Arte
Kiev vieta la «cultura russa»
Il consiglio comunale di Kiev ha votato per imporre un’ampia moratoria sulle esposizioni pubbliche di «prodotti culturali» realizzati utilizzando la lingua russa, citando il conflitto armato con Mosca. Lo riporta il sito russo RT.
«Dobbiamo limitare una volta per tutte i prodotti culturali in lingua russa sul territorio della capitale dell’Ucraina», ha detto giovedì Vadim Vasilchuk, presidente della commissione per l’istruzione e la cultura del consiglio, definendo il russo «la lingua dello stato aggressore che non ha posto nel cuore della nostra capitale».
Vasilchuk ha spiegato che la decisione comporta un divieto effettivo di «libri, opere d’arte, prodotti audiovisivi, registrazioni musicali, arti e mestieri, spettacoli teatrali e circensi, concerti e servizi».
La sentenza fa parte di una più ampia campagna sponsorizzata dallo stato per sradicare i legami storici e culturali con la Russia iniziata in Ucraina dopo che nel 2014 la Crimea ha votato per unirsi alla Russia in seguito al colpo di stato di Kiev sostenuto dall’Occidente. Il movimento si è intensificato nel 2022, quando Mosca ha lanciato la sua operazione militare in Ucraina.
Nel 2015, il parlamento ucraino, la Verkhovna Rada, ha approvato una legge sulla «decomunistizzazione» volta a rimuovere l’eredità dell’Unione Sovietica da spazi pubblici come monumenti e nomi di strade e città. In pratica, la campagna ha preso di mira tutto ciò che è lontanamente russo, dai film e programmi TV ai singoli artisti.
Nell’aprile 2023, il presidente Volodymyr Zelens’kyj ha firmato una legge che vietava nomi e simboli associati alle «politiche imperiali russe».
Mosca ha ripetutamente condannato i tentativi di Kiev di prendere di mira i secoli di storia condivisa. Il presidente Vladimir Putin ha citato «la de-russificazione e l’assimilazione forzata» dei russi etnici e di lingua russa in Ucraina e nel Donbass come una delle cause dell’attuale conflitto.
Putin ha anche lanciato attacchi contro la cultura russa in Ucraina e in Occidente, sottolineando che è stata una parte inalienabile della cultura europea. «Quando qualcuno sta cercando di distruggere la cultura russa, è un tentativo di suicidio, perché sta distruggendo se stesso», ha detto Putin all’inizio di questo mese.
Ad inizio conflitto Putin aveva citato, a riprova di questo pensiero, l’opera di un writer napoletano che in quei giorni aveva prodotto un grande murales con il ritratto del genio russo Fedor Dostoevskij. Per le strade di Mosca, in quei giorni in cui era partita la campagna contro la cultura russa, erano apparsi cartelli che dicevano che la Russia mai avrebbe proibito di suonare le opere Giuseppe Verdi – mentre compositori, direttori d’orchestra e cantanti russi venivano banditi dai teatri occidentali, con esempi drammatici anche in Italia.
Come riportato da Renovatio 21, la Strategia per la Sicurezza Nazionale Russa pubblicata ancora due anni fa parlava di difesa «contro gli attacchi ai «valori spirituali, morali, culturali e storici tradizionali» generati da Stati sovrani, ONG o gruppi terroristici.
Da notare come l’attacco contro la cultura sia superato da quello portato da Kiev contro la religione: nella repressione continua della chiesa ortodossa di Ucraina canonica (detta UOC), il regime Zelens’kyj si è spinto a vietare le preghiere in russo.
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Attrici giapponesi che si vestono da uomini bullizzano collega fino a spingerla al suicidio
Dal Giappone arriva l’eco di un episodio di bullismo e violenza sistematica sfociati in un suicidio all’interno di una struttura esclusivamente femminile. Una sorta di suicidio femminicida, ma ad opera di femmine.
Teatro della vicenda è per il corpo teatrale Takarazuka, un’istituzione più che secolare nel mondo dello spettacolo giapponese. Il concetto alla base del corpo teatrale è che sono soltanto attrici a salire in scena, interpretando anche i ruoli maschili. Tale idea, di per sé spiazzante, inverte completamente la tradizione del teatro tradizionale Kabuki, dove sono gli attori maschi a ricoprire tutti i ruoli.
Gli spettacoli del Takarazuka sono tuttavia distanti anni luce dal rigido formalismo del Kabuki: qui si tratta di musical che attingono dalle fonti più disparate, da West Side Story all’Evgenij Onegin, spesso spingendo a tavoletta su elementi che qualche anno fa si definivano camp o kitsch, in italiano lo si potrebbe semplicemente chiamare «pacchianeria», benché estremamente professionale e ben fatta.
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Il seguito che hanno questi spettacoli nel contesto nipponico è impressionante, ancora di più perché per la grandissima maggioranza femminile: lo scrivente ricorda di essersi imbattuto in una lunghissima coda in attesa di entrare nel teatro di Tokyo – in zona centralissima, vicino al palazzo imperiale – dove si esibisce la compagnia. Si poteva constatare che gli uomini tra la folla erano appena una manciata.
Un ambiente quindi quasi completamente femminile, al sicuro da patriarcato e maschilismo tossico.
E allora, come si spiegano allora vessazioni di gruppo, ustioni procurate con le piastre per i capelli, carichi di lavoro insostenibili assegnati al solo scopo di umiliare e di lasciare soltanto tre ore di sonno al giorno? È questa l’ordalia che ha portato la 25enne Aria Kii a gettarsi nel vuoto per porre fine alla sua vita nel settembre del 2023.
La vicenda era stata prontamente insabbiata dall’azienda che gestisce la compagnia teatrale ma è stata riportata a galla dall’ineffabile Shuukan Bunshun, testata con una lunga e gloriosa tradizione di caccia agli scheletri negli armadi. Nella primavera di quest’anno i dirigenti dell’azienda in questione hanno pubblicamente ammesso la loro responsabilità nel non essere stati in grado di vigilare adeguatamente l’ambiente lavorativo delle attrici.
Duole dire che per la società giapponese uno scenario così è tutto fuorché inconsueto: il proverbio «il chiodo che sporge verrà martellato» illustra ancora con una certa fedeltà le dinamiche sociali che si formano all’interno delle istituzioni giapponesi – siano esse scuole, aziende, partiti.
Negli ultimi tempi c’è un evidente cambiamento in atto soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, ma il bullismo allo scopo di creare coesione all’interno di un gruppo è una pratica a cui i giapponesi ricorrono abitualmente e che non sembra soffrire di particolare disapprovazione sociale.
Dal Giappone ci chiediamo con sincerità come un giornalista italiano – di area woke, ma anche solo attento a seguire i dettami del politicamente corretto elargiti ai corsi di deontologia dell’Ordine – potrebbe riportare la notizia della triste morte di Aria, con lo stuolo di angherie subite in un contesto esclusivamente femminile.
Taro Negishi
Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo
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Lucerna annulla il concerto della Netrebko, Berlino la invita a cantare
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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»
La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.
Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.
A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.
La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.
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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».
Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…
«Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.
Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.
Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape”» (cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».
Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.
Va così, perfino nella musica classica.
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