Spirito
«Fate del Santo Sacrificio della Messa la principale ragione della vostra vita»: omelia del Giovedì Santo di mons. Viganò
Renovatio 21 pubblicata l’omelia per la Messa Crismale del Giovedì Santo di monsignor Carlo Maria Viganò.

NEC SENESCAT TEMPORE
Omelia per la Messa Crismale del Giovedì Santo
Inde etiam Moysi famulo tuo mandatum dedisti,
ut Aaron fratrem suum prius aqua lotum
per infusionem hujus unguenti
constitueret Sacerdotem.
Præf. ad cons. Chrisma
Nel Giovedì della Settimana Santa la Chiesa onora con la massima solennità alcuni tra i più importanti Misteri della nostra Religione. Nell’antichità questo giorno benedetto iniziava con la riconciliazione dei pubblici peccatori che avevano espiato le proprie colpe durante la Quaresima. Vivo ego, dicit Dominus: nolo mortem peccatoris, sed ut magis convertatur, et vivat.
Ma perché il peccatore non muoia, perché si converta e viva, è indispensabile che sia perpetuato in modo incruento il Sacrificio della Nuova ed Eterna Alleanza, la Santa Messa; e perché questo Sacrificio perenne possa essere celebrato, occorre il Sacerdozio, e quindi l’Episcopato che lo trasmetta nella linea della Successione Apostolica; e con esso gli Oli e il Crisma dell’unzione dei Sacerdoti e dei Re, dei Profeti e dei Martiri. Occorre insomma che il Messia – il Χριστός, l’Unto del Signore – gloriosamente risorto e asceso al Cielo dopo aver patito ed essere morto sulla Croce, perpetui la propria presenza nella Santa Chiesa, Suo Mistico Corpo, fino al giorno del Suo ritorno alla fine dei tempi.
In questo giorno benedetto ricordiamo l’Ultima Cena, l’istituzione del Sacerdozio, della Messa, del Santissimo Sacramento. La liturgia vespertina ci riporta nel Cenacolo, dove gli Apostoli ricevono dal Signore il Suo testamento spirituale, prima dell’agonia nel Getsemani e la cattura da parte del Sinedrio.
E mentre i giorni che precedono e seguono il Giovedì Santo ci propongono i Vangeli della Passione e i segni esteriori del lutto, oggi la Chiesa si veste di bianco, intona il Gloria e si concentra sulla contemplazione di queste ultime ore che il Redentore trascorre con i Suoi discepoli.
Mai come in questa fase cruciale della storia della Chiesa e dell’umanità possiamo sentire e condividere l’apprensione degli Apostoli, il loro disorientamento nel vedersi lavare i piedi dal Maestro, la loro consapevolezza di un destino incombente, il sonno che li coglie durante l’Agonia nell’Orto degli Ulivi, il timore che li indurrà a fuggire, il triplice rinnegamento di Pietro nel Pretorio, la disperazione che porterà Giuda a togliersi la vita, la silenziosa presenza di Giovanni e delle Pie Donne nell’ascesa al Calvario e ai Piedi della Croce.
Nell’arco di poche ore il banchetto rituale per la Pasqua ebraica, nel quale è anticipata l’unica Messa celebrata prima del Sacrificio del Golgota, cede all’apparente trionfo dei carnefici, alla cattura del Signore, a un processo condotto con la frode e con falsi testimoni, alla Sua condanna a morte sull’infame patibolo riservato agli schiavi, agli oltraggi della turba aizzata dagli scribi e dai sacerdoti.
Ritroviamo tutto questo nei segni composti della Liturgia che si conclude mestamente, nel rito della spoliazione degli altari accompagnato dal canto monocorde del Salmo 21, nella sostituzione del suono delle campane con il rumore austero del crotalo.
Potremmo dire che la vita terrena del Salvatore – e per estensione l’intera storia della Salvezza – siano racchiuse in questo giorno, nel quale il Signore consente ai Dodici, e a noi con essi, di godere di un breve sprazzo di solenne consolazione e speranza prima delle ore tremende del Venerdì Santo.
Nel giorno in cui i Leviti rinnovano le promesse sacerdotali e il vincolo di unità con il Vescovo, dobbiamo interrogarci su quale sia il modello al quale vogliamo conformare il nostro Sacerdozio. Vi sono infatti molti modi di intendere e vivere il Ministero sacerdotale, ma uno solo è conforme alla volontà di Nostro Signore Gesù Cristo. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi (Gv 15, 16), ha detto il divin Maestro.
E se ci ha scelti, se vi ha scelti, è perché siate come Egli vi vuole, e perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga (ibid.). Perché andiate, non perché rimaniate.
Perché possiate crescere nella santità, e non per crogiolarvi nella vostra mediocrità, o peggio per sprofondare nel peccato. Perché portiate frutto.
Voi non siete sindacalisti, né propagandisti, né funzionari di un’organizzazione umanitaria, né membri di un circolo filantropico. Non siete chiamati a tranquillizzare le anime, né ad assecondarle, ma a svegliarle dal loro torpore, ad ammonirle, a spronarle opportune, importune. Non siete più del mondo, ma nel mondo: la nera veste che indossate è segno di separazione e di rinuncia; esempio per i buoni e monito per i peccatori.
Non siete presidenti di un’assemblea, ma ministri di Cristo, dispensatori dei Misteri di Dio (1 Cor 4, 1). Non siete attori su un palcoscenico, né conferenzieri su un podio: siete sacerdoti, nei cui gesti e dalle cui parole chi vi ascolta deve vedere e ascoltare Nostro Signore, Sommo Sacerdote, che allarga le braccia sulla Croce per offrirSi al Padre. La Chiesa, il Sacerdozio, la Messa, i Sacramenti, la Liturgia, il Vangelo non sono vostra proprietà, né un brogliaccio che Dio vi lascia liberi di manomettere, stravolgere o «rileggere» a vostro piacimento.
Onorate dunque la Sacra Tradizione non come fredde ceneri di un passato ormai sepolto, ma come viva fiamma che tutto deve incendiare di soprannaturale Carità, ad iniziare da voi stessi. Perché se non siete sale della terra e lievito della massa, finirete per essere gettati a terra e calpestati (Mt 5, 13) da coloro che credete di compiacere.
Fate del Santo Sacrificio della Messa la principale ragione della vostra vita e delle vostre giornate, perché è da esso che dipende la salvezza della Chiesa, del mondo e la vostra. Completate nel vostro corpo quel che manca ai patimenti di Cristo, come dice l’Apostolo (Col 1, 24), per il bene del Suo Corpo che è la Chiesa. Resistite fortes in fide (1Pt 5, 9), secondo il monito di San Pietro. State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allontaniate, servendo dèi stranieri o prostrandovi davanti a loro (Deut 11, 16). Attenetevi al consiglio del Commonitorium di San Vincenzo Lerino: In ipsa item Catholica Ecclesia magnopere curandum est ut id teneamus quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est.
Questa è regola certissima della Fede, dinanzi ad una Gerarchia apostata che eclissa la vera Chiesa di Cristo e dinanzi ad un usurpatore del Sommo Pontificato. Imparate ad obbedire a Dio prima che agli uomini, ricordandovi che il destino del sacerdote o del Vescovo è indissolubilmente legato a quello del suo Signore:
Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Gv 15, 18-21).
La Chiesa si accinge ad affrontare la passio Ecclesiæ, essa che è Corpo Mistico di Cristo, e che come il suo Capo deve non solo affrontare il supplizio nelle singole membra dei Martiri, come è avvenuto nel corso della Storia, ma anche nell’intero corpo, condotto dinanzi ad un nuovo Sinedrio che odia la Chiesa come odia Cristo.
E in queste ore benedette, anche a noi è dato di celebrare il Sacerdozio di cui siamo insigniti: chi nella pienezza dell’Episcopato, chi nella partecipazione dei differenti gradi dell’Ordine Sacro che avete ricevuto. Raccolti intorno al Calvario dell’altare, ripetiamo le parole e i gesti che il Signore ha insegnato agli Apostoli, fedeli al mandato ricevuto: Hæc quotiescumque feceritis, in mei memoriam facietis (1Cor 11, 25). Ciascuno di noi può dire con Sant’Agostino: Admiramini, gaudete, Christus facti sumus. (Tract. XXI).
Siamo diventati Cristo: i fedeli, mediante il Battesimo; voi sacri Ministri, nel Sacerdozio ministeriale ordinato; noi Vescovi, nella pienezza del Sacerdozio e nella Successione apostolica. Ripetiamo ciò che ci è stato insegnato e comandato di fare.
Tramandiamo intatto – con l’aiuto di Dio e l’assistenza dello Spirito Santo – ciò che abbiamo ricevuto: Tradidi quod et accepi (1Cor 1, 3). Perché nulla abbiamo da trasmettere di nostro, ma tutto di ciò che Cristo ci ha dato: Dominus pars hereditatis meæ et calicis mei: tu es qui restitues hereditatem meam mihi (Ps 15, 5), il Signore è la mia parte di eredità e il mio calice: tu sei Colui che mi riporta in possesso dell’eredità che avevo colpevolmente perduto. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria (Rom 8, 17).
Il nostro essere eredi di Dio e coeredi di Cristo, richiede dunque l’assimilazione del Sacerdozio regale di Nostro Signore: un Sacerdozio che consiste nell’offrire la Vittima divina nel Sacrificio incruento della Messa; ma anche nell’offrire noi stessi, misticamente, come vittime in unione all’Agnello immacolato; e nell’essere, come Cristo pietra angolare, il mistico altare sul quale è celebrato il rito. Solo così, carissimi fratelli, possiamo essere degni di sentirci ripetere dal Maestro le consolanti parole che Egli rivolse nel Cenacolo agli Apostoli:
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda (Gv 15, 12-16).
Imploriamo la Vergine Santissima, la Regina Crucis, Madre del Sommo Sacerdote, Madre della Vittima divina, Tabernacolo dell’Altissimo, di poter essere veramente amici di Cristo, nel compiere ciò che Egli ci comanda.
Nel rimanere svegli e pregare durante l’agonia della Sua Chiesa; nell’esserGli fedeli nel momento in cui nuovi Giuda Lo consegnano al Sinedrio; nel non fuggire per pavidità, nel non rinnegarLo come fece Pietro.
Nell’amarci gli uni gli altri come Egli ci ha amati: Congregavit nos in unum Christi amor; nel saper dare la vita come Egli l’ha data per noi. Nel partecipare alle Sue sofferenze, per partecipare anche alla Sua gloria.
E così sia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
17 Aprile 2025
Feria V in Cœna Domini
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Due nuovi «santi» venezuelani riaccendono le tensioni tra Chiesa e Stato
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Spirito
Omelia relativista di Papa Leone XIII: «nessuno possiede tutta la verità»
Papa Leone XIV ha dichiarato che «nessuno possiede la verità assoluta» e che «nessuno è escluso» dalla Chiesa, durante la sua omelia domenicale del 26 ottobre, pronunciata in occasione della messa giubilare per i gruppi sinodali e gli organismi partecipativi.
Le sue parole, che potrebbero essere interpretate come relativistiche rispetto alla proclamazione della fede unica della Chiesa cattolica, hanno sconvolto moltissimi.
L’amore è la «regola suprema della Chiesa». «Nessuno è chiamato a comandare», ma «tutti sono chiamati a servire»; nessuno deve «imporre le proprie idee», tutti sono invitati all’ascolto reciproco; e «nessuno è escluso» poiché «tutti siamo chiamati a partecipare».
«Nessuno possiede la verità tutta intera, tutti dobbiamo umilmente cercarla, e cercarla insieme»: un’affermazione scioccante per chi è il vicario di colui che è la Via, la Verità e la Vita..
Essere Chiesa sinodale significa riconoscere che la verità non si possiede, ma si cerca insieme, lasciandosi guidare da un cuore inquieto e innamorato dell’Amore.
Leone ha enfatizzato il concetto di Chiesa «sinodale», termine spesso usato dal suo predecessore, Papa Francesco, pur rimanendo vago nel significato. «Le équipe sinodali e gli organi di partecipazione sono immagine di questa Chiesa che vive nella comunione», ha aggiunto oscuramente il romano pontefice.
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«Dobbiamo sognare e costruire una Chiesa umile. Una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé stessa, ma si abbassa per lavare i piedi dell’umanità; una Chiesa che non giudica come fa il fariseo col pubblicano, ma si fa luogo ospitale per tutti e per ciascuno; una Chiesa che non si chiude in sé stessa, ma resta in ascolto di Dio per poter allo stesso modo ascoltare tutti».
«Impegniamoci a costruire una Chiesa tutta sinodale, tutta ministeriale, tutta attratta da Cristo e perciò protesa al servizio del mondo» ha esortato il sommo pontefice con linguaggio sempre più tecnico e cervellotico.
Sebbene nessun individuo possegga la pienezza della verità, la Chiesa cattolica, in quanto Corpo mistico di Cristo guidato dallo Spirito Santo, ha sempre sostenuto di essere la custode del deposito della fede, ossia la verità rivelata da Dio.
I commenti di papa Leone appaiono ambigui e potenzialmente relativistici, poiché non ha chiarito la distinzione tra i membri fallibili della Chiesa, che possono errare nella comprensione della verità, e la Chiesa stessa, che custodisce e proclama l’unica vera fede.
Le parole di Prevost sembrano andare contro il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il Magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo quando definisce qualche dogma, cioè quando, in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un’irrevocabile adesione di fede, propone verità contenute nella rivelazione divina, o anche quando propone in modo definitivo verità che hanno con quelle una necessaria connessione» (CCC, I dogmi della fede, 88).
La Sacra Scrittura parla della «casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente, colonna e base della verità» (1Tim 3,15).
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Immagine di Edgar Beltrán via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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