale cultura dell’aborto come una corruzione del vero progresso: non un trionfo della scelta, ma una capitolazione all’egoismo e alla disperazione mascherati da «libertà». La vera libertà è sempre al servizio della vita. È significativo che in Impressioni irlandesi abbia riassunto l’essenza della libertà: «L’unico oggetto della libertà è la vita». La libertà non ha senso se viene usata per distruggere la vita; il suo scopo è proprio quello di renderla possibile e proteggerla.   Chesterton credeva che le leggi umane traessero la loro giustizia da una superiore consapevolezza morale, dalle leggi morali del bene e del male che non sono soggette a cambiamento. Quando una società nega queste verità fondamentali, rischia non di evolversi, ma di degenerare. Una volta osservò che le civiltà crollano non appena dimenticano le cose più ovvie. Una di queste verità ovvie è che uccidere persone innocenti è sbagliato.   Nel caso dell’aborto, la modernità sembra aver dimenticato proprio questa verità evidente: ovvero che un bambino nel grembo materno merita la stessa protezione di un bambino nella culla. Chesterton avrebbe sottolineato che il diritto romano – per quanto pagana fosse quella civiltà – almeno riconosceva il principio del curator ventris, il «guardiano dell’utero», nominato per proteggere i diritti del nascituro. Esistevano già in epoche precedenti disposizioni giuridiche che mostravano «una preoccupazione pubblica per la vita del bambino nel grembo materno», e il diritto positivo «riservava diritti» a quel bambino, ad esempio i diritti di successione e l’integrità fisica. Quanto è ironico, avrebbe osservato Chesterton, che il mondo moderno – vantandosi della sua umanità e del suo progresso – conceda al nascituro meno riconoscimento legale di quanto ne concedesse un’antica civiltà pagana.   Secondo Chesterton, una legge che non protegge il membro più indifeso della società non è una legge giusta. Credeva che l’autorità dello Stato fosse limitata da una legge morale superiore. Pertanto, quando i potenti iniziano a decidere chi può vivere e chi no, questo non è progresso, ma tirannia: «L’eugenetica e l’aborto equivalgono alla tirannia di un’élite che decide chi deve vivere e chi deve morire». Quell’élite, aggiungeva, spesso si nasconde dietro argomentazioni scientifiche o economiche, ma in sostanza è una questione di potere bruto.   Nell’aborto, Chesterton vedeva una coalizione dei forti contro i deboli: l’individuo adulto (forse supportato da «esperti» medici o dalla legislazione) contro il bambino senza voce. Ciò contrasta con la convinzione di Chesterton che la civiltà si misuri proprio da come protegge i più deboli. Quanto più debole e indifeso è il soggetto giuridico, tanto maggiore è il dovere di tutti di proteggerlo.   Per Chesterton, la famiglia è la prima e più importante comunità giuridica, e il nascituro ne fa già parte. Il diritto dovrebbe essere al suo servizio, non agire da padrone decidendo se quel nuovo membro della famiglia possa vivere. Già ai suoi tempi, aveva assistito a tendenze in cui lo Stato, o la cosiddetta «scienza», si elevavano a idolo a spese dell’umanità.   «Nel mondo moderno è il contrario: non è la religione che perseguita la scienza, ma la scienza che tiranneggia attraverso il governo», scrisse Chesterton nel 1922. Si riferiva alla legislazione eugenetica allora emergente, ma la stessa logica si applica alle leggi sull’aborto. Un ragionamento freddo e materialista – che sia in nome della scienza, della salute o dei diritti delle donne – che dichiara un nascituro non una persona con diritti che lui considererebbe un terribile orrore burocratico. È il trionfo di quello che lui chiamava beffardamente «terrorismo da professori di terza categoria»: assurdità tecnocratiche che mina le intuizioni morali fondamentali.   Al livello più profondo, Chesterton affermerebbe che nessuna autorità umana può concedere il diritto di uccidere deliberatamente una persona innocente. La legislazione che consente l’aborto distorce il rapporto essenziale tra libertà e vita. Come notato in precedenza, egli affermava: «L’unico oggetto della libertà è la vita». Una libertà che non protegge, ma abbandona il nascituro – la vita più innocente che si possa immaginare – è agli occhi di Chesterton una libertà che ha perso il suo scopo e la sua moralità. Considererebbe la situazione odierna come una regressione mascherata da legge.   Laddove un tempo il diritto autentico cercava di riecheggiare la vox Dei (l’idea che ogni essere umano sia un dono di Dio), la moderna legge sull’aborto trasmette il messaggio che alcune vite non contano. Questo non è solo ingiusto, ma anche irragionevole. È la perdita definitiva del buon senso che ha caratterizzato molte di quelle che Chesterton chiamava le «eresie» dei suoi contemporanei modernisti.

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Considerato quanto sopra, è chiaro che Chesterton reagirebbe con forte disapprovazione e indignazione morale alle leggi sull’aborto che non offrono alcuna protezione ai nascituri. Sulla base del suo profondo rispetto per la dignità umana, del suo amore per il bambino e la famiglia e della sua avversione per l’egoismo moderno, bollava tali leggi come segni di decadenza della civiltà.   Ogni grande civiltà decade dimenticando le verità ovvie, e la verità che un bambino non ancora nato è un essere umano con dei diritti è proprio una verità così evidente. Cancellarla, sosteneva, è una pericolosa mistificazione. Chesterton invitava il mondo moderno a ritrovare la sua bussola morale. Invece di congratularsi con se stessa per il presunto progresso, la società dovrebbe guardarsi allo specchio: che tipo di progresso è, se persino i più indifesi non sono più al sicuro nel rifugio più naturale: il grembo materno?   Dagli scritti di Chesterton emerge il ritratto di un uomo che si batteva per i più piccoli, i più poveri e i più vulnerabili. Non vedeva il nascituro come un ammasso di cellule senza diritti, ma come «un nuovo libero arbitrio», una nuova avventura per l’umanità e una promessa che il mondo potesse andare avanti. Considerava la perdita del riconoscimento legale per quella giovane vita una profonda vergogna. Probabilmente avrebbe risposto con il suo caratteristico mix di logica e sarcasmo: se la società crede che il comfort e la scelta siano così assoluti che i bambini possono essere uccisi, allora perché non essere coerenti?   «Lasciate che tutti i bambini nascano. Poi anneghiamo quelli che non ci piacciono», scrisse con amarezza, per denunciare l’assurdità di un simile ragionamento. Naturalmente, questa ipotesi è orribile – ed è proprio questo il punto di Chesterton: solo un’obiezione mistica e morale ci impedisce di annegare i bambini nati, e la stessa obiezione si applica all’uccisione dei nascituri.   Infine, Chesterton ci ricordava il dovere di difendere la famiglia e la vita da tali aggressioni. «C’è un attacco alla famiglia; e l’unica cosa che si può fare contro un attacco è combatterlo». Egli vedeva la perdita della tutela legale per la vita non ancora nata come parte di quell’attacco alla famiglia e alla dignità umana. Il suo giudizio non lasciava dubbi: le moderne leggi sull’aborto sono malvagie, ingiuste e contrarie sia al buon senso che alla legge naturale. Solo tornando a quelle che lui chiamava le «cose ​​ovvie» – la verità evidente che ogni vita umana, dal concepimento in poi, è un dono di incommensurabile valore – la nostra società può ritrovare sia la sanità mentale che la giustizia.   Perché agli occhi di Chesterton, il bambino non ancora nato non è altro che l’opinione di Dio sul fatto che il mondo debba andare avanti. Spetta al nostro senso di giustizia e alle nostre leggi affermare e difendere tale opinione.   +Rob Mutsaerts Vescovo

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