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Geopolitica

Di nuovo tensioni tra Azerbaigian e Armenia: si teme la ripresa del conflitto

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

A pochi giorni dalla rielezione plebiscitaria di Aliev i soldati azeri hanno aperto il fuoco accusando gli armeni di «provocazione». Pašinyan replica agli ultimatum, mentre si allontanano le prospettive di un accordo di pace. Le nuove rivendicazioni di Baku sull’enclave del Nakhičevan.

 

Le trattative di pace tra Armenia e Azerbaigian sembrano rimanere ferme a un punto morto, nonostante promesse e annunci da entrambe le parti, e nuove tensioni creano la preoccupazione circa una possibile ripresa del conflitto, dopo la conquista del Nagorno Karabakh da parte di Baku lo scorso settembre.

 

Il politologo russo Arkadij Dubnov, a lungo consulente dei servizi di intelligence di diversi Paesi, ha commentato la situazione per Novosti Armenia, cercando di individuare i punti nevralgici del contesto caucasico.

 

Egli osserva che «non è passata una settimana dalla rielezione plebiscitaria di Ilham Aliev a presidente dell’Azerbaigian, che si sono subito delineati i contorni della politica del nuovo-vecchio leader», con la «operazione di risposta» dei soldati azeri di confine nei confronti di quella che è stata definita una «provocazione» degli armeni, iniziando una sparatoria che ha ucciso quattro armeni e ferito gravemente un azerbaigiano.

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A Erevan hanno cercato di prendere tempo per comprendere che cosa fosse effettivamente accaduto, ma da Baku «non hanno voluto aspettare, dando l’ordine di aprire il fuoco». Secondo Dubnov non si tratta di un incidente isolato e casuale, ma di una «recrudescenza assolutamente seria del conflitto», sullo sfondo dell’irrigidimento di Aliev circa le condizioni necessarie per la firma dell’accordo di pace.

 

Ora il presidente azero insiste sulla riscrittura della costituzione dell’Armenia, tema molto divisivo e molto dibattuto tra gli stessi armeni, pretendendo di escludere qualunque formula o accenno che possa essere riferito al Nagorno Karabakh. Nonostante da Erevan siano arrivati segnali di disponibilità al riguardo, tanto da eliminare il settore che si occupava dell’Artsakh al ministero degli esteri, da Baku continuano a giungere severi moniti e minacce di «usare la forza in caso di mancata esecuzione» delle richieste.

 

Nella tanto citata intervista di Nikol Pašinyan a The Telegraph di qualche giorno fa, il premier armeno ha ricordato gli ultimatum di Aliev, affermando che «egli ha detto che se vede un riarmo dell’Armenia inizierà un’operazione militare contro di noi, ha ripetuto le sue pretese di aprire un corridoio tra il territorio armeno e l’enclave azera del Nakhičevan, escludendo anche di ritirare le sue truppe dal nostro territorio, dislocate sulle alture strategiche, poiché a suo parere queste zone occupate sono necessarie per tenere sotto controllo le intenzioni degli armeni».

 

Pašinyan ritiene dunque che «l’Azerbaigian stia compiendo diversi passi indietro rispetto a quanto già accordato precedentemente», mentre l’Armenia intende rivendicare il «diritto sovrano di ogni Paese indipendente» ad avere un esercito forte ed efficiente. Aliev definisce questa aspirazione di Erevan come una «espressione di revanscismo», e Dubnov è convinto che la pretesa di Baku per un disarmo totale armeno sia «semplicemente assurda: l’Armenia del dopoguerra non è la Germania hitleriana del dopoguerra, o il Giappone imperiale dopo la sconfitta, con le inevitabili limitazioni alla forza militare».

 

Per questo «la possibilità di una nuova guerra nel Caucaso meridionale di nuovo appare ben di più che una possibilità teorica», conclude l’esperto, «e diventa sempre più chiaro perché Aliev abbia voluto affrettarsi così tanto nel tenere le elezioni anticipate».

 

Secondo il ministero della difesa armeno, la sparatoria iniziata dagli azeri il 13 febbraio contro le postazioni armene del distretto di Nerkin Khanda nella regione di Siunyk è da considerare soltanto «l’inizio di una nuova campagna militare di Baku», che non si sa fin dove potrebbe spingersi nei prossimi giorni.

 

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Il Venezuela chiede aiuti militari a Russia, Cina e Iran

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Il Venezuela ha sollecitato l’aiuto di Russia, Cina e Iran per potenziare le proprie difese militari nell’ambito dell’attuale tensione con gli Stati Uniti, ha riferito venerdì il Washington Post citando documenti governativi USA.   Stando al giornale, il presidente Nicolas Maduro ha indirizzato una lettera al leader cinese Xi Jinping per ottenere radar di rilevamento, invocando esplicitamente l’«escalation» con Washington. Caracas avrebbe inoltre chiesto all’Iran sistemi anti-radar e droni con autonomia fino a 1.000 km.   I documenti indicano che il ministro dei Trasporti venezuelano Ramón Celestino Velázquez avrebbe dovuto recapitare a Vladimir Putin, durante la sua visita a Mosca il mese scorso, una missiva con la richiesta di missili non meglio specificati e supporto per la manutenzione dei caccia Su-30MK2 e dei radar già acquisiti. Non è noto quale risposta abbiano dato Russia, Cina o Iran.

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Donald Trump ha accusato Maduro di capeggiare «cartelli macroterroristici» dediti al traffico di droga verso gli USA, offrendo una taglia per la sua cattura. Washington ha dispiegato una flotta nei Caraibi occidentali e, da settembre, ha colpito in acque internazionali oltre una dozzina di imbarcazioni sospette. Maduro ha respinto le imputazioni, parlando di «guerra inventata» da Trump.   Lunedì Mosca ha ratificato il trattato di partenariato strategico con Caracas, siglato a maggio. La portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha dichiarato che la Russia «sostiene la sovranità nazionale del Venezuela» e lo assisterà nel «superare qualsiasi minaccia, da qualunque parte provenga».   Un articolo del New York Times riportava che Trump avesse ordinato l’interruzione dei colloqui con il Venezuela, «frustrato» dal rifiuto di Maduro di cedere volontariamente il potere. Il giornale suggeriva anche che gli Stati Uniti stessero pianificando una possibile escalation militare.   Nel frattempo, Maduro ha avvertito che il Venezuela entrerebbe in uno stato di «lotta armata» in caso di attacco, aumentando la prontezza militare in tutto il Paese.   Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso, gli Stati Uniti hanno inviato almeno otto navi della Marina, un sottomarino d’attacco e circa 4.000 soldati vicino alla costa venezuelana, dichiarando che la missione mirava a contrastare i cartelli della droga. Washington ha sostenuto che l’armata ha affondato tre imbarcazioni venezuelane, senza però fornire prove che le persone a bordo fossero criminali.

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La Casa Bianca accusa da tempo Maduro di guidare una rete di narcotrafficanti nota come «Cartel de los Soles», sebbene non vi siano prove schiaccianti o prove concrete che lo dimostrino, tuttavia lo scorso anno gli USA sono arrivati a sequestrare un aereo presumibilmente utilizzato dal presidente di Caracas. È stato anche accusato di aver trasformato l’immigrazione in un’arma, sebbene Maduro si sia mostrato pronto a dialogare con le delegazioni diplomatiche americane sulla questione.   Come riportato da Renovatio 21, a inizio anno Maduro aveva dichiarato che Washington ha aperto il suo libretto degli assegni a una schiera di truffatori e bugiardi per destabilizzare il Venezuela, quando gli Stati Uniti si sono rifiutati di riconoscere le elezioni del 2024 in Venezuela.   Secondo Maduro, almeno 125 militanti provenienti da 25 Paesi sono stati arrestati dalle autorità venezuelane. Aveva poi accusato Elone Musk di aver speso un miliardo di dollari per un golpe in Venezuela. Negli stessi mesi si parlò di un piano di assassinio CIA di Maduro sventato.   Nelle scorse settimane perfino l’account YouTube di Maduro è stato rimosso da YouTube.   Secondo notizie emerse negli ultimi giorni Trump punterebbe ad attaccare le «strutture della cocaina» in Venezuela.

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 
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Gli USA revocano le sanzioni al leader serbo-bosniaco Dodik

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Washington ha revocato le sanzioni imposte al leader serbo-bosniaco Milorad Dodik e ai suoi familiari, ha reso noto mercoledì il Dipartimento del Tesoro statunitense.

 

Le misure restrittive, introdotte inizialmente sotto l’amministrazione Biden nel 2022 e poi inasprite negli anni successivi, colpivano Dodik per aver presumibilmente compromesso l’accordo di pace di Dayton del 1995, che istituì la Bosnia ed Erzegovina come Stato composto da due entità in larga misura autonome: la Repubblica Srpska a maggioranza serba e la Federazione bosniaco-croata.

 

La decisione del Tesoro fa seguito all’impegno formale di Dodik di rinunciare al suo potere nella Republika Srpska, l’entità serba di cui era stato presidente.

 

In un post su X, Dodik ha ringraziato il presidente statunitense Donald Trump, affermando che il provvedimento «ha corretto una grave ingiustizia inflitta alla Republika Srpska, ai suoi rappresentanti e alle loro famiglie». Ha aggiunto che la mossa ha dimostrato che «le accuse contro di noi non erano altro che bugie e propaganda».

 

 

 

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Dodik ha accettato di dimettersi dopo uno scontro con il governo centrale bosniaco di Sarajevo e con Christian Schmidt, il diplomatico tedesco a capo dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR), l’organismo che vigila sull’attuazione degli accordi di Dayton.

 

Come riportato da Renovatio 21, un tribunale bosniaco lo aveva in precedenza condannato a una pena detentiva, poi commutata in multa. Nuove elezioni regionali sono in programma per novembre.

 

Il politico si oppone da tempo all’integrazione della Bosnia nella NATO e nell’Unione Europea, promuovendo invece rapporti più stretti con Serbia e Russia. In un’intervista rilasciata all’inizio del mese ai media russi, Dodik ha dichiarato che i leader UE hanno «distrutto tutti i vantaggi che l’Europa [occidentale] un tempo offriva» e li ha accusati di adottare politiche autoritarie e militariste per mascherare i propri fallimenti.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Dodik era stato condannato al carcere a fine 2024. Due anni fa aveva sollevato le controversie su Hunter Biden per accusare il presidente americano Joe Biden di ipocrisia per aver inserito nella lista nera i suoi figli per presunta corruzione. Dodik ha sostenuto che le mosse di Washington hanno più probabilità di rendere la Repubblica serba indipendente che di distruggerla.

 

Ad aprile Dodik aveva dichiarato che l’UE dovrebbe smettere di demonizzare la Russia e il suo leader, Vladimir Putin. In un’intervista rilasciata alla rivista svizzera Die Weltwoche, Dodik ha affermato che «il punto di vista russo è che la guerra in Ucraina è stata imposta alla Russia dall’élite mondiale occidentale», citando quindi il presunto ruolo di Boris Johnson nel fallimento dei negoziati di pace tra Mosca e Kiev a Costantinopoli, in Turchia, nel 2022.

 

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Immagine di © European Union, 2025 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative  Commons Attribution 4.0 International

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Israele attacca ancora Gaza. Trump approva

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Il presidente statunitense Donald Trump ha giustificato i recenti raid israeliani su Gaza, a quasi tre settimane dall’avvio del cessate il fuoco da lui contribuito a negoziare.   Martedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha disposto «attacchi immediati e potenti», motivandoli con gli assalti di Hamas contro i soldati israeliani che ancora presidiano porzioni dell’enclave palestinese. Almeno 104 persone in risposta alla presunta violazione da parte di Hamas dell’accordo di pace nella regione mediato da Trump.   L’attacco è avvenuto dopo che Israele ha accusato il suo nemico di aver sparato a un soldato dell’IDF, spingendo Benjamino Netanyahu a ordinare un assalto «immediato e potente» alla città che ha già distrutto. Hamas afferma di non avere «alcun collegamento» con l’attacco.   I raid avrebbero colpito case, scuole e quartieri residenziali, e testimoni hanno descritto di aver visto «colonne di fuoco e fumo» alzarsi in aria mentre le esplosioni scuotevano la zona. Almeno 46 bambini e 20 donne sono morti, secondo il ministero della Salute della regione. La triste realtà è che, anche con l’accordo di pace, è improbabile che queste schermaglie finiscano presto. Entrambe le parti si sentono religiosamente in diritto di possedere il territorio della regione, e nessuna delle due sembra soddisfatta dall’idea di qualcosa di meno della totale e completa partenza dell’altra.   «Da quanto ho appreso, hanno eliminato un soldato israeliano», ha dichiarato Trump ai giornalisti a bordo dell’Air Force One mercoledì, diretto dal Giappone alla Corea del Sud. «Hanno ucciso un soldato israeliano. Quindi gli israeliani hanno reagito, e dovrebbero reagire. Quando accade una cosa del genere, devono reagire», ha proseguito.  

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Trump ha assicurato che «nulla metterà a repentaglio» la tregua. Ha ribadito che Hamas rappresenta «una piccolissima parte della pace in Medio Oriente, e devono comportarsi bene», altrimenti «le loro vite saranno poste fine».   In precedenza, il vicepresidente statunitense J.D. Vance aveva sostenuto che il cessate il fuoco reggeva nonostante «piccole scaramucce qua e là». La testata Axios ha citato alti funzionari USA rimasti anonimi, i quali hanno rivelato che la Casa Bianca aveva invitato Israele a evitare «misure radicali» che avrebbero potuto far saltare l’accordo.   Secondo le Forze di Difesa Israeliane (IDF), la scorsa settimana due soldati sono stati assaliti e uccisi da Hamas a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, mentre martedì altri militari sono stati colpiti nella medesima area. Hamas ha smentito ogni coinvolgimento in entrambi gli episodi, accusando Israele di «una palese violazione del cessate il fuoco».   Il gruppo armato palestinese ha ammonito che l’escalation «causerà un ritardo» nel recupero e nella restituzione dei corpi dei 13 ostaggi israeliani ancora trattenuti a Gaza.   In precedenza, i funzionari israeliani avevano rimproverato Hamas di indugiare nella consegna di tutti i resti, come previsto nell’intesa mediata da Stati Uniti, Egitto, Qatar e Turchia, entrata in vigore il 10 ottobre.  

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