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Geopolitica

Il Venezuela chiede aiuti militari a Russia, Cina e Iran

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Il Venezuela ha sollecitato l’aiuto di Russia, Cina e Iran per potenziare le proprie difese militari nell’ambito dell’attuale tensione con gli Stati Uniti, ha riferito venerdì il Washington Post citando documenti governativi USA.

 

Stando al giornale, il presidente Nicolas Maduro ha indirizzato una lettera al leader cinese Xi Jinping per ottenere radar di rilevamento, invocando esplicitamente l’«escalation» con Washington. Caracas avrebbe inoltre chiesto all’Iran sistemi anti-radar e droni con autonomia fino a 1.000 km.

 

I documenti indicano che il ministro dei Trasporti venezuelano Ramón Celestino Velázquez avrebbe dovuto recapitare a Vladimir Putin, durante la sua visita a Mosca il mese scorso, una missiva con la richiesta di missili non meglio specificati e supporto per la manutenzione dei caccia Su-30MK2 e dei radar già acquisiti. Non è noto quale risposta abbiano dato Russia, Cina o Iran.

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Donald Trump ha accusato Maduro di capeggiare «cartelli macroterroristici» dediti al traffico di droga verso gli USA, offrendo una taglia per la sua cattura. Washington ha dispiegato una flotta nei Caraibi occidentali e, da settembre, ha colpito in acque internazionali oltre una dozzina di imbarcazioni sospette. Maduro ha respinto le imputazioni, parlando di «guerra inventata» da Trump.

 

Lunedì Mosca ha ratificato il trattato di partenariato strategico con Caracas, siglato a maggio. La portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha dichiarato che la Russia «sostiene la sovranità nazionale del Venezuela» e lo assisterà nel «superare qualsiasi minaccia, da qualunque parte provenga».

 

Un articolo del New York Times riportava che Trump avesse ordinato l’interruzione dei colloqui con il Venezuela, «frustrato» dal rifiuto di Maduro di cedere volontariamente il potere. Il giornale suggeriva anche che gli Stati Uniti stessero pianificando una possibile escalation militare.

 

Nel frattempo, Maduro ha avvertito che il Venezuela entrerebbe in uno stato di «lotta armata» in caso di attacco, aumentando la prontezza militare in tutto il Paese.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso, gli Stati Uniti hanno inviato almeno otto navi della Marina, un sottomarino d’attacco e circa 4.000 soldati vicino alla costa venezuelana, dichiarando che la missione mirava a contrastare i cartelli della droga. Washington ha sostenuto che l’armata ha affondato tre imbarcazioni venezuelane, senza però fornire prove che le persone a bordo fossero criminali.

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La Casa Bianca accusa da tempo Maduro di guidare una rete di narcotrafficanti nota come «Cartel de los Soles», sebbene non vi siano prove schiaccianti o prove concrete che lo dimostrino, tuttavia lo scorso anno gli USA sono arrivati a sequestrare un aereo presumibilmente utilizzato dal presidente di Caracas. È stato anche accusato di aver trasformato l’immigrazione in un’arma, sebbene Maduro si sia mostrato pronto a dialogare con le delegazioni diplomatiche americane sulla questione.

 

Come riportato da Renovatio 21, a inizio anno Maduro aveva dichiarato che Washington ha aperto il suo libretto degli assegni a una schiera di truffatori e bugiardi per destabilizzare il Venezuela, quando gli Stati Uniti si sono rifiutati di riconoscere le elezioni del 2024 in Venezuela.

 

Secondo Maduro, almeno 125 militanti provenienti da 25 Paesi sono stati arrestati dalle autorità venezuelane. Aveva poi accusato Elone Musk di aver speso un miliardo di dollari per un golpe in Venezuela. Negli stessi mesi si parlò di un piano di assassinio CIA di Maduro sventato.

 

Nelle scorse settimane perfino l’account YouTube di Maduro è stato rimosso da YouTube.

 

Secondo notizie emerse negli ultimi giorni Trump punterebbe ad attaccare le «strutture della cocaina» in Venezuela.

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 

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Geopolitica

Tulsi Gabbard: a strategia statunitense del «cambio di regime» è finita

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Il capo dell’Intelligence statunitense Tulsi Gabbard ha riconosciuto la storia di cambi di regime di Washington, ma ha affermato che questa è terminata sotto la presidenza di Donald Trump, nonostante le sue recenti dichiarazioni sull’Iran e le accuse sul Venezuela.   Gli Stati Uniti sono da tempo criticati per aver perseguito politiche volte a rovesciare i governi con il pretesto di promuovere la democrazia o proteggere gli interessi nazionali, dall’Iraq del 2003 e dalla Libia del 2011 al sostegno a «rivoluzioni colorate» come il colpo di Stato di Maidan in Ucraina del 2014. Intervenendo al 21° Dialogo di Manama in Bahrein sabato, Gabbard ha affermato che, a differenza dei suoi predecessori, l’amministrazione Trump dà priorità alla diplomazia e agli accordi reciproci rispetto ai colpi di Stato.   «Il vecchio modo di pensare di Washington è qualcosa che speriamo sia ormai un ricordo del passato e che ci ha frenato per troppo tempo: per decenni, la nostra politica estera è rimasta intrappolata in un ciclo controproducente e senza fine di cambi di regime o di costruzione di nazioni», ha affermato, descrivendolo come un «approccio unico per tutti» per rovesciare regimi, imporre modelli di governance statunitensi e intervenire in conflitti «poco compresi», solo per «andarsene con più nemici che alleati».   La Gabbard ha affermato che la strategia ha prosciugato migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti statunitensi, è costata innumerevoli vite e ha alimentato nuove minacce alla sicurezza, ma ha osservato che Trump è stato eletto «per porre fine a tutto questo».

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«E fin dal primo giorno, ha mostrato un modo molto diverso di condurre la politica estera, pragmatico e orientato agli accordi», ha affermato la Gabbarda. «Ecco come si manifesta in pratica la politica America First del presidente Trump: costruire la pace attraverso la diplomazia».   Fin dal suo insediamento all’inizio del 2025, Trump si è ripetutamente descritto come un pacificatore globale, vantandosi di aver mediato accordi internazionali e affermando di meritare il Premio Nobel per la Pace. I critici, tuttavia, sostengono che le sue campagne di pressione su Venezuela e Iran rispecchino la strategia di Washington per un cambio di regime.   Il mese scorso Caracas ha accusato gli Stati Uniti di aver pianificato un colpo di stato contro il presidente Nicolas Maduro con il pretesto della campagna antidroga in corso al largo delle coste del Paese.   Lo stesso Trump ha accennato a un «cambio di regime» in Iran dopo gli attacchi statunitensi di giugno, scrivendo su Truth Social: «Perché non dovrebbe esserci un cambio di regime???».   Teheran, che da tempo accusa Washington di cercare di destabilizzarla attraverso sanzioni e azioni segrete, ha denunciato gli attacchi come prova dei rinnovati tentativi di indebolire il suo governo.

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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
       
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Geopolitica

«Boicottate Dubai»: campagna contro gli Emirati per «complicità» nei massacri in Darfur

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Sudanesi della diaspora contro Abu Dhabi per il sostegno alle Forze di supporto rapido (RSF), accusate di atrocità nella conquista di El Fasher, in cui sono state uccise oltre duemila persone, fra cui donne e bambini. La nazione del Golfo nega responsabilità e annuncia lo stanziamento di 100 milioni di dollari in aiuti umanitari.

 

Una campagna in rete lanciata da tempo da espatriati sudanesi della diaspora contro gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e i prodotti provenienti dallo Stato del Golfo sta diventando virale in questi giorni, acquistando un crescente consenso e visibilità. Dietro l’invito al boicottaggio rivolto a viaggiatori, investitori e consumatori, vi sono le notizie sugli «abusi e sistematiche uccisioni» nel Darfur per mano delle Forze di supporto rapido (RSF), che godrebbero del sostegno da dietro le quinte di Abu Dhabi.

 

Accuse rilanciate all’indomani della presa, il 26 ottobre scorso, della città di El Fasher accompagnata da pesanti violenze di matrice etnica e confessionale durante l’assedio e la conquista da parte del gruppo paramilitare.

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La conquista dell’ultima roccaforte delle Forze Armate Sudanesi (SAF) nella regione è stata accompagnata da massacri su larga scala, con immagini che mostrerebbero combattenti Rsf vantarsi di aver ucciso civili tra cui donne, bambini e anziani, mentre gli abitanti fuggivano dalla città. Le foto satellitari hanno anche mostrato strade macchiate di sangue e distruzione diffusa, scene che hanno alimentato l’indignazione e scatenato la protesta online.

 

Secondo alcune testimonianze, oltre duemila persone sarebbero state uccise, mentre il portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Stéphane Dujarric parla di almeno 1350 vittime, ma aggiunge anche che il dato sarebbe «sottostimato rispetto al numero reale». Anche l’Alto commissariato Onu per i diritti umani afferma di aver ricevuto «resoconti terrificanti» di atrocità, tra cui esecuzioni sommarie.

 

In questo quadro di guerra e violenza, attivisti pro diritti umani ed esperti ricordano che vi è «ampia documentazione» in base alla quale emergono i legami fra le milizie RSF e gli Emirati, che sarebbero i principali sostenitori del gruppo paramilitare al quale forniscono armi e materiale.

 

In risposta gli utenti dei social media stanno presentando una petizione affinché Washington, fra i principali fornitori di armi di Abu Dhabi, imponga un embargo alla vendita e sanzioni ai vertici di Rsf. A questo si aggiunge l’invito ad aderire alla campagna di boicottaggio dello Stato del Golfo cancellando i viaggi a Dubai, evitando i prodotti locali e riconsiderando gli affari con le aziende con sede negli Emirati Arabi Uniti.

 

Nel mirino degli attivisti è finito anche il commercio di oro, col Sudan che è fra i principali esportatori al mondo del prezioso metallo e, secondo alcuni, in gran parte contrabbandato dalle miniere controllate da Rsf, che beneficiano del traffico. Altri ancora, inoltre, inquadrano la campagna di boicottaggio in un quadro regionale più ampio, paragonando il sostegno degli Emirati Arabi Uniti ai miliziani e le atrocità commesse dal gruppo in Sudan al «genocidio» perpetrato da Israele a Gaza.

 

La giornalista palestinese Hind Khoudary, oggi a Gaza, ha dichiarato che aveva programmato di visitare la tomba del padre negli Emirati una volta finita la guerra, ma ha deciso di boicottare il Paese esortando altri a fare lo stesso.

 

In risposta alla crescente ondata di indignazione, i vertici di Abu Dhabi prendono le distanze dalle violenze condannando quelli che definiscono «atroci attacchi» contro i civili a El Fasher, annunciando anche lo stanziamento di altri 100 milioni di dollari in aiuti umanitari. In una nota diffusa ieri al Consiglio di sicurezza Onu dal rappresentante Mohamed Abushahab, gli Emirati «condannano gli attacchi efferati contro i civili a El Fasher, in palese violazione del diritto internazionale umanitario».

 

Il rappresentante diplomatico chiede inoltre che i responsabili siano chiamati a rispondere delle loro azioni. «Le parti in conflitto» avverte «devono rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario, compresa la creazione di corridoi umanitari e di passaggi sicuri, consentendo e facilitando l’invio rapido e senza ostacoli di aiuti umanitari». Lo stesso generale Mohamed Dagalo, comandante del gruppo paramilitare, ha ammesso in un video trasmesso nei giorni scorsi che i suoi uomini hanno commesso «abusi».

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La guerra in Sudan è scoppiata nell’aprile 2023, quando le tensioni a lungo latenti tra le SAF, guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le RSF, comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, sono degenerate in un conflitto aperto. Dietro le violenze il mancato accordo sui piani di integrazione delle milizie nell’esercito regolare, ma gli scontri iniziali si sono presto trasformati in guerra su scala nazionale che ha causato la morte di decine di migliaia di persone e lo sfollamento di oltre 13 milioni.

 

Circa 30 milioni – oltre metà della popolazione – stanno affrontando la fame, con la carestia dichiarata in alcune aree principalmente nel Darfur.

 

Entrambe le parti in guerra sono state accusate di violazioni. In particolare, la RDF è stata accusata dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di crimini di guerra, tra cui un attacco del 2023 su un’altra città del Darfur, Geneina, dove centinaia sono stati uccisi e decine di migliaia sono fuggiti attraverso il confine verso il Ciad.

 

L’esercito deve invece affrontare accuse di crimini di guerra, principalmente per bombardamenti indiscriminati e uccisioni di sospetti collaboratori, nelle aree che ha strappato alla milizia combattente.

 

Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne.

Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

Gli USA revocano le sanzioni al leader serbo-bosniaco Dodik

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Washington ha revocato le sanzioni imposte al leader serbo-bosniaco Milorad Dodik e ai suoi familiari, ha reso noto mercoledì il Dipartimento del Tesoro statunitense.   Le misure restrittive, introdotte inizialmente sotto l’amministrazione Biden nel 2022 e poi inasprite negli anni successivi, colpivano Dodik per aver presumibilmente compromesso l’accordo di pace di Dayton del 1995, che istituì la Bosnia ed Erzegovina come Stato composto da due entità in larga misura autonome: la Repubblica Srpska a maggioranza serba e la Federazione bosniaco-croata.   La decisione del Tesoro fa seguito all’impegno formale di Dodik di rinunciare al suo potere nella Republika Srpska, l’entità serba di cui era stato presidente.   In un post su X, Dodik ha ringraziato il presidente statunitense Donald Trump, affermando che il provvedimento «ha corretto una grave ingiustizia inflitta alla Republika Srpska, ai suoi rappresentanti e alle loro famiglie». Ha aggiunto che la mossa ha dimostrato che «le accuse contro di noi non erano altro che bugie e propaganda».      

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Dodik ha accettato di dimettersi dopo uno scontro con il governo centrale bosniaco di Sarajevo e con Christian Schmidt, il diplomatico tedesco a capo dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR), l’organismo che vigila sull’attuazione degli accordi di Dayton.   Come riportato da Renovatio 21, un tribunale bosniaco lo aveva in precedenza condannato a una pena detentiva, poi commutata in multa. Nuove elezioni regionali sono in programma per novembre.   Il politico si oppone da tempo all’integrazione della Bosnia nella NATO e nell’Unione Europea, promuovendo invece rapporti più stretti con Serbia e Russia. In un’intervista rilasciata all’inizio del mese ai media russi, Dodik ha dichiarato che i leader UE hanno «distrutto tutti i vantaggi che l’Europa [occidentale] un tempo offriva» e li ha accusati di adottare politiche autoritarie e militariste per mascherare i propri fallimenti.   Come riportato da Renovatio 21, il Dodik era stato condannato al carcere a fine 2024. Due anni fa aveva sollevato le controversie su Hunter Biden per accusare il presidente americano Joe Biden di ipocrisia per aver inserito nella lista nera i suoi figli per presunta corruzione. Dodik ha sostenuto che le mosse di Washington hanno più probabilità di rendere la Repubblica serba indipendente che di distruggerla.   Ad aprile Dodik aveva dichiarato che l’UE dovrebbe smettere di demonizzare la Russia e il suo leader, Vladimir Putin. In un’intervista rilasciata alla rivista svizzera Die Weltwoche, Dodik ha affermato che «il punto di vista russo è che la guerra in Ucraina è stata imposta alla Russia dall’élite mondiale occidentale», citando quindi il presunto ruolo di Boris Johnson nel fallimento dei negoziati di pace tra Mosca e Kiev a Costantinopoli, in Turchia, nel 2022.
 

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Immagine di © European Union, 2025 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative  Commons Attribution 4.0 International
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