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Geopolitica

Kaliningrad irredenta e i kantiani dell’Azov. Come sta di testa la Polonia?

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Molto si scrive, in Occidente, del presunto comportamento erratico di Putin, vittima di chissà quali patologie, dal Long COVID alla «Rabbia di Roid», malattia che esiste solo nei traduttori Google dei giornalisti italiani.

 

Qualcosa si è scritto, per esempio su Renovatio 21, sullo stato mentale di Biden, che pare proprio non sia dei migliori. Tucker Carlson, il giornalista più seguito in USA, l’altro ieri ha cominciato a chiedere di far scattare il 25° emendamento, quello della rimozione del presidente medicalmente non più in grado di fare funzione.

 

Della psiche di Zelensky qualcosa abbiamo scritto sempre noi.

 

Tuttavia, di come devono stare di testa i Paesi limitrofi, si è scritto poco.

 

Il comportamento dei polacchi è stato di certo strambo: armiamo gli ucraini, anzi no, anzi sì, diamogli i MiG che gli americani in cambio ci regalano dei caccia occidentali, anzi no, aspetta, prima dovremmo chiederlo a loro, etc.

 

Jaroslaw Kaczynski, l’ex premier polacco, ha fatto parte della delegazione dei primi ministri (quello sloveno, quello ceco) che è andata in treno a Kiev, a ottenere cosa non si è capito.

 

Alcuni speculano che Kaczynski, dominus della destra polacca al potere, abbia una questione personale da risolvere: suo fratello gemello Lech, con cui da bambino recitava in film fantasy e con cui più tardi avrebbe istituito quella che l’opposizione chiamava «la dittatura omozigotica dei Kaczynski», morì in uno spaventoso incidente aereo nel 2010; i vertici della politica polacca andavano alla cerimonia per il 70º anniversario del massacro di Katyn, una strage perpetrata dai sovietici ai danni dei polacchi nell’ultimo conflitto mondiale.

 

L’aereo precipitò nei dipressi di Smolensk, in territorio russo.

 

Secondo certuni, Jaroslaw potrebbe ancora serbare rancore per la morte del gemello Lech.

 

Nelle ultime ore è diventato chiaro che le ambizioni polacche sembrano andare oltre la semplice sicurezza. E che il comportamento erratico prosegue in maniera pericolosa.

 

Lo scorso 25 marzo un generale polacco in pensione, il Waldemar Skrzypczak, è andato in TV per chiedere alla Polonia di rivendicare l’exclave russa di Kaliningrad come territorio polacco.

 

«Potrebbe valere la pena chiederlo, come una volta con i Territori riconquistati», ha detto Skrzypczak, riferendosi ai territori della Germania orientale e baltica incorporati in Polonia dopo la sconfitta della Germania nazista.

 

«Potrebbe valere la pena chiedere questa regione di Kaliningrad, che, secondo me, fa parte del territorio della Polonia».

 

RT osserva che Kaliningrad faceva effettivamente parte della Prussia orientale, divisa tra Polonia e Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale, con Mosca che ne ottenne un terzo.

 

L’audace affermazione espressa dall’ex comandante delle forze di terra Skrzypczak è stata smentita dai funzionari russi, con il governatore di Kaliningrad Anton Alikhanov che ha affermato che il generale polacco stava apparentemente cercando un ritorno al XVII secolo.

 

All’epoca, il Ducato di Prussia era un vassallo della corona di Polonia, ma non faceva mai parte della Polonia.

 

«Semplicemente non capisco come la Prussia si sia trasformata in Polonia nella mente del generale», ha detto Alikhanov al quotidiano Komsomolskaya Pravda.

 

«Questo, ovviamente, è fantasia. La Prussia orientale è, a rigor di termini, la Germania. Noi questo lo ricordiamo, apparentemente a differenza del generale».

 

Data la storia della Polonia moderna e delle sue terre, Varsavia non dovrebbe cercare di cambiare i confini e dare voce alle rivendicazioni territoriali, ha avvertito Alikhanov.

 

L’appello del generale Skrzypczak riflette il più ampio potenziale di instabilità nella regione, in assenza di un’architettura completa di sicurezza e sviluppo, scrive EIR.

 

Il vice segretario del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev, ex presidente del paese, ha dichiarato a RT in una lunga intervista che la Polonia sta cercando di dimostrare la sua lealtà all’ordine guidato dagli americani.

 

«La Polonia ha cercato di riconquistare centinaia di anni anziché decenni dei suoi tentativi falliti di ripristinare l’antica gloria della Rzeczpospolita» cioè della Repubblica dei nobili del 1500, ha affermato.

 

«E se non può farlo, almeno per ricordare al mondo il fatto che la Polonia era una potenza molto seria sia in Europa che a livello globale, quasi un impero in divenire. Oggi, l’élite del Paese è rappresentata dal partito Legge e Giustizia con il signor Kaczynski al timone, e negli ultimi dieci anni hanno intrapreso un percorso filo-americano e aggressivamente anti-russo» ha ricordato Medvedev.

 

Tuttavia, c’è un’altra spiegazione possibile.

 

L’enclave russa di Kaliningrad è altresì nota per essere stata, come ricordano i russi, essenzialmente una città tedesca, che aveva nome Koenigsberg.

 

Come può intuire il lettore che ha fatto filosofia al liceo, si tratta proprio della città natale di Emanuele Kant, il filosofo protoilluminista, che ci stette tutta la vita conducendo una vita di precisione anale, al punto che i bottegai regolavano l’orologio quando lo vedevano passare per la passeggiata quotidiana.

 

Ebbene, come emerso dai giornalisti italiani, il battaglione Azov non è neonazista, non ha eretto a Mariupol’ un tempio al dio pagano protoslavo Perun (solo Renovatio 21 ne ha parlato, capiamo), non ama svastiche e mistica del III Reich, mostrine runiche etc., non ha pendenti accuse internazionali di torture e violenze di ogni sorta: no, essenzialmente, si tratta di lettori di Kant.

 

Lo ha scritto a chiare lettere il giornale della famiglia Agnelli Repubblica: «Reggimento Azov, il comandante Kuharchuck: “Non sono nazista, ai soldati leggo Kant”».

 

Tutto questo è bellissimo: è molto facile, quindi, che la Polonia voglia conquistare Kaliningrad per farne dono al battaglione Azov, che è formato da studenti appassionati dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica.

 

Mica sarebbe la cosa più pazza che sta facendo la Polonia. Anzi. Sarebbe più saggio che applaudire Biden in demenza senile che cita Wojtyla chiedendo un colpo di Stato a Mosca.

 

 

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Geopolitica

La Von der Leyen lancia un ultimatum alla Serbia

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La Serbia non potrà entrare nell’UE senza un pieno allineamento alla politica estera del blocco, incluse tutte le sanzioni contro la Russia, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

 

La Serbia, che ha richiesto l’adesione all’UE nel 2009 e ha ottenuto lo status di paese candidato nel 2012, è tra i pochi stati europei a non aver imposto restrizioni a Mosca. Belgrado ha sottolineato i suoi storici legami con la Russia e la dipendenza dalle sue forniture energetiche.

 

Mercoledì, durante una conferenza stampa a Belgrado accanto al presidente serbo Aleksandar Vucic, von der Leyen ha ribadito che la Serbia deve compiere «passi concreti» verso l’adesione e mostrare un «maggiore allineamento» con le posizioni dell’UE, incluse le sanzioni, evidenziando che l’attuale livello di conformità della Serbia alla politica estera dell’UE è del 61%, ma ha insistito che «serve fare di più», sottolineando il desiderio di Bruxelles di vedere Belgrado come un «partner affidabile».

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Vucic ha più volte dichiarato che la Serbia non imporrà sanzioni alla Russia, definendo la sua posizione «indipendente e sovrana». Tuttavia, il rifiuto di Belgrado ha attirato crescenti pressioni da parte di Bruxelles e Washington.

 

La settimana scorsa, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Petroleum Industry of Serbia (NIS), parzialmente controllata dalla russa Gazprom Neft, spingendo la Croazia a interrompere le forniture di greggio. Vucic ha avvertito che tali misure potrebbero portare alla chiusura dell’unica raffineria petrolifera serba entro novembre, mettendo a rischio l’approvvigionamento di benzina e carburante per aerei.

 

Come riportato da Renovatio 21proteste sempre più violente si susseguono nel Paese, che Belgrado attribuisce a influenze occidentali volte a destabilizzare il governo.

 

Le proteste hanno già portato alle dimissioni del primo ministro Milos Vucevic e all’arresto di diversi funzionari, tra cui un ex ministro del Commercio, con l’accusa di corruzione.

 

Il presidente Aleksandar Vucic ha affermato che i disordini sono stati fomentati dall’estero e ha denunciato quella che ha definito «violenza mascherata da attivismo»: «mancano pochi giorni prima che inizino a uccidere per le strade» aveva detto lo scorso agosto davanti all’ennesima ondata di proteste violente.

 

Come riportato da Renovatio 21, le grandi manifestazioni contro Vucic di marzo erano seguite la visita pubblica del figlio del presidente USA Don Trump jr. al premier di Belgrado.

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Come riportato da Renovatio 21, lo scorso mese il servizio di Intelligence estero russo (SVR) ha sostenuto che l’UE starebbe cercando di orchestrare un «Maidan serbo» per insediare un governo filo-Bruxelles. Belgrado nel dicembre 2023 produsse evidenti segni di «maidanizzazione» in corso. Già allora presidente serbo accusò le potenze occidentali di tentare di «ricattare» la Serbia affinché sostenga le sanzioni e di tentare di orchestrare una «rivoluzione colorata» – una sorta di Maidan belgradese –contro il suo governo a dicembre.

 

Vucic giorni fa ha accusato le potenze occidentali di aver cercato di orchestrare il suo rovesciamento. In un’intervista su Pink TV trasmessa lunedì, il presidente serbo aveva affermato che le «potenze straniere» hanno speso circa 3 miliardi di euro nell’ultimo decennio nel tentativo di estrometterlo dal potere.

 

Come riportato da Renovatio 21, il ministro degli Esteri Pietro Szijjarto ha dichiarato che l’Unione Europea sta tentando di rovesciare i governi di Ungheria, Slovacchia e Serbia perché danno priorità agli interessi nazionali rispetto all’allineamento con Bruxelles.

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Immagine di © European Union, 2025 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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Pakistan e Afghanistan concordano il cessate il fuoco

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Afghanistan e Pakistan hanno dichiarato un cessate il fuoco temporaneo, mettendo fine agli scontri iniziati mercoledì mattina tra le loro forze. Più di una dozzina di civili sono stati uccisi nell’ultimo conflitto armato tra i due paesi vicini.   Il ministero degli Esteri pakistano ha comunicato, alcune ore dopo lo scontro, che Kabul e Islamabad hanno concordato una tregua di 48 ore, con inizio alle 18:00 ora locale di mercoledì.   Nella sua nota, il ministero ha sottolineato che entrambe le parti «si impegneranno sinceramente attraverso il dialogo per trovare una soluzione positiva ai loro problemi complessi ma risolvibili».   In precedenza, il portavoce dei talebani afghani Zabihullah Mujahid aveva scritto su X che le forze pakistane avevano avviato un attacco, utilizzando «armi leggere e pesanti», causando la morte di 12 civili e il ferimento di oltre 100 persone.

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Il portavoce aggiunto che le forze afghane hanno risposto al fuoco, uccidendo un «gran numero» di soldati, confiscando armi e carri armati pakistani e distruggendo installazioni militari.   Ali Mohammad Haqmal, portavoce del distretto di Spin Boldak, in Afghanistan, luogo dello scontro, ha stimato che le vittime civili siano state 15. Secondo l’AFP, un funzionario dell’ospedale locale ha riferito che tra i feriti ci sarebbero 80 donne e bambini.   Islamabad ha definito le accuse «oltraggiose» e «palesi menzogne», sostenendo che i talebani afghani abbiano iniziato le ostilità attaccando una postazione militare pakistana e altre aree vicino al confine. L’esercito pakistano ha dichiarato di aver respinto l’assalto, uccidendo 37 combattenti talebani in due operazioni distinte.   Secondo l’agenzia Reuters, che cita fonti di sicurezza anonime, lo scontro sarebbe durato circa cinque ore.   Il conflitto segue un’escalation di scontri avvenuta nel fine settimana, durante la quale Afghanistan e Pakistan si sono accusati a vicenda per le vittime. I talebani hanno affermato di aver ucciso 58 soldati pakistani, mentre Islamabad ha dichiarato di aver conquistato 19 posti di frontiera afghani.   Le tensioni transfrontaliere tra Afghanistan e Pakistan sono aumentate negli ultimi anni, con entrambe le parti che si accusano ripetutamente di ospitare militanti.  

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Israele accusa Hamas di aver restituito il corpo sbagliato

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Uno dei corpi restituiti martedì da Hamas non appartiene a nessuno degli ostaggi tenuti prigionieri dal gruppo armato palestinese a Gaza, hanno affermato le Forze di difesa israeliane (IDF).

 

Lunedì Hamas ha liberato gli ultimi 20 ostaggi israeliani ancora in vita in cambio del rilascio di quasi 2.000 prigionieri palestinesi, nell’ambito di un accordo mediato da Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia. Martedì, il gruppo ha iniziato a consegnare i cadaveri dei prigionieri deceduti a Israele, restituendone sette in due lotti tramite la Croce Rossa.

 

Tuttavia, le IDF hanno dichiarato mercoledì in una dichiarazione su X che un esame presso l’istituto forense Abu Kabir ha rivelato che uno dei quattro corpi del secondo lotto «non appartiene a nessuno degli ostaggi». Si ritiene che i resti appartengano a un palestinese, hanno aggiunto.

 

 

Gli altri tre corpi sono stati confermati come appartenenti ai prigionieri. Sono stati identificati come il sergente maggiore Tamir Nimrodi, 18 anni, Uriel Baruch, 35 anni, ed Eitan Levy, 53 anni, si legge nel comunicato.

 

Il capo di stato maggiore delle IDF, tenente generale Eyal Zamir, ha dichiarato in precedenza che Israele «non avrà pace finché non restituiremo tutti [gli ostaggi]. Questo è il nostro dovere morale, nazionale ed ebraico». Hamas detiene ancora i corpi di 21 prigionieri deceduti.

 

Questa settimana, rifugiati palestinesi e combattenti di Hamas sono tornati a Gaza City e in altre aree dell’enclave, dopo il ritiro parziale delle forze dell’IDF, in linea con l’accordo. A Gaza sono stati segnalati scontri sporadici tra Hamas e fazioni rivali.

 

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