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Politica

La Libia finalmente vicina alle elezioni?

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La Libia è ora «più vicina che mai» allo svolgimento delle elezioni presidenziali e parlamentari e si sta muovendo verso un periodo di stabilità, ha dichiarato ieri il presidente dell’Alto Consiglio di Stato con sede a Tripoli, Mohamed Takala. Lo riporta il sito governativo russo Sputnik.

 

All’inizio della giornata, l’ambasciatore russo in Libia Aydar Aganin aveva detto a Sputnik che Takala avrebbe guidato la delegazione del consiglio a Mosca lunedì. Si tratta della sua prima visita in Russia.

 

«La Libia è più vicina che mai allo svolgimento delle elezioni. Come potete vedere, la situazione è calma da circa due anni, e gli sviluppi che si stanno verificando ora sono processi politici. Questi processi stanno andando bene, e penso che andranno bene. ancora meglio in futuro. Ogni mese il Paese si avvicina a un periodo di stabilità», ha detto il Takala.

 

L’Alto Consiglio di Stato della Libia è stato formato nel 2015 secondo i termini dell’accordo politico libico. È un organo consultivo e svolge funzioni parlamentari nella parte occidentale del Paese. Nella Libia orientale, la Camera dei Rappresentanti, il cui presidente è Aguila Saleh Issa, svolge il ruolo di un Parlamento.

 

La Libia è attualmente governata da due governi rivali. La parte occidentale della Libia è controllata dal Governo di Accordo Nazionale (GAN, o nell’acronimo anglofono GNA) sostenuto dalle Nazioni Unite, con sede a Tripoli, mentre la parte orientale è sotto il Governo di Stabilità Nazionale (GSN), sostenuto dall’Esercito Nazionale Libico (LNA) basato a Tobruk e comandato dal noto generale Khalifa Haftar.

 

La parte meridionale del Paese rimane in subbuglio a causa dei disordini civili, della continua minaccia del terrorismo e della violenza tribale armata, che può degenerare in casi di pericolo internazionale come quello delle 2,5 tonnellate di uranio «rubate» e poi misteriosamente riapparse al confine con il Ciad.

 

La violenza tra fazioni intanto continua a infiammare anche Tripoli, con una strage da diecine di morti consumatasi improvvisamente nella capitale tre mesi fa.

 

Come riportato da Renovatio 21, tre mesi fa una delegazione russa guidata dal viceministro della Difesa, colonnello generale Yunus-Bek Yevkurov, aveva visitato la Libia su invito del generale Haftar.

 

A livello di politica elettorale, il figlio di Gheddafi, Saif, pareva fino a qualche tempo fa essere sufficientemente popolare da prendere le redini del Paese, ma le sue corse per la presidenza libica sono ostacolate da sentenze di tribunale ed altro ancora.

 

La città di Derna è stata colpita a settembre da una potente alluvione, che ha distrutto parte della città. La Cina ha già iniziato l’opera di ricostruzione.

 

L’Italia pare sempre più lontana da quella che un tempo chiamava la «quarta sponda».

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Politica

Elezioni in Bolivia, il Paese si sposta a destra

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Domenica si è svolto in Bolivia il ballottaggio per le elezioni presidenziali, che ha visto contrapporsi due candidati di destra: il senatore centrista Rodrigo Paz Pereira e l’ex presidente conservatore Jorge Quiroga.   I risultati preliminari indicano che Paz ha ottenuto il 54,6% dei voti, mentre Quiroga si è fermato al 45,4%. Sebbene sia prevista un’analisi manuale delle schede, è improbabile che il risultato definitivo differisca significativamente dal conteggio iniziale, basato sul 97% delle schede scrutinate.   Le elezioni segnano la fine del ventennale dominio del partito di sinistra Movimiento al Socialismo (MAS), che ha subito una pesante sconfitta nelle elezioni di fine agosto. Il presidente uscente Luis Arce – che ha recentemente accusato gli USA di controllare l’America latina sotto la maschera della «guerra alla droga» – non si è ricandidato, e il candidato del MAS, il ministro degli Interni Eduardo del Castillo, ha raccolto solo il 3,16% dei voti, superando di poco la soglia necessaria per mantenere lo status legale del partito.

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Nel primo turno, la destra ha dominato: Paz ha ottenuto il 32,1% dei voti e Quiroga il 26,8%. Il magnate di centro-destra Samuel Doria Medina, a lungo favorito nei sondaggi, si è classificato terzo con il 19,9% e ha subito appoggiato Paz per il ballottaggio.   Entrambi i candidati hanno basato la loro campagna sullo smantellamento dell’eredità del MAS, differendo però nei metodi. Paz ha promesso riforme graduali, mentre Quiroga ha sostenuto cambiamenti rapidi, proponendo severe misure di austerità per affrontare la crisi.   Il MAS non si è mai ripreso dai disordini del 2019, quando l’ex presidente Evo Morales fu deposto da un colpo di Stato subito dopo aver ottenuto un controverso quarto mandato. In precedenza, Morales aveva perso di misura un referendum per modificare la norma costituzionale che limita a due i mandati presidenziali e vicepresidenziali. Più di recente, Morales ha accusato tentativi di assassinarlo ed è entrato in sciopero della fame, mentre i suoi sostenitori hanno dato vita ad una ribellione. Il Morales, recentemente accusato anche di stupro (accuse che lui definisce «politiche»), in una lunga intervista aveva detto che dietro il suo rovesciamento nel 2019 vi erano «la politica dell’impero, la cultura della morte» degli angloamericani.   Il colpo di Stato portò al potere la politica di destra Jeanine Áñez, seconda vicepresidente del Senato. Tuttavia, il MAS riconquistò terreno nelle elezioni anticipate dell’ottobre 2020, mentre Áñez fu incarcerata per i crimini commessi durante la repressione delle proteste seguite al golpe.

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Il passaggio storico è stato definito da alcuni come la prima «guerra del litio», essendo il Paese ricco, come gli altri Stati limitrofi, della sostanza che rende possibile la tecnologia di computer, telefonini ed auto elettriche.   Come riportato da Renovatio 21, un tentato colpo di Stato vi fu anche l’anno scorso quando la polizia militare e veicoli blindati hanno circondato il palazzo del governo nella capitale La Paz.   Sotto il presidente Arce la Bolivia si era avvicinata ai BRICS e aveva iniziato a commerciare in yuan allontanandosi dal dollaro.

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Immagine screenshot da YouTube
 
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Politica

Sarkozy sarà messo in cella di isolamento

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L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, riconosciuto colpevole di associazione a delinquere per ottenere fondi illeciti per la sua campagna elettorale del 2007, sconterà la pena in isolamento, secondo quanto riportato dall’AFP.

 

Il 25 settembre, un tribunale parigino ha condannato Sarkozy, 70 anni, a cinque anni di carcere per un complotto del 2005 volto a ottenere finanziamenti segreti dal leader libico Muammar Gheddafi. Il tribunale ha stabilito che, in cambio dei fondi, Sarkozy si sarebbe impegnato a migliorare la reputazione internazionale della Libia. Il giudice, sottolineando la «gravità eccezionale» del crimine, ha disposto l’incarcerazione immediata, anche in caso di appello.

 

Presidente della Francia dal 2007 al 2012, Sarkozy è il primo ex capo di Stato di un Paese membro dell’UE a essere incarcerato. La sua detenzione inizierà martedì.

 

Domenica, l’AFP ha riferito fonti del carcere parigino di La Santé, secondo cui Sarkozy sarà probabilmente confinato in una cella di nove metri quadrati nell’ala di isolamento, per limitare i contatti con altri detenuti.

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Sarkozy ha definito il verdetto un’«ingiustizia», ribadendo la propria innocenza. I suoi legali hanno presentato ricorso e intendono richiedere la conversione della pena in arresti domiciliari una volta iniziata la detenzione.

 

L’inchiesta è partita nel 2013, dopo le dichiarazioni del 2011 di Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, secondo cui il padre avrebbe versato circa 50 milioni di euro (54,3 milioni di dollari) per la campagna di Sarkozy.

 

Sarkozy ha avuto un ruolo chiave nell’intervento NATO che ha portato alla caduta e all’uccisione di Gheddafi nell’ottobre 2011 da parte di gruppi armati antigovernativi.

 

In precedenza, l’ex presidente era stato condannato in due casi separati per corruzione, traffico di influenze e finanziamento illecito di campagne elettorali, scontando in entrambi i casi gli arresti domiciliari.

 

Sarkozy è stato privato pure della Legion d’Onore, la più alta onorificenza statale di Francia. Nelle accuse era finita, ad un certo punto, anche la moglie Carla Bruni.

 

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Immagine di UMP via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0

 

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Politica

Netanyahu intende candidarsi per un altro mandato

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Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano con il mandato più lungo, ha annunciato che si candiderà nuovamente alle elezioni parlamentari di novembre 2026. Durante il suo recente incarico, ha affrontato critiche e apprezzamenti per la controversa riforma giudiziaria, la gestione della crisi degli ostaggi di Hamas e la guerra a Gaza.   In un’intervista rilasciata sabato a Channel 14, Netanyahu ha confermato la sua intenzione di correre per un nuovo mandato, dichiarandosi fiducioso nella vittoria. Leader del partito di destra Likud, ha guidato il governo dal 1996 al 1999 e dal 2009 al 2021, tornando al potere nel dicembre 2022 dopo il collasso della coalizione di governo.   Netanyahu ha rivendicato di essere «l’unico in grado di garantire la sicurezza di Israele», sottolineando i suoi legami con il presidente USA Donald Trump. Ha adottato una linea dura contro Hamas e ha condotto una guerra aerea di 12 giorni contro l’Iran a giugno.

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Attualmente sotto processo per tre accuse di corruzione, dalle quali si difende negando ogni addebito, Netanyahu ha anche promosso una riforma per limitare i poteri della Corte Suprema, suscitando proteste di massa.   Come noto, le proteste contro Netanyahu, che si sospettava fossero organizzate con spinte dei servizi e pure dell’amministrazione Biden erano arrivate persino a circondare casa sua, sono immediatamente cessate dopo il 7 ottobre. Tuttavia, altre proteste si sono susseguite a partire dai famigliari degli ostaggi, la gestione dei quali da parte del governo USA è stata duramente criticata.   Come riportato da Renovatio 21, ad un evento di piazza per il rilascio degli ostaggi la folla ha fischiato il nome di Netanyahu inneggiando poi a Donald Trump.   Un recente sondaggio di Channel 12 indica che, se le elezioni si tenessero oggi, il Likud conquisterebbe 72 seggi, confermandosi il partito più forte nella Knesset. La sua popolarità è cresciuta dopo il cessate il fuoco con Hamas, mediato a livello internazionale, e il rilascio degli ostaggi.  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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