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COVID-19 e Vitamina D: ci stiamo perdendo qualcosa?

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense.

 

Come abbiamo fatto altre volte, per esempio con l‘acido ascorbico (Vitamina C), diamo il consiglio di procurarvi come potete le vitamine di cui si parla, come la Vitamina D, e farne scorta, fermo restando che riportiamo questo articolo per la vostra informazione ed intrattenimento, non siamo medici e che l’assunzione di qualsiasi farmaco o anche integratore dovrebbe essere prima discussa minuziosamente con il vostro medico curante. Come potete leggere in fondo all’articolo, «La vitamina D ha una potenziale tossicità ad alti livelli tra cui ipercalcemia e calcoli renali».

 

Oltre a sentire il vostro medico, vi invitiamo a leggere la pagina dell’Istituto Superiore di Sanità italiano relativa alle Vitamine: «La carenza di vitamina D comporta il rischio di rachitismo nei bambini, con conseguente deformazione delle ossa e arresto della crescita, e di osteomalacia negli adulti, una intensa forma di decalcificazione ossea. Un eccesso di vitamina D, al contrario, può causare calcificazioni diffuse negli organi, contrazioni e spasmi muscolari, vomito, diarrea. La normale esposizione ai raggi del sole è sufficiente a coprire il fabbisogno di vitamina D negli adulti, e va quindi assunta solo durante la fase di accrescimento e durante la gravidanza e l’allattamento. In questi casi l’assunzione dovrebbe essere di 10µg al giorno come integratore, vista la scarsa presenza di vitamina D negli alimenti, con l’eccezione dell’olio di fegato di merluzzo.
».

 

 

[Nota CHD: Con gli Stati Uniti in gran parte chiusi e le morti per COVID-19 in aumento, vogliamo condividere le seguenti informazioni e domande con i nostri lettori. Si prega di condividere ampiamente sui social media, in particolare con gli operatori sanitari in prima linea, i funzionari del governo e chiunque possa essere interessato a studiare la Vitamina D e i coronavirus.]

 

 

La vitamina D è un ormone steroideo liposolubile che regola oltre 200 geni nel corpo umano

Introduzione

La letteratura sul ruolo della vitamina D sul sistema immunitario è esplosa negli ultimi 10 anni, in particolare il suo effetto sulle infezioni virali e i disturbi autoimmuni. Circa l’80% della letteratura è degli ultimi dieci anni e gran parte è stata pubblicata all’estero. Ci sono studi che dimostrano che un sufficiente apporto di vitamina D contribuisce a ridurre la mortalità nei pazienti che necessitano di ventilazione. Esiste una vasta e crescente letteratura sul ruolo della vitamina D nella prevenzione delle infezioni virali e nella riduzione della loro gravità.

 

Le fasce di popolazione maggiormente a rischio di contrarre forme gravi di COVID-19 (anziani e soggetti con problematiche di salute pregresse) e i tempi dell’epidemia (fine dell’inverno nell’emisfero settentrionale quando i livelli di vitamina D della popolazione sono generalmente più bassi) sono coerenti con uno stato generale di carenza di vitamina D, fattore di rischio per il COVID-19. La percentuale relativamente bassa di infezioni nei bambini può essere motivata da un maggiore consumo di latte, alimento arricchito con vitamine A e D. La vitamina D è sia una vitamina sia un ormone steroideo che ricopre una vasta gamma di ruoli nei nostri corpi.

 

Le fasce di popolazione maggiormente a rischio di contrarre forme gravi di COVID-19 (anziani e soggetti con problematiche di salute pregresse) e i tempi dell’epidemia (fine dell’inverno nell’emisfero settentrionale quando i livelli di vitamina D della popolazione sono generalmente più bassi) sono coerenti con uno stato generale di carenza di vitamina D, fattore di rischio per il COVID-19

Uno studio del 2018 basato sui dati NHANES del 2001-2010 ha rilevato che il 28,9% degli adulti americani era carente di vitamina D (siero 25 (OH) D <20 ng / ml) e un ulteriore 41,4% degli adulti americani presentava un apporto insufficiente (siero 25 (OH) D tra 20 ng/ml e 30 ng/ml).

 

Gli americani di colore, i meno istruiti, i poveri, gli obesi, i fumatori, i sedentari e i consumatori sporadici di latte e derivati sono coloro che presentano una forte carenza di vitamina D.

 

Quelli con disturbi intestinali (Morbo di Crohn o celiachia) che non assumono una quantità sufficiente di vitamina D tramite l’alimentazione e quelli con malattie epatiche o renali, il cui corpo presenta una capacità ridotta di convertire la vitamina D nella sua forma attiva, possono altresì essere soggetti ad un aumentato rischio di carenza indipendentemente dall’età. La vitamina D è un ormone steroideo liposolubile che regola oltre 200 geni nel corpo umano.

 

 

Domande che richiedono risposte

Sulla base dell’ampiezza della ricerca sulla vitamina D nei disturbi respiratori acuti e delle numerose infezioni virali in cui lo stato della vitamina D svolge un ruolo importante, è necessario rispondere alle seguenti domande:

 

  • I pazienti ospedalizzati per COVID-19 presentano carenza di vitamina D (livelli sierici 25 (OH) D <20 ng / ml) o insufficienza (livelli tra 20 ng / ml e 30 ng / ml)?
  • I pazienti ospedalizzati con COVID-19 presentano carenze di vitamina D maggiori di quanto ci si aspetterebbe dai controlli?
  • La maggior parte dei pazienti ospedalizzati in COVID-19 che necessitano di terapia intensiva hanno carenza di vitamina D?
  • Somministrare alte dosi di vitamina D ai pazienti COVID-19 riduce la necessità di ventilazione meccanica e/o il tempo per cui si rende necessaria?
  • Somministrare alte dosi di vitamina D agli operatori sanitari riduce il rischio di contrare il COVID-19?
  • Se si riscontra una carenza di vitamina D nei pazienti COVID-19 gravi, quale raccomandazione dovrebbe essere fatta al pubblico, in particolare a quelli che si trovano in quarantena e/o combattono l’infezione a casa?

 

Mentre solo il tempo e gli studi daranno risposte definitive a queste domande, i test sulla vitamina D sono facilmente accessibili, gli integratori sono economici nell’ambito della terapia intensiva COVID-19 dovremmo considerare qualsiasi cosa che possa ridurre il numero di casi, ricoveri e decessi. Anche una riduzione del 10% in una di queste categorie avrebbe un impatto notevole.

 

 

I test sulla vitamina D sono facilmente accessibili, gli integratori sono economici nell’ambito della terapia intensiva COVID-19 dovremmo considerare qualsiasi cosa che possa ridurre il numero di casi, ricoveri e decessi

La letteratura sostiene l’importanza di un apporto sufficiente di vitamina D

Ci sono studi che suggeriscono che una quantità sufficiente di vitamina D riduce il rischio di infezioni respiratorie acute. Inoltre, la letteratura sostiene l’importanza della vitamina D nel ridurre la morbilità e la mortalità in contesti di terapia intensiva. Quanto segue è un esempio della letteratura.

 

Un articolo del 2017 apparso sul BMJ afferma quanto segue: «Sono stati identificati 25 studi controllati randomizzati idonei (per un totale di 11.321 partecipanti, da 0 a 95 anni di età)… L’integrazione di vitamina D ha ridotto il rischio di infezione acuta del tratto respiratorio tra tutti i partecipanti (odds ratio corretto 0,88, intervallo di confidenza al 95% da 0,81 a 0,96; P per eterogeneità <0,001).”Gli effetti protettivi sono stati maggiori in coloro che erano carenti (livelli sierici <25 nmol / L = 10 ng / ml) e in coloro che assumevano vitamina D regolarmente (su base giornaliera o settimanale) rispetto a dosi elevate di bolo».

 

La letteratura sostiene l’importanza della vitamina D nel ridurre la morbilità e la mortalità in contesti di terapia intensiva

Un altro articolo del 2018 , riferito in particolare ai contesti di terapia intensiva, suggerisce che i risultati non significativi in alcuni grandi studi sull’integrazione di vitamina D sono probabilmente il risultato dell’inclusione negli studi di soggetti che presentano un apporto sufficiente di vitamina D e non escludono gli integratori di vitamina D nei gruppi di controllo.

 

Gli autori hanno chiarito che «tre diverse meta-analisi confermano che i pazienti con basso livello di vitamina D trascorrono una degenza più lunga in terapia intensiva e presentano un aumento della morbilità e della mortalità» e che «questo ormone svolge un importante ruolo pleiotropico (ha più di un effetto) nel contesto di malattie critiche e può favorire il recupero da una grave malattia acuta».

 

Un piccolo studio iraniano del 2019 ha raccomandato studi di follow-up più ampi dopo aver randomizzato 44 pazienti adulti ventilati meccanicamente a 300.000 UI di vitamina D rispetto al placebo. Lo studio ha riscontrato una riduzione significativa della mortalità (61,1% contro 36,3%) e una riduzione non significativa di 10 giorni sul tempo di ventilazione.

 

In uno studio pilota di follow-up del 2018 hanno scoperto che in pazienti critici e ventilati, con carenza di vitamina D e anemia, la vitamina D ad alte dosi ha aumentato l’emoglobina

Inoltre, un gruppo di ricerca di Emory ha pubblicato uno studio pilota nel 2016 che ha mostrato che alte dosi di vitamina D contribuivano a ridurre la degenza ospedaliera dei pazienti in terapia intensiva ventilati. In uno studio pilota di follow-up del 2018 hanno scoperto che in pazienti critici e ventilati, con carenza di vitamina D e anemia, la vitamina D ad alte dosi ha favorito l’aumento di emoglobina.

 

Uno studio del 2017 ha scoperto che «l’ integrazione mensile di alte dosi di vitamina D3 ha ridotto l’incidenza di ARI (infezioni respiratorie acute) negli anziani presenti nelle unità di lunga degenza, ma è stata associata a un maggiore tasso di cadute senza un aumento delle fratture».

 

Uno studio del 2015 pubblicato su Thorax ha scoperto che la carenza di vitamina D era comune nei pazienti che avevano sviluppato sindrome da distress respiratorio acuto in seguito a esofagectomia.

 

Uno studio del 2018 sull’Indian Journal of Anesthesia non ha riportato risultati significativi nei pazienti sottoposti a respirazione meccanica sulla base della carenza o sufficienza di vitamina D al momento del ricovero, ma ciò era probabilmente dovuto alla ridotta dimensione del campione. Le tendenze per i giorni in terapia intensiva, giorni di ventilazione meccanica, giorni di prove di respirazione spontanea e mortalità a 30 giorni sono state tutte più favorevoli nel gruppo con sufficiente apporto di vitamina D.

 

In un altro studio iraniano del 2018 condotto su 46 pazienti con carenza di vitamina D e polmonite associata alla ventilazione meccanica, una singola dose di 300.000 UI di vitamina D rispetto al placebo ha ridotto significativamente i livelli sierici di IL-6 e ha ridotto significativamente la mortalità. L’IL-6 è una citochina che si trova in quantità elevate nella sindrome da distress respiratorio acuto.

 

A differenza degli studi riportati sopra, un ampio studio austriaco del 2014 su 492 pazienti gravemente malati con carenza di vitamina D non ha mostrato risultati significativi con l’integrazione di vitamina D per la maggior parte delle sue misure di esito. L’unico risultato significativo è stata la riduzione della mortalità ospedaliera nel sottogruppo con gravi carenze di vitamina D.

 

Tuttavia, questa popolazione di studio comprendeva pazienti chirurgici, neurologici e medici ed è possibile che la vitamina D sia rilevante solo per le infezioni respiratorie. Inoltre, lo studio non ha riportato eventi avversi gravi dopo la somministrazione di dosi molto elevate di vitamina D in una popolazione in condizioni critiche.

 

Uno studio sui ratti del 2017 ha dimostrato che il pretrattamento con calcitriolo (la forma attiva della vitamina D) ha ridotto il danno polmonare acuto indotto dai lipopolisaccaridi modulando il sistema renina-angiotensina. ACE e ACE2 fanno parte di questo sistema e ACE2 è il sito di legame di SARS-CoV2 sulle cellule.

 

È in corso un dibattito irrisolto sul fatto che gli inibitori della conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) usati per trattare la pressione sanguigna e le condizioni cardiache aumentino o diminuiscano il rischio di infezione da SARS-CoV2. Come la carenza di vitamina D potrebbe adattarsi a questa discussione rimane una domanda aperta.

 

 

È interessante notare che uno studio caso-controllo del 2018 su 532 lavoratori giapponesi ha scoperto che in un sottogruppo di partecipanti senza vaccinazione, la sufficienza di vitamina D era associata a un rischio significativamente più basso di influenza

Ricerche sulla vitamina D in altre infezioni virali

La carenza di vitamina D è stata studiata in molti virus e, generalmente, livelli sufficienti di vitamina D portano a tassi più bassi di infezione e una riduzione della gravità. Questa ricerca è una combinazione di studi in vitro e in vivo. Non esiste una letteratura specifica sui coronavirus, quindi abbiamo cercato ricerche sulla vitamina D in altre infezioni virali tra cui influenza, HIV, Dengue, Epstein Barr, epatite B ed epatite C. Seguono alcuni esempi:

 

Uno studio cinese del 2018 su due diversi dosaggi di vitamina D somministrati a 400 neonati ha mostrato un rischio significativamente più basso di influenza A, riduzione della carica virale e riduzione della durata dei sintomi nel gruppo con la dose più alta.

 

Uno studio simile risalente al 2010 su scolari giapponesi ha scoperto che 1200 UI/die di vitamina D hanno ridotto le infezioni da influenza A dal 18,6% nel gruppo placebo al 10,8% nel gruppo che assumeva vitamina D. I bambini con asma che ricevevano integrazione presentavano anche un rischio ridotto di attacchi di asma.

 

È interessante notare che uno studio caso-controllo del 2018 su 532 lavoratori giapponesi ha scoperto che “in un sottogruppo di partecipanti senza vaccinazione, la sufficienza di vitamina D (≥30 ng / mL) era associata a un rischio significativamente più basso di influenza (odds ratio 0,14; confidenza al 95% intervallo 0,03-0,74)”.

 

La carenza di vitamina D è stata studiata in molti virus e, generalmente, livelli sufficienti di vitamina D portano a tassi più bassi di infezione e una riduzione della gravità

Uno studio del 2018 sui giovani con HIV ha mostrato che la vitamina D ad alte dosi ha attenuato l’attivazione immunitaria e la spossatezza causata dalla terapia antiretrovirale.

 

Uno studio del 2016 su 466 neonati sudafricani (metà infetti da HIV) ha scoperto che bassi livelli di vitamina D e SNP su alcuni geni aumentavano il rischio di tubercolosi e morte.

 

Un articolo del 2018 sulla vitamina D negli stati di infezione da HIV riporta: «Alti livelli di espressione di Vitamina D e VDR sono anche associati alla resistenza naturale all’infezione da HIV-1. Per contro, la carenza di Vitamina D è collegata a maggiore infiammazione e attivazione immunitaria, bassa conta delle cellule T CD4+ nel sangue periferico, progressione più rapida della malattia da HIV e tempi di sopravvivenza più brevi nei pazienti con infezione da HIV»

 

Un articolo del 2018: «Alti livelli di espressione di Vitamina D e VDR sono anche associati alla resistenza naturale all’infezione da HIV-1. Per contro, la carenza di Vitamina D è collegata a maggiore infiammazione e attivazione immunitaria, bassa conta delle cellule T (…)  progressione più rapida della malattia da HIV e tempi di sopravvivenza più brevi nei pazienti con infezione da HIV»

Un piccolo studio del 2020 su pazienti sani ha mostrato che una dose maggiore di vitamina D riduceva la suscettibilità all’infezione da DENV-2 (dengue) nelle cellule del sangue. Uno studio del 2017  sui macrofagi derivati da monociti umani ha scoperto che «DENV si legava in modo meno efficiente ai macrofagi differenziati con vitamina D3, causando una minore infezione».

 

La situazione di carenza di vitamina D e infezione da virus di Epstein-Barr nella sclerosi multipla recidivante/remittente (RRMS) è più sfumata. Sebbene ciascuno di essi sia un fattore di rischio indipendente per la RRMS, studi recenti hanno scoperto che l’integrazione di vitamina D ad alte dosi ha portato a livelli di anticorpi significativamente inferiori a EBNA-1. In questo caso, i livelli inferiori di anticorpi comportano un minor rischio di recidiva e di nuove lesioni alla risonanza magnetica.

 

Una meta-analisi del 2019 degli studi sullo stato della vitamina D nelle infezioni croniche da epatite B ha scoperto che «i livelli di vitamina D erano più bassi nei pazienti affetti da epatite cronica B e inversamente correlati alla carica virale».

 

Uno studio israeliano del 2018 ha scoperto che l’epatite B trasfettava le cellule tumorali del fegato sottoregolando i recettori della vitamina D per consentire al virus di replicarsi.

 

La scorsa settimana, l’ex direttore del CDC, il dott. Tom Frieden, ha suggerito che la vitamina D potrebbe ridurre le infezioni da coronavirus

In uno studio israeliano del 2012, l’aggiunta di vitamina D alla terapia antivirale standard nei pazienti con infezione da epatite C cronica ha migliorato la risposta virale.

 

Uno studio del 2015 su bambini egiziani  affetti da epatite C ha scoperto che i casi trattati con vitamina D e antivirali hanno mostrato una “risposta virologica precoce e prolungata” significativamente più elevata rispetto ai controlli.

 

Bisognerebbe considerare un fattore aggiuntivo. I polimorfismi a singolo nucleotide che influenzano la funzione del recettore della vitamina D e il metabolismo della vitamina D nella sua forma attiva influiscono sulla sufficienza, quindi identificare i pazienti con quei polimorfismi aiuterà a identificare quelli a maggior rischio di carenza di vitamina D. Esiste anche una letteratura emergente su questi fattori genetici.

 

La scorsa settimana, l’ex direttore del CDC, il dott. Tom Frieden, ha suggerito che la vitamina D potrebbe ridurre le infezioni da coronavirus.

 

Speriamo che questo articolo convincerà medici e ricercatori a esaminare più da vicino la vitamina D come potenziale opzione preventiva e terapeutica. Come abbiamo affermato in un nostro recente video, riteniamo che le scarse risorse di cui disponiamo dovrebbero essere concentrate sulla ricerca di cure più che su un vaccino che potrebbe non arrivare mai.

Riteniamo che le scarse risorse di cui disponiamo dovrebbero essere concentrate sulla ricerca di cure più che su un vaccino che potrebbe non arrivare mai

 

Infine, un avvertimento

Questo non è un consiglio medico e non dovreste assumere alte dosi di vitamina D senza consultare il medico curante, in particolare se avete patologie pregresse. La vitamina D ha una potenziale tossicità ad alti livelli tra cui ipercalcemia e calcoli renali. Una dose giornaliera di 800 UI – 2000 UI di vitamina D è generalmente considerata sicura e sarà sufficiente nella maggior parte delle persone, ma di più non è necessariamente meglio.

 

Le informazioni del NIH [Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti d’America, ndr] sul dosaggio di vitamina D e le interazioni farmacologiche sono disponibili qui. [qui invece trovate informazioni dall’ISS italiano, fermo restando che dovete discuterne con il vostro medico curante, ndr]

 

Questo non è un consiglio medico e non dovreste assumere alte dosi di vitamina D senza consultare il medico curante, in particolare se avete patologie pregresse

Si prega di condividere queste informazioni.

 

 

Katie Weisman e il Team di CHD

 

 

Traduzione di Alessandra Boni

 

 

© 7 aprile 2020, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD

 

 

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Epidemie

La Russia sottoporrà a test per l’epatite tutti i lavoratori immigrati. E l’Italia?

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A partire da marzo 2026, la Russia imporrà ai lavoratori migranti di sottoporsi a test per l’epatite B e C, ampliando le attuali disposizioni di screening medico. Le nuove regole si applicheranno ai cittadini stranieri e agli apolidi che entrano in Russia per lavoro, oltre a coloro che richiedono lo status di rifugiato o asilo temporaneo.

 

Le visite mediche sono obbligatorie per i migranti: senza di esse, non è possibile ottenere permessi di lavoro, residenza temporanea o permanente. I lavoratori migranti devono completare gli esami entro 30 giorni dall’arrivo, mentre chi non intende lavorare ha 90 giorni di tempo. Attualmente, gli screening includono test per droghe e malattie gravi come HIV, tubercolosi, sifilide e lebbra.

 

Le modifiche al processo di controllo sanitario per gli stranieri in visita sono state proposte all’inizio dell’anno da un gruppo di lavoro sulle politiche migratorie, guidato dalla vicepresidente della Duma di Stato, Irina Yarovaya. La vicepresidente ha chiarito che l’obiettivo è rafforzare il monitoraggio sanitario degli stranieri in arrivo e prevenire la diffusione di malattie pericolose.

 

I lavoratori migranti sono fondamentali per l’economia russa, occupando ruoli chiave in settori come edilizia, agricoltura e servizi. Milioni di migranti, soprattutto dall’Asia centrale, sono attratti da salari più alti rispetto ai loro paesi d’origine. Tuttavia, questo afflusso ha sollevato dibattiti su salute pubblica e stabilità sociale. Per questo, le autorità russe hanno introdotto rigidi controlli sanitari e requisiti per i migranti, cercando di bilanciare i benefici economici con la sicurezza sanitaria.

 

Nell’ultimo anno, la Russia ha anche intensificato la lotta contro l’immigrazione illegale. Il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che istituisce una nuova agenzia statale all’interno del Ministero dell’Interno, incaricata di migliorare la gestione dei flussi migratori.

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Il Cremlino ha dichiarato che l’iniziativa punta a razionalizzare il processo migratorio, promuovere il rispetto delle leggi russe tra i migranti e ridurre le attività illegali.

 

In Italia la situazione epidemiologica dell’immigrazione è un grande tabù del discorso pubblico.

 

«In base ai dati epidemiologici in nostro possesso, risulta che in Italia il 34,3% delle persone diagnosticate come HIV positive è di nazionalità straniera» diceva in un’intervista a Renovatio 21 il dottor Paolo Gulisano sette anni fa. «Considerato che gli stranieri rappresentano circa il 10% della popolazione italiana, questo dato vuole dire che la diffusione dell’HIV tra gli stranieri è oltre il triplo che negli italiani».

 

«Un dato che fa pensare. Molti immigrati provengono da Paesi dove la diffusione dell’HIV, così come quella della TBC, è molto più alta che in Europa. Basta far parlare i dati. Il numero dei decessi correlati all’AIDS nel 2016 per grandi aree è il seguente: Africa Sud-Orientale: 420 mila; Africa Centro-Orientale: 310 mila; Nord Africa e Medio Oriente: 11 mila; America Latina: 36 mila, più il dato dei soli Caraibi che è di 9400. Europa dell’Est e Asia centrale: 40 mila; Europa Occidentale e Nord America: 18 mila; Asia e Pacifico: 170 mila. Ora, la lettura di questi numeri ci fornisce delle evidenze molto chiare».

 

«È quindi chiaro quali siano i rischi di una immigrazione di massa, incontrollata anche dal punto di vista sanitario, e i rischi legati al fatto che un numero impressionante di immigrate africane viene gettato nel calderone infernale della prostituzione, che diventa veicolo di diffusione di malattie veneree».

 

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Epidemie

Paura e profitto, dall’AIDS al COVID

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton ha paragonato la pandemia di COVID-19 all’epidemia di AIDS, definendola una «seconda versione» della stessa narrazione sulla salute pubblica. Entrambe le epidemie includevano l’uso improprio dei test PCR, la soppressione di scienziati dissenzienti e le motivazioni finanziarie alla base del «terrore della peste», ha affermato Shenton in un’intervista con Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense, su CHD.TV.   La pandemia di COVID-19 è stata un evento che si verifica una volta ogni secolo o ha avuto parallelismi nella storia recente? Per la regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton, la pandemia è stata la «seconda ripresa» dell’epidemia di AIDS.   «È stato così angosciante dover affrontare il COVID», ha detto Shenton a Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense (CHD), durante un’intervista di lunedì su CHD.TV. «Se solo avessimo potuto vincere la battaglia contro l’AIDS, non avremmo avuto il COVID».   Shenton, produttore del documentario del 2011 Positivamente Falso: Nascita di un’eresia e autore del libro del 1998 «Positively False: Exposing the Myths around HIV and AIDS», si è unito alla Holland per discutere delle somiglianze tra l’epidemia di COVID-19 e quella di AIDS.   Entrambe le epidemie includono l’uso inappropriato dei test PCR per determinare l’infezione, la somministrazione di trattamenti medici che si sono rivelati mortali per molti pazienti, il coinvolgimento di personaggi come il dottor Anthony Fauci e le ripercussioni affrontate dagli scienziati che hanno messo in discussione la narrazione dominante, ha affermato Shenton.   «Una delle cose straordinarie e sorprendenti di tutto questo… è quanto siano simili molte delle dinamiche dell’epidemia di AIDS a quelle dell’epidemia di COVID», ha affermato Shenton.   Secondo Shenton, le risposte all’AIDS e al COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», una strategia «utilizzata da organizzazioni che guadagnano enormi quantità di denaro attraverso le malattie infettive, definendo le cose infettive».   Shenton ha affermato di pensare che il suo documentario avrebbe contribuito a cambiare la narrazione dominante sull’AIDS, ma non è riuscito a superare i potenti interessi che traggono profitto dallo status quo.   «Spesso pensavamo che avremmo cambiato il mondo, ma non è così», ha detto Shenton.   Tuttavia, il documentario ha prodotto un archivio di 35 anni di studi scientifici, interviste video e altri documenti. Shenton ha donato la biblioteca informativa al CHD.   «Metteremo a disposizione un archivio delle sue migliaia e migliaia di pagine sull’AIDS», ha affermato Holland. Si prevede che i documenti saranno accessibili nei prossimi mesi.

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Le opinioni dissenzienti sull’AIDS «abilmente represse per decenni»

Shenton era una reporter della BBC, l’emittente pubblica nazionale del Regno Unito, quando sviluppò il lupus indotto da farmaci, dopo essere stata sottoposta a un’eccessiva terapia farmacologica in Spagna negli anni ’70.   «Mi hanno dato tutto quello che c’era scritto nel libro», ha detto Shenton. «Certo, sono imploso e mi sono sentito gravemente male. Sono stato al Westminster Hospital per due mesi. Sono quasi morto».   L’esperienza ha suscitato in lei l’interesse per le indagini sulle lesioni causate dai trattamenti medici.   In seguito è entrata a far parte dell’emittente nazionale britannica Channel 4, producendo una serie di documentari, Kill or Cure. La serie si concentrava sulla riluttanza delle grandi aziende farmaceutiche a ritirare trattamenti pericolosi o inefficaci. «Quello mi ha davvero dato la carica», ha detto Shenton.   Nei primi anni ’80, Shenton e il suo produttore vennero a conoscenza della ricerca del dottor Peter Duesberg, un biologo molecolare tedesco che sosteneva che l’HIV non causava l’AIDS.   Iniziò a mettere in discussione le narrazioni dominanti. «Abbiamo continuato a realizzare 13 documentari sull’AIDS», ha detto Shenton.   Il documentario Positively False si concentra sulla «manipolazione delle aziende farmaceutiche e delle organizzazioni [mediche] interessate in tutto il mondo, che manipolano il terrore della peste», ha affermato Shenton.   Il film rivela «la scienza imperfetta che circonda l’AIDS e le conseguenze di seguire ipotesi sbagliate», ha affermato Shenton nell’introduzione. Tra queste, la convinzione che l’AIDS sia infettivo, che sia causato dall’HIV e che l’HIV sia contagioso.   «Molti scienziati e ricercatori non sono d’accordo. Queste opinioni sono state abilmente represse per decenni dall’ortodossia scientifica prevalente e dai media mainstream», ha affermato Shenton nel documentario.   I ricercatori che mettevano in discussione la narrazione dominante sull’HIV/AIDS sono stati repressi e messi a tacere, così come gli scienziati che mettevano in discussione la narrazione prevalente sul COVID-19, ha affermato Shenton.

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Test PCR «completamente inutili» per AIDS e COVID

In entrambi i focolai, sono stati utilizzati test PCR per determinare l’infezione, ha affermato.   «Il test [PCR] è completamente e totalmente inutile», ha detto Shenton. I test non possono «distinguere tra particelle infettive e non infettive».   Shenton ha affermato che i diversi Paesi utilizzano standard diversi per determinare una diagnosi positiva di HIV.   «Si potrebbe fare il test per l’HIV, per esempio in Sudafrica, e risultare positivi, e volare in Australia e risultare negativi», ha detto Shenton.   All’inizio dell’epidemia di AIDS, molti scienziati ritenevano che fattori legati allo stile di vita, tra cui la dipendenza da droghe ricreative e l’uso di nitriti come i «poppers», fossero la causa dell’AIDS a causa dei danni che provocavano al sistema immunitario.   Allo stesso tempo, i funzionari sanitari e i media hanno erroneamente attribuito la diffusione della malattia in Africa all’AIDS, quando in realtà era la mancanza di accesso all’acqua potabile a far ammalare le persone, ha detto Shenton.   Queste narrazioni sono cambiate quando le agenzie sanitarie governative hanno iniziato a interessarsi alla ricerca sull’AIDS, ha affermato Shenton.   «Quando il CDC [Centers for Disease Control and Prevention] è intervenuto e ha riunito tutti i suoi rappresentanti per esaminare questo gruppo di giovani uomini che erano molto, molto malati… l’intera teoria secondo cui l’AIDS era causato dallo stile di vita o dalla tossicità è scomparsa», ha detto Shenton.

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Fauci ha promosso trattamenti mortali per AIDS e COVID

Shenton ha affermato che i trattamenti medici dannosi sono stati al centro sia dell’epidemia di AIDS che di quella di COVID-19.   Nel 1987, la Food and Drug Administration statunitense approvò l’AZT (azidotimidina) per le persone sieropositive. L’AZT si rivelò pericoloso per molti pazienti affetti da AIDS. Durante la pandemia di COVID-19, i vaccini e il remdesivir hanno danneggiato le persone.   E in entrambi i casi – l’epidemia di AIDS e la pandemia di COVID-19 – Fauci ha svolto un ruolo chiave.   «Eravamo profondamente, profondamente critici nei confronti di Fauci, per il modo in cui ha gestito gli studi multicentrici di fase due sull’AZT. Voglio dire, erano corrotti, e tutta la prima fase è stata finanziata dall’azienda farmaceutica [Burroughs Wellcome, ora GSK ], e avevano dei rappresentanti, e questo è noto attraverso i documenti sulla libertà di informazione, che sono andati lì e hanno portato a casa i risultati del gruppo trattato con il farmaco e del gruppo placebo, eliminando gli effetti collaterali nel gruppo trattato con il farmaco» ha detto la Shenton.   Nel film Positively False, diversi scienziati e ricercatori hanno spiegato come l’AZT impedisca la sintesi del DNA, impedisca la replicazione delle cellule e contribuisca alla generazione di cellule cancerose.   Tuttavia, secondo il documentario, i pazienti che mettevano in dubbio la sicurezza e l’efficacia dell’AZT venivano stigmatizzati e la loro sanità mentale veniva messa in discussione.   Holland ha fatto riferimento al libro del 2021 del Segretario alla Salute degli Stati Uniti Robert F. Kennedy Jr., The Real Anthony Fauci : Bill Gates, Big Pharma, and the Global War on Democracy and Public Health che contiene una sezione sul lavoro di Fauci durante l’epidemia di AIDS.   «Solleva tutti questi interrogativi il fatto che in realtà sembra la stessa truffa e gli stessi giocatori… non è cambiato molto», ha detto Holland.

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Il «terrore della peste» esisteva molto prima dell’AIDS o del COVID

Secondo Shenton, le epidemie di AIDS e COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», che è esistito nel corso della storia.   All’inizio del XX secolo, negli Appalachi, fu diagnosticata un’epidemia di pellagra. La malattia, che causava una mortalità diffusa e si diceva fosse infettiva, si rivelò essere una carenza nutrizionale.   «Negli Appalachi, la popolazione molto povera viveva con una dieta completamente priva di nutrienti», ha detto Sheton. «Si trattava di una varietà di mais, ma lo cucinavano eliminandone tutti i nutrienti e dipendevano solo da quello».   La gente aveva così tanta paura di contrarre la pellagra che coloro che si pensava fossero infetti venivano ricoverati in istituti o «gettati fuori dalle navi», ha affermato.   Un infettivologo di New York, il dottor Joseph Goldberger, stabilì che la pellagra non era contagiosa, ma era causata da malnutrizione e carenza di niacina (vitamina B), ha detto Shenton. Fu emarginato per le sue scoperte.   «È stato ridotto allo stato laicale, privato dei fondi, ridicolizzato. È morto. E cinque anni dopo la sua morte, hanno detto che aveva assolutamente ragione: non era contagioso, era tossico», ha detto.   Secondo Shenton, in Giappone dagli anni ’50 agli anni ’70 la mielo-ottico-neuropatia subacuta (SMON) era comune.   «Centinaia di migliaia di giapponesi sono rimasti paralizzati dalla vita in giù e ciechi, e nessuno riusciva a capire il perché. E ovviamente pensavano: “Oh, è un virus”», ha detto.   Un neurologo giapponese, il dottor Tadao Tsubaki, ha studiato i pazienti affetti da SMON e ha stabilito che la condizione non era infettiva, ma era causata da un farmaco antidiarroico ampiamente somministrato, il cliochinolo.   «Ci sono voluti 30 anni e squadre di avvocati per respingere in tribunale l’idea che la causa della SMON fosse un virus», ha affermato Shenton.   Michael Nevradakis Ph.D.   © 7 ottobre 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.    

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Epidemie

Le restrizioni COVID in Spagna dichiarate incostituzionali, annullate oltre 90.000 multe

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Oltre 90.000 multe per violazioni delle norme anti-COVID sono state annullate dopo che la Corte costituzionale spagnola ha dichiarato incostituzionali le severe misure adottate nel 2020.

 

Secondo il quotidiano spagnuolo The Objective, al 3 settembre 2025 sono state revocate 92.278 sanzioni, in seguito alla sentenza che ha giudicato incostituzionali alcune disposizioni del decreto sullo stato di emergenza del 2020, in vigore durante il primo lockdown per il COVID-19.

 

Queste sanzioni rappresentano solo la prima tranche di multe destinate all’annullamento, con altre che probabilmente seguiranno. Durante il rigido lockdown del 2020, imposto con lo stato di allarme, sono state emesse oltre 1 milione di sanzioni a livello nazionale, con circa 1,3 milioni di persone multate per aver violato le restrizioni.

 

La Corte Costituzionale ha stabilito che alcune parti dell’articolo 7 del Regio Decreto 463/2020, relative al divieto generale di circolazione, comportavano una sospensione ingiustificata del diritto fondamentale alla libertà di movimento, andando oltre una semplice limitazione. Tale misura superava i limiti dello stato di allarme, secondo la Corte, che ha precisato che una restrizione così drastica sarebbe stata giustificabile solo con uno stato di emergenza più severo, soggetto a un iter parlamentare più rigoroso.

 

La sentenza si applica retroattivamente a tutte le multe emesse durante il lockdown del 2020, creando un notevole onere per l’amministrazione statale. The Objective riferisce che «l’applicazione è stata lenta e disuniforme a seconda delle regioni», suggerendo che i rimborsi potrebbero richiedere mesi o anni.

 

Il quotidiano sottolinea che i 92.278 casi annullati finora rappresentano «solo la punta dell’iceberg di una crisi normativa» derivante dalle severe politiche di lockdown imposte dal governo spagnolo nel 2020.

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Immagine di Javier Perez Montes via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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