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Economia

Collasso energetico italiano, dati sconvolgenti

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A che punto è arrivato il disastro energetico che si è abbattuto sull’Italia?

 

Ne parliamo con il professor Mario Pagliaro, chimico al CNR ISMN (Istituto per lo Studio dei Materiali Nanostrutturati), alla guida un Gruppo di ricerca con oltre 330 pubblicazioni scientifiche internazionali. Pagliaro nel lontano 2008 è stato fra i primi in Italia a prevedere un ruolo decisivo dell’energia solare nel mix energetico di intere Nazioni quando in Italia la quota di energia solare era praticamente ferma allo zero per cento, creando il termine «Helionomics» che poi è divenuto il titolo di uno dei suoi libri più letti. Il professor Pagliaro è fra gli scienziati maggiormente citati a livello internazionale in tutti i campi della ricerca (top 0,5%).

 

Con il professor Pagliaro Renovatio 21 iniziò a parlare della crisi energetica in arrivo nel giugno 2021, quando ancora c’era il COVID e il conflitto militare in Ucraina non era ancora scoppiato.

 

Il ricercatore porta dei dati, freschi di stampa, che bisogna ritenere sconvolgenti. Praticamente nessun’altra pubblicazione sta dando loro il peso dovuto.

 

 

Professor Pagliaro, possiamo parlare di collasso energetico nazionale?

Sono i consumi energetici italiani ad essere collassati. Quelli del gas del 10% in un solo anno. Da agosto poi sono crollati quelli elettrici.

 

 

Cosa sta succedendo?

A dicembre, il crollo è senza precedenti se non per i mesi del lockdown. Secondo i dati preliminari di Terna, la domanda elettrica avrebbe perso 9 punti percentuali, scendendo sotto i 25 milioni di megawattora (MWh) dai 27,4 del Dicembre 2021. Noi analizzando i dati settimanali del mercato elettrico stimiamo consumi persino più bassi. Non si era mai visto nell’ultima settimana dell’anno un consumo elettrico di soli 4 milioni e 447mila MWh. Nello stesso mese appena concluso, ancora maggiore è stato il calo dei consumi di gas sul dicembre dello scorso anno: -23%.

 

 

Praticamente, l’Italia sta consumando un quarto del gas che utilizza usualmente?

Nel complesso, in Italia nel 2022 si sono bruciati poco più di 68 miliardi di metri cubi. Per avere un’idea dell’appropriatezza del sostantivo «collasso», i consumi di gas in Italia appena 15 anni fa, nel 2007, erano stati di quasi 85 milioni di metri cubi.

 

 

Cosa significa questo dato?

Significa che in appena 15 anni l’Italia ha ridotto di quasi un quinto i propri consumi. E questo quando la popolazione residente nello stesso periodo è aumentata di 100 mila unità. Ora, il gas si usa in larga parte nell’industria per il fabbisogno di calore, e nelle centrali termoelettriche per generare elettricità. Quest’ultimo settore ha tenuto, bruciando 25 miliardi di metri cubi nelle moderne ed efficienti centrali a turbogas italiane. Quello che è letteralmente crollato è il consumo delle aziende: sia ciò che resta in Italia dell’industria «energivora», che ha consumato oltre 2 miliardi di metri cubi di gas in meno, sia delle medie e piccole aziende, incluse quelle commerciali, che hanno ridotto la domanda di quasi 5 miliardi di metri cubi.

 

 

Questo per quanto riguarda il gas. E per l’energia elettrica?

I consumi calano sempre più da agosto, per poi crollare a novembre (-5%) e ancor più a Dicembre (-9%). Per molte aziende, sono i mesi più importanti dell’anno in previsione dell’aumento della domanda dovuto alle festività natalizie. La ragione di un simile crollo dei consumi, naturalmente, sta nei prezzi divenuti antieconomici. Per la stessa 52esima ed ultima settimana dell’anno il prezzo dell’elettricità all’ingrosso in Italia è passato dai 32 euro a MWh (pari a 1000 kWh) nel 2019 ai 194 del 2022. Un aumento di oltre 6 volte. E stiamo parlando della settimana in cui le scuole sono chiusi, e le attività produttive sono ridotte al minimo. Se paragoniamo i prezzi per una delle settimane più «ingolfate» dell’anno, la 48esima, la differenza è ancora maggiore: si passa dai 49,83 euro per MWh del 2019 ai 352,68 euro/MWh del 2022. Una differenza di oltre 7 volte.

 

 

Cosa dobbiamo pensare di questo dato mostruoso?

In pratica, questi dati ci indicano chiaramente come le aziende italiane da agosto abbiano ridotto drasticamente, e in alcuni casi interrotto totalmente, le loro produzioni. E la ragione è semplice: a questi prezzi produrre diventa antieconomico per moltissime attività produttive. Ovvero, più produci, più perdi. Si va dai titolari di due pizzerie a Palermo che ne chiudono una per il costo del gas che alimentava il forno divenuto insostenibile, all’impresa chimica lombarda che taglia drasticamente la produzione e manda gli operai in cassa integrazione perché il gas che brucia ogni ora per mantenere in temperatura i depositi con alcuni preziosi prodotti chimici è divenuto troppo costoso. Si va, ancora, dall’hotel che ha visto la propria bolletta mensile elettrica quasi decuplicare e ha subito interrotto le attività, alle aziende friulane che hanno deciso di dare ai dipendenti ferie Natalizie lunghe come quelle estive. Gli esempi sono migliaia. E in molti casi, si potrebbe trattare di chiusure definitive.

 

Vi sono infatti interi distretti di industrie considerate ora «energivore» dove innumeri aziende hanno chiuso i battenti…

Sono soprattutto le aziende dipendenti dal mercato interno. Quelle che vendono all’estero la gran parte dei loro prodotti come le aziende della ceramica emiliane, hanno potuto compensare il costo record del gas naturale. In particolare i ricchi clienti nei mercati dei Paesi del Medio Oriente, sommersi da entrate record legate alla vendita di idrocarburi, non hanno né avranno alcun problema a pagare le pregiate piastrelle ceramiche italiane anche se il loro prezzo dovesse raddoppiare. Non è questo il caso delle aziende mugnaie, che al prezzo del grano più che raddoppiato in pochi anni, devono aggiungere il costo dell’energia elettrica andato fuori controllo. E infatti in tutta Italia, il prezzo della farina è aumentato da meno di 40 euro al quintale ad oltre 70 e in alcuni casi anche oltre gli 80 euro a quintale.

 

Ci saranno effetti evidenti nella vita degli italiani? Dobbiamo aspettarci l’assenza di alcuni alimenti dai supermercati, per esempio?
Ci sono già, gli effetti. E molto concreti. È sufficiente andare sul sito del Ministero per riscontrare come lo scorso ottobre, nella provincia di Vicenza, il prezzo medio del pane fresco fosse 4.37 euro al chilo. A gennaio, era di 3,84 euro al chilo. I dati non vengono aggiornati da ottobre. Siamo ormai nel 2023, e forse anche lei si sarà accorto come in molti panifici della provincia di Vicenza il prezzo del pane superi abbondantemente i 5 euro/kg. Sul sito, può provare con molti altri prodotti di largo consumo: se lo fa con la pasta, vedrà che in soli 9 mesi nella provincia di Vicenza è aumentata del 21%. E da allora, i prezzi sono ulteriormente aumentati.

 

 

Come potrà reagire lo Stato davanti a questo dissesto? Requisirà l’industria alimentare?

Secondo noi, se la situazione dei prezzi energetici non tornerà alla normalità, ovvero a quelli di fine 2020, l’Italia non avrà alternativa a fare quanto hanno fatto Germania e Francia, nazionalizzando la prima l’azienda di distribuzione del gas naturale e la seconda quella dell’energia elettrica. In Germania la situazione è così grave che il governo nel mese di Dicembre ha pagato la bolletta del gas e dell’elettricità a tutte le famiglie e l’ha sostanzialmente azzerata alle imprese. Per il 2023 appena iniziato il governo tedesco ha messo un tetto al prezzo del gas a famiglie e a piccole imprese di 12 centesimi per kilowattora per il gas, e di 40 centesimi a kilowattora per l’elettricità, mentre per le imprese il tetto al prezzo per kilowattora elettrico è di 7 centesimi. La differenza con il prezzo di mercato la pagherà lo Stato. Gli aiuti entrano in vigore da marzo ma già per Gennaio e Febbraio verranno calcolati retroattivamente. In pratica, cioè, la Germania ha già nazionalizzato il mercato energetico.

 

 

Ritiene che la fine del conflitto in Ucraina potrebbe ristabilire le cose? Oppure le cause sono più profonde, e i prezzi non scenderebbero nemmeno nel caso di accordi di pace?

La pace è quanto tutti auspichiamo. Se la distensione delle relazioni internazionali fra i Paesi dell’Europa occidentale e la Russia porterà alla riattivazione degli enormi flussi di gas a basso costo trasportato dai gasdotti che collegano Germania, Austria, Italia e numerosi altri Paesi ai giacimenti metaniferi russi, allora i prezzi dell’energia scenderanno rapidamente e torneranno sui livelli che consentono di produrre in modo profittevole in Germania e in Italia, che sono le maggiori economie manifatturiere europee. Ma se questo non accadrà rapidamente, la deindustrializzazione dell’Europa e l’impoverimento di massa saranno realtà in pochi anni. L’Italia solo nel 2022 appena concluso ha visto scendere le forniture del gas dalla Russia in ingresso a Tarvisio del 61%. E abbiamo visto cosa è successo ai prezzi elettrici e del gas. Immagini cosa accadrebbe se la quota di gas Russo dovesse azzerarsi.

 

 

Quale può essere la soluzione a questa catastrofe?

Pace, distensione delle relazioni internazionali, e sviluppo comune che ci porti tutti insieme verso le nuove tecnologie dell’energia anche grazie al ritorno dello Stato nell’economia. Era quanto auspicava il grande Mattei quando costruì l’industria degli idrocarburi italiana intuendo decenni prima di tutti che il gas naturale sarebbe stato il nuovo petrolio, tanto nella produzione di energia che nell’industria chimica. È appena il caso di ricordare che l’industria chimica mondiale si regge sulla produzione di idrogeno a partire dal metano. È con l’idrogeno ottenuto dal metano che si produce l’ammoniaca da cui si ricava l’urea, senza la quale la produzione di cereali mondiale crollerebbe. L’Italia ne era un grande produttore con l’industria chimica di Stato. Che ritornerà, perché il sistema produttivo italiano non può farne a meno. Così come nascerà l’industria di Stato delle nuove tecnologie dell’energia, basata sulle fonti di energia rinnovabili e sulla batteria al lito: settori in cui l’Italia e l’Europa occidentale praticamente non esistono.

 

 

Un’ultima domanda in attesa di risentirci presto. Ci sono stati movimenti internazionali e partiti politici nazionali che ci hanno parlato di «decrescita». Ci siamo anche senza votarli, senza volerlo?
Guardi questo della «decrescita» è un equivoco come quello che confonde efficienza energetica e risparmio energetico. Se io dico «Mi illumino di meno. Spegniamo le luci delle città» e poi spengo le luci della pubblica illuminazione, risparmio energia ma mi ritrovo con la città al buio. I cittadini e i turisti che inciampano sui marciapiedi delle città italiane ormai in malora a causa dell’austerità economica, e con problemi di sicurezza dovuti al pressoché immediato aumento della criminalità nelle aree non illuminate. Se invece dico, «Illumino meglio e spendo molto meno», faccio acquistare al Comune i nuovi sistemi di illuminazione a LED di alta qualità illuminotecnica, risparmio 70% sulla vecchia bolletta, ed ho una città illuminata molto meglio, senza più inquinamento luminoso e con la valorizzazione dell’enorme patrimonio storico-artistico e architettonico italiano. In tutte le città costiere italiane, poi, l’energia per alimentare i LED si può generare gratuitamente con moderne celle solari fotovoltaiche, accumulandola in piccole e leggere batterie al litio. Sconnettendo quindi completamente i lampioni dalla rete elettrica. Le faccio io una domanda: in Europa e in Italia si producono LED, celle fotovoltaiche, e celle elettrochimiche per batterie al litio?

 

 

Immagino poche…

Ed immagina bene. In Europa non si producono né LED né celle solari fotovoltaiche. Le uniche produzioni di batterie al litio avvengono in Polonia e in Ungheria, ad opera di grandi imprese chimiche dell’Estremo Oriente. Non le sembra folle, nelle terre che hanno dato i natali a Volta, Faraday, Ampere, Ohm, Tesla, Pacinotti e tutti i grandi fisici e chimici che hanno scoperto e reso fruibile l’energia elettrica? Ecco: l’Italia e l’Europa devono ripartire da qui. Preso atto che il sistema privato è incapace di investire e innovare nel settore delle nuove tecnologie dell’energia, si fa come fecero le nazioni europee alla scoperta degli usi energetici e chimici del petrolio. Allora si fondarono le industrie petrolifere di Stato. Oggi quelle delle nuove tecnologie energetiche.

 

 

 

 

Economia

JP Morgan: l’oro potrebbe raggiungere i 10.000 dollari

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Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan, ha previsto che l’oro potrebbe raggiungere i 10.000 dollari l’oncia, riacquistando appeal come asset rifugio in un panorama di inflazione persistente e instabilità geopolitiche globali.

 

Il metallo nobile, storicamente visto come una barriera contro l’erosione del potere d’acquisto e la svalutazione delle monete fiat grazie alla sua autonomia da stati e istituti centrali, ha varcato la soglia psicologica dei 4.000 dollari all’inizio di ottobre e ha proseguito il suo rally. Mercoledì ha chiuso con un balzo del 58% da inizio anno, toccando il picco storico di 4.218,29 dollari, più che raddoppiato rispetto al valore del 2023, quando oscillava sotto i 2.000 dollari l’oncia.

 

«Io non investo in oro: possederlo implica costi del 4%», ha dichiarato Dimon martedì alla conferenza «Most Powerful Women» di Fortune a Washington. «Ma in scenari come l’attuale, potrebbe tranquillamente salire a 5.000 o persino 10.000 dollari».

 

Il Dimon ha evidenziato come l’economia mondiale stia affrontando numerose sfide, tra cui tariffe doganali americane, l’espansione del disavanzo pubblico, pressioni inflazionistiche, la transizione verso l’Intelligenza Artificiale e attriti internazionali come la corsa agli armamenti, che inducono gli operatori di mercato a puntare sull’oro per mitigare i pericoli.

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Pur astenendosi dal giudicare se l’oro sia sopravvalutato, Dimon ha ammesso che si tratta di «una delle rare occasioni nella mia carriera in cui ha senso allocarvi una quota nel portafoglio, in modo razionale».

 

Analisti e figure di spicco del settore finanziario condividono vedute analoghe. L’investitore miliardario Ray Dalio ha ribadito martedì che l’oro rappresenta un «ottimo veicolo per diversificare gli investimenti» in un’epoca di debiti sovrani in espansione, conflitti geopolitici ed erosione della fiducia nelle monete nazionali.

 

«Pertanto, in termini di allocazione strategica ottimale, circa il 15% del portafoglio potrebbe essere dedicato all’oro», ha suggerito il Dalio. Un’indagine di Bank of America condotta a ottobre ha rilevato che il 43% dei gestori patrimoniale vede nelle posizioni long sull’oro la strategia più gettonata a livello globale, superando persino gli investimenti nei «Magnifici Sette» colossi tech Usa (Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla).

 

Il fondatore dell’hedge fund Citadel, Ken Griffin, ha di recente notato che sempre più investitori ritengono l’oro più affidabile del dollaro americano, a lungo trattato come riserva di valore universale. Quest’anno, la valuta Usa ha perso terreno contro tutte le principali divise, in scia alle incertezze legate alle politiche protezionistiche del presidente Donald Trump sui dazi.

 

Come riportato da Renovatio 21, dopo mesi e mesi di massimi storici raggiunti, l’oro ha superato l’euro nelle riserve globali.

 

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Economia

Trump: «i BRICS erano un attacco al dollaro»

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«I BRICS sono stati un attacco al dollaro» lo il presidente statunitense Donald Trump durante l’incontro del 14 ottobre alla Casa Bianca con il presidente argentino Javier Milei.   Trump ha sostenuto che, grazie ai dazi imposti ai Paesi BRICS, «questi stanno tutti uscendo dai BRICS» e che ora si sta affermando un «dominio mondiale del dollaro».  

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Rispondendo a una domanda, Trump ha proseguito: «Mi piace il dollaro. E chiunque ami trattare in dollari ha un vantaggio rispetto a chi non lo fa. Ma per la maggior parte, stiamo mantenendo le cose così. Penso che se Biden, intendo quel gruppo, fosse stato eletto [nel 2024], ovvero Kamala, non avreste più il dollaro come valuta. Non avreste avuto un dominio mondiale del dollaro, se non avessi vinto queste elezioni. E ora, chiunque voglia far parte dei BRICS, va bene, ma imporremo dazi alla vostra nazione. Tutti se ne sono andati; stanno tutti uscendo dai BRICS. I BRICS sono stati un attacco al dollaro. E ho detto: “Se volete partecipare a questo gioco, applicherò dazi su tutti i vostri prodotti che entrano negli Stati Uniti”. E come ho detto, stanno tutti uscendo dai BRICS. E dei BRICS, ormai, non ne parlano nemmeno più».   Come riportato da Renovatio 21, Milei, il cui Paese ora aspira a ottenere una linea di swap di emergenza da 20 miliardi di dollari per sostenere l’economia nazionale fino alle elezioni argentine del 26 ottobre, ha rifiutato l’offerta di adesione dell’Argentina ai BRICS tra i primi atti del suo governo.   Il 15 ottobre al portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov è stato chiesto un commento sulle affermazioni di Trump riguardo al presunto ritiro delle nazioni dai BRICS: «per quanto riguarda l’intenzione di tutti i Paesi di uscire, onestamente, non ho informazioni del genere», ha risposto il portavoce del Cremlino.  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia  
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Economia

Stablecoin e derivati cripto minacciano l’equilibrio economico e funzionario

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Il 6 ottobre, l’Institute for New Economic Thinking, un think tank no-profit con sede a New York fondato nel 2009 dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, ha pubblicato un lungo articolo accademico di Arthur E. Wilmarth, professore emerito di diritto alla George Washington University e autore del libro del 2020 Taming the Megabanks: Why We Need a New Glass-Steagall Act.

 

L’articolo, che merita una lettura completa, conferma molte delle analisi sulla pericolosità delle stablecoin e sul GENIUS Act (Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins Act), una legge federale degli Stati Uniti che mira a creare un quadro normativo completo per le stablecoin.

 

«Il GENIUS Act autorizza le società non bancarie a emettere stablecoin non assicurate al pubblico, senza le garanzie essenziali fornite dall’assicurazione federale sui depositi e dalle normative prudenziali che disciplinano le banche assicurate dalla FDIC. Inoltre, il GENIUS Act conferisce alle autorità di regolamentazione federali e statali ampia autorità per consentire agli emittenti di stablecoin non bancarie di vendere al pubblico derivati ​​crittografici ad alta leva finanziaria e altri investimenti speculativi in ​​criptovalute» scrive lo Wilmarth.

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«Le stablecoin sono utilizzate principalmente come strumenti di pagamento per speculare su criptovalute con valori fluttuanti, con circa il 90% dei pagamenti in stablecoin collegati a transazioni in criptovalute. Le stablecoin sono anche ampiamente utilizzate per condurre transazioni illecite. Nel 2023, le stablecoin sono state utilizzate come strumenti di pagamento per il 60% delle transazioni illegali in criptovaluta (tra cui truffe, ransomware, evasione dei controlli sui capitali, riciclaggio di denaro ed evasione fiscale) e per l’80% di tutte le transazioni in criptovaluta condotte da regimi sanzionati e gruppi terroristici».

 

«Più di 20 stablecoin sono crollate tra il 2016 e il 2022» dichiaro lo studioso nell’articolo.

 

«Quando un gran numero di investitori si trova improvvisamente costretto a liquidare le proprie stablecoin, deve fare affidamento sulla capacità degli emittenti e degli exchange di stablecoin di riscattare rapidamente le stablecoin al valore “ancorato” di 1 dollaro per moneta. Il GENIUS Act consente agli emittenti di stablecoin non bancari di detenere tutte o la maggior parte delle loro riserve in strumenti finanziari non assicurati, come depositi bancari non assicurati, fondi del mercato monetario (MMF) e accordi di riacquisto (repos).

 

«Il GENIUS Act consente inoltre agli emittenti di stablecoin non bancari di vendere al pubblico una gamma potenzialmente illimitata di derivati ​​crypto e altri investimenti in criptovalute approvati dalle autorità di regolamentazione federali e statali come “accessori” alle attività dei fornitori di servizi di criptovalute. I derivati ​​crittografici, inclusi futures, opzioni e swap, rappresentano circa tre quarti di tutta l’attività di trading di criptovalute e la maggior parte delle negoziazioni di derivati ​​crittografici avviene su borse estere non regolamentate. I contratti futures crittografici perpetui consentono agli investitori di effettuare scommesse a lungo termine con elevata leva finanziaria sui movimenti dei prezzi delle criptovalute senza possedere le criptovalute sottostanti».

 

«L’esplosione di derivati ​​crittografici ad alto rischio e di altri investimenti crittografici rischiosi è gonfiare una bolla crypto “Subprime 2.0” generando molteplici scommesse ad alto rischio su cripto-asset estremamente volatili, privi di asset tangibili sottostanti o flussi di cassa indipendenti» avverte lo Wilmarth. «Ciò causerà quasi certamente un crollo simile, con potenziali effetti devastanti sul nostro sistema finanziario e sulla nostra economia. Le agenzie federali saranno molto messe alle strette per contenere un simile crollo con salvataggi paragonabili a quelli del 2008-09 e del 2020-21».

 

«Dato l’enorme debito del governo federale, l’attuazione di tali salvataggi innescherà probabilmente una crisi nel mercato dei titoli del Tesoro e un significativo deprezzamento del dollaro statunitense» conclude lo studioso.

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