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Politica

Giorgetti e Draghi, presidenti?

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In molti constatano che la Lega si sia svenduta, supportando il Governo Draghi-Speranza su decreti come il green pass. Ma non è altrettanto chiaro in che cosa consista il tornaconto.

 

Qui di seguito vedremo come sia da tempo la stessa stampa italiana  a spiegarci che cosa potrebbe incassare il partito degli ex- sovranisti in salsa celtica.

 

Cominceremo dalla fine: il presunto piano è  eleggere Draghi come Presidente della Repubblica e nominare Giorgetti Presidente del Consiglio. Senza passare per le elezioni, ça va sans dire.

 

Il tornaconto, insomma, è il governo dei prossimi 7 anni. Mica male.

 

Il presunto piano è  eleggere Draghi come Presidente della Repubblica e nominare Giorgetti Presidente del Consiglio. Senza passare per le elezioni, ça va sans dire

La voce che vuole Draghi come ipotetico successore di Mattarella gira nei palazzi di Roma fin dalle prime ore dall’insediamento dell’ex Banchiere a febbraio. Qua e là sui giornali, en passant, l’ipotesi è ciclicamente apparsa.

 

Tuttavia è con l’uscita di Giancarlo Giorgetti (28 agosto) e Giorgia Meloni ( 5 settembre) che le parti in gioco sono state costrette a mostrare le carte: 

 

Giorgetti: «”Se Draghi va al Colle si voti”. Mario Draghi al Quirinale? “È un argomento molto dibattuto. Chiaramente, Draghi è una delle persone più adeguate a ricoprire quella carica. Prima o poi, potrebbe essere la sua destinazione. Ma se Draghi andasse al Colle, onestamente penso che si dovrebbe andare a votare. Piuttosto che soluzioni pasticciate, meglio le elezioni”. Così il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, il più draghiano dei leghisti, alla festa di Affaritaliani.it a Ceglie Messapica. (La Stampa, 28 agosto )


Meloni: «”Se Draghi va al Quirinale si vota. Ma non vedo tanti lavorare per questo”. Soltanto una battuta, ma velenosa. E che racconta di come le tensioni, dalle parti del centrodestra, siano tutt’altro che spente. Il tema è lo scenario disegnato qualche giorno fa da Giancarlo Giorgetti, secondo cui se Mario Draghi andasse al Quirinale poi l’unica strada sarebbe quella delle urne. Giorgia Meloni risponde appunto con una battuta: “L’ipotesi che si possa andare subito al voto è una delle cose che potrebbe convincermi a sostenerlo”, sorride la leader di Fratelli d’Italia che subito dopo aggiunge: “Nel caso, l’ipotesi delle urne sarebbe realistica. E infatti non mi pare che siano in molti a lavorare per portare Draghi al Quirinal”e» (Corriere della Sera, 5 settembre)

 

Il tornaconto per la Lega, insomma, è il governo dei prossimi 7 anni. Mica male

«La pietra che il ministro Giancarlo Giorgetti ha lanciato nello stagno del Parlamento ha scatenato nella Lega, nel centrodestra e tra i partiti di maggioranza un moto ondoso denso di dietrologie e sospetti. “Punta a spaccare la Lega”, temono i fedelissimi di Salvini. “Vuole avvelenare i pozzi”, è la lettura di un dirigente del PD. Al quotidiano La Stampa il ministro dello Sviluppo ha confidato che Draghi dovrebbe restare a Palazzo Chigi “per tutta la vita”. Ma non si può, perché alla prima scelta politicamente sensibile la coalizione si spaccherebbe e “Draghi non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente”. E poiché Giorgetti ritiene “complicato” un bis di Mattarella, non resta altra via che accompagnare Draghi sulla strada del Colle più alto. Le tesi del ministro hanno fatto scattare l’allarme nei partiti, dove c’è chi ha visto nelle dichiarazioni del numero due della Lega il preciso intento di ribaltare il tavolo di quanti lavorano dietro le quinte a una legge elettorale proporzionale, che consenta a Draghi di restare premier fino al 2028». (Corriere della Sera, 28 settembre)

 

Ugo Magri, il quirinalista de La Stampa, ci informa che  gira «la voce insistente per cui Mario resterebbe a guidare il governo, ma soltanto ed esclusivamente se Sergio gli coprisse le spalle accettando a sua volta di rimanere dov’è; magari non per tutti e sette gli anni, al massimo per un paio, giusto il tempo di tenere calda la poltrona del Quirinal”. In altre parole, Draghi non può continuare a fare il Presidente del Consiglio se non c’è un Presidente della Repubblica che gli dia supporto. E questo potrebbe essere solo Mattarella. Ma Mattarella ha già ripetuto –per motivi che non indagheremo qui – che non intende accettare un secondo mandato al Quirinale» (28 settembre).

 

Mettiamo insieme i pezzi sulla scacchiera.  Assunto che Mattarella non voglia accettare un secondo mandato, Draghi non avrebbe la forza per restare altri 2 anni alla Presidenza del Consiglio in attesa delle elezioni del 2023.

 

La Lega scommette sul fatto che Mattarella non sarà ricandidato, anche se potrebbe trattarsi di un bluff.

La Lega scommette sul fatto che Mattarella non sarà ricandidato, anche se potrebbe trattarsi di un bluff.

 

Come spiegava Il Giornale del 29 agosto, infatti, «la Lega sospetta un piano PD per prendere il Colle e punta sulla candidatura del premier Draghi. Con settembre si riapre la battaglia per le amministrative ma la sfida a cui pensano i partiti è quella che si giocherà tra pochi mesi, per la successione di Mattarella al Quirinale. Il premier Draghi, in modo più o meno esplicito, è il vero protagonista della partita. Il sospetto della Lega è che il PD voglia piazzare un suo uomo al Quirinale, e che dietro gli appelli del segretario Letta perché Draghi resti a Palazzo Chigi “almeno fino al 2023” ci sia appunto una manovra Dem per prendersi (di nuovo) il Colle».

 

Dunque, che Mattarella sia o meno disponibile ad un secondo mandato, è un dilemma che la Lega pensa di risolvere  mandando Draghi al Quirinale, tagliando possibili agguati del Pd. Il punto vitale per la Lega è evitare di avere un altro Presidente della Repubblica europeista per altri 7 anni, senza almeno averne in cambio qualcosa.

 

Ebbene, se Draghi andasse al Quirinale, rimarrebbe l’incognita del suo successore alla Presidenza del Consiglio. Anzi, rimarrebbe l’incognita della stessa sopravvivenza di un esecutivo.

 

«Insieme al partito di Draghi al Colle, cresce in queste ore nel Palazzo, l’ipotesi di un governo elettorale. Guidato da Daniele Franco o Marta Cartabia, che traghetti il Paese fino alle urne da tenere in autunno 2022: dopo cioè che la legislatura abbia compiuto i quattro anni, sei mesi e un giorno utili a far percepire a tutti un futuro assegno pensionistico». (La Stampa,  29 settembre)

 

Ora abbiamo tutti gli elementi per avvicinarci alla conclusione: a meno che non fosse lo stesso Draghi a sciogliere le Camere una volta salito al Quirinale, a nessun partito –fatta eccezione per la Lega e Fratelli d’Italia –converrebbe chiedere elezioni anticipate dopo l’elezione di Draghi al Quirinale.

 

Non converrebbe genericamente ai parlamentari per motivi pensionistici fino all’autunno del 2022.

 

Non converrebbe a renziani e grillini, che perderebbero i seggi del 2018 con percentuali ormai polverizzate.

 

Non converrebbe a nessuno, fatta eccezione per la Lega e FdI, i quali sommati superano ad oggi il 40 % dei voti.

 

Pertanto, con Draghi al Quirinale – in caso di elezioni  anticipate – la Lega sarebbe incaricata di formare un governo, presumibilmente con Giorgia Meloni. La quale potrebbe avere anche più voti  dei leghisti e trovarsi ad essere premier della coalizione. Per questo motivo, da ultimo, andare a votare non conviene nemmeno alla Lega. Converrebbe soltanto  a Fratelli d’Italia.

 

Quando Giorgia Meloni afferma che se Draghi salisse al Quirinale, si dovrebbe andare a votare, possiamo dedurre che sia sincera. Ma, domandiamoci, quale può essere invece il piano di Giorgetti?

 

Ci sono tutti gli elementi per immaginarlo. Quando Giorgetti afferma di voler andare alle elezioni una volta eletto Draghi al Quirinale, si tratta verosimilmente di un rilancio strategico perché la Lega può contare molto di più come ago della bilancia per un governo provvisorio fino al 2023 che non rischiando di giocarsi la formazione di un governo con Fratelli d’Italia a seguito di elezioni anticipate.

 

Specialmente, ricordiamo che la Lega attualmente non avrebbe i numeri per imporre elezioni anticipate: si troverebbe infatti nella stessa situazione di stallo in cui so trovò prima della formazione del Governo Conte 2. Complessivamente il Parlamento si troverebbe nella stessa situazione di precarietà in cui si trovò nei giorni della caduta del Governo Conte 2, che portarono alla nomina del Governo Draghi a gennaio-febbraio 2021.

 

Correre il rischio di trovarsi all’opposizione proprio quando arrivano miliardi di euro non è certamente qualcosa di motivante per alzare le barricate

Se a questo aggiungiamo che l’ala governista della Lega (quella giorgettiana) rappresenta tutti i governatori delle Regioni leghiste, possiamo anche intuire come in gioco ci sia anche la gestione dei miliardi del Recovery Fund: le Regioni sono tra i principali destinatari dei fondi e si occuperanno dell’allocazione delle risorse. Correre il rischio di trovarsi all’opposizione proprio quando arrivano miliardi di euro non è certamente qualcosa di motivante per alzare le barricate.

 

Perché sospettiamo che Giorgetti stia bluffando quando evoca elezioni dopo che Draghi salisse al Quirinale?

 

Perché, senza la Lega al governo, Draghi si troverebbe ad essere il Presidente della Repubblica con un governo – nella migliore delle ipotesi –sgangherato come il Governo Conte 2. Un governo, in cui –  per trovare la maggioranza – ex deputati di Forza Italia dovrebbero creare gruppi misti con ex grillini addotti dagli alieni.

 

«I veleni verso il ministro dello Sviluppo economico sono molto diffusi: “Vuole mandare Draghi al Quirinale per diventare premier”, dice un deputato»

Pertanto, in questo scenario è Draghi stesso ad avere tutto l’interesse affinché la Lega permanga nel prossimo governo provvisorio. Già, ma in cambio di cosa Giorgetti sarebbe disposto a rimanere nel prossimo governo provvisorio senza passare all’opposizione e aspettare le elezioni  trionfali del 2023?



Ce lo dicono i giornali: in cambio della Presidenza del Consiglio.

 

«Giorgetti e la Lega Nord delle origini nella partita nuova che si giocherà con l’elezione del Presidente della Repubblica e potrebbe dar vita a un nuovo centrodestra repubblicano». ( Marcello Sorgi, La Stampa, 29 Settembre)

 

«Lega in subbuglio. Giorgetti vuole il posto di Draghi. La partita interna però ha ancora i tratti feroci. Nei corridoi di Montecitorio, ma anche nelle piazze della campagna elettorale, i veleni verso il ministro dello Sviluppo economico sono molto diffusi: “Vuole mandare Draghi al Quirinale per diventare premier”, dice un deputato». (La Stampa, 30 settembre)

 

E sarà il governo di Confindustria in Draghi-Giorgetti per i prossimi 7 anni

Anche sul Messaggero si considera concretamente questa ipotesi: «Se è vero che “l’interesse del Paese è mandare Draghi al Quirinale”, come dice Giorgetti, per avere un personaggio di spicco in grado di rassicurare l’Europa e gli investitori, elezioni anticipate e il rischio di un nuovo caos post voto, potrebbe però essere percepite in maniera opposta. Per evitare una transizione soft servirebbe quindi avere un governo pronto, magari guidato dallo stesso Giorgetti. Un modo per tranquillizzare anche quel 90% di parlamentari che sono pronti a tutto – anche a non votare tra cinque mesi Draghi – pur di evitare l’interruzione della legislatura». (30 settembre)

 

Il piano sembra diventare di giorno in giorno più verosimile anche nelle fila del PD e del M5s: «Il loro sospetto è che l’esecutivo di Draghi si stia schiacciando su Confindustria con la sponda del leghista Giancarlo Giorgetti». (La Stampa, 24 settembre)



E sarà il governo di Confindustria in Draghi-Giorgetti per i prossimi 7 anni.

 

Mandare un leghista alla Presidenza del Consiglio richiede che sia effettuata una ridefinizione d’identità del partito salviniano

La conferma che si stia preparando un’ascesa dei Giorgetti (cioè della Lega governista) di contro alla vecchia Lega salviniana, si ha anche guardando alla continua operazione di demolizione e frazionamento della  Lega operata dai media, da ormai molti mesi.

 

La spaccatura è stata sigillata sul tema del green pass e in questi giorni si sta frantumando lo staff salviniano, attraverso la costruzione del caso Morisi.

 

Il motivo è già stato accennato sopra: mandare un leghista alla Presidenza del Consiglio richiede che sia effettuata una ridefinizione d’identità del partito salviniano; se da una parte il piano di potere per i prossimi anni non può prescindere dal riconoscimento della Lega, si rende necessario rendere  digeribile l’operazione agli elettori delle sinistre europeiste.

 

E, onde evitare che Salvini possa avere voce in capitolo sulla decisione di creare un governo europeista per Draghi, è necessario che Salvini sia il più isolato possibile; ad esempio, tagliandogli le comunicazioni

E, onde evitare che Salvini possa avere voce in capitolo sulla decisione di creare un governo europeista per Draghi, è necessario che Salvini sia il più isolato possibile; ad esempio, tagliandogli le comunicazioni.

 

Dopotutto proprio uno dei garanti dell’operazione, Silvio Berlusconi, ha già riassunto il piano con una battuta: «Salvini o Meloni premier? Non scherziamo».

 

Ed ecco spiegata l’impressione di Giorgia Meloni: «se Draghi va al Quirinale si vota. Ma non vedo tanti lavorare per questo».

 

 

Gian Battista Airaghi

 

 

 

Immagine del Quirinale di Egiglia via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0); immagine modificata.

Immagine di Mario Draghi di World Economic Forum via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0); immagine modificata.

Immagine di Giancarlo Giorgetti di Presidenza della Repubblica via Wikimedia; immagine modificata.

Politica

Tokyo, governo sconfitto alle suppletive, sempre più basso il consenso per Kishida

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Si è votato in tre circoscrizioni che hanno visto l’affermazione del partito costituzionale democratico. Il partito del premier non è riuscito a tenere nemmeno il seggio nella prefettura di Shimane, considerata una roccaforte conservatrice. A pesare gli scandali sulla raccolta irregolare di fondi ma anche il deprezzamento dello yen.

 

Il partito liberaldemocratico del Giappone (PLD), da cui proviene anche il premier Fumio Kishida, ha perso tre seggi nelle elezioni suppletive per la Camera dei rappresentanti che si sono tenute ieri. Si tratta di una sconfitta che certifica lo scarso sostegno dell’opinione pubblica al partito al governo in seguito a una serie di scandali che hanno coinvolto diversi ex ministri e parlamentari.

 

Tutti i seggi in palio (che prima di diventare vacanti appartenevano alla formazione liberaldemocratica) sono stati vinti dal partito costituzionale democratico (PCD), guidato da Kenta Izumi: il PLD non aveva schierato candidati nelle circoscrizioni di Tokyo e Nagasaki, ma si era concentrato a difendere il seggio delle prefettura occidentale di Shimane, nota per essere una roccaforte conservatrice. Invece proprio qui ha prevalso la candidata Akiko Kamei, nonostante nell’ultimo mese il premier Kishida avesse visitato due volte la prefettura in sostegno del liberaldemocratico Norimasa Nishikori.

 

Kamei ha detto che la vittoria nel «regno conservatore» di Shimane, invia un «importante messaggio» a Kishida, criticato per non aver impedito il deprezzamento dello yen e non aver ottenuto un aumento dei salari superiore alla crescita dei prezzi.

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Un sondaggio di Kyodo News mostra inoltre che il 77% degli intervistati ha votato «in considerazione» dello scandalo sui fondi raccolti in maniera irregolare all’interno del PLD, che negli ultimi mesi ha costretto alle dimissioni diversi ministri e parlamentari.

 

A novembre dello scorso anno è stata resa pubblica un’indagine della procura giapponese secondo cui alcuni membri del PLD appartenenti alla «corrente Abe» non avrebbero dichiarato – tenendoli per sè – almeno 500 milioni di yen (circa 3,2 milioni di euro) ottenuti grazie alle raccolte fondi del partito.

 

Nel frattempo il tasso di approvazione nei confronti di Kishida è sceso al di sotto della soglia del 30%, considerata, da parte degli analisti, «di pericolo» per il governo.

 

La pesante sconfitta del PLD a Shimane probabilmente minerà una nuova candidatura del premier nella corsa per le prossime elezioni presidenziali. Il segretario generale del partito, Toshimitsu Motegi, il numero due dopo Kishida, dopo l’annuncio dei risultati si è rivolto ai giornalisti: «accetteremo umilmente i risultati», ha detto, aggiungendo che il PLD «ha bisogno di lavorare all’unisono per affrontare la sfida».

 

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Bioetica

Biden fa il segno della croce durante una manifestazione a sostegno dell’aborto

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Il presidente americano Joe Biden, ad un evento politico in Florida, si è fatto il segno della croce quando la signora con lui sul palco, la presidente del Partito Democratico della Florida, si è espressa a favore dell’aborto. Lo riporta Modernity News.   La vicenda ha generato sconvolto tra la comunità cristiana internazionale.   La candidata governativa fallita Nikki Fried stava sollecitando la rielezione di Biden quando ha fatto commenti su Ron DeSantis e Donald Trump che spingevano per maggiori restrizioni sull’aborto.   La prossima settimana in Florida entrerà in vigore un divieto di aborto di sei settimane, e questo sarebbe uno dei motivi per cui Biden si è fermato nello Stato. La Fried aveva dichiarato la scorsa settimana che Biden sa che deve trascorrere del tempo in Florida per dimostrare quanto le cose siano diventate «estreme» sotto DeSantis. «Capisci che se dobbiamo combattere contro l’estremismo dei repubblicani MAGA, devi venire al ventre della bestia».

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Mentre Biden era al suo fianco, la Fried ha dichiarato che «Ron DeSantis sentiva di dover candidarsi alla presidenza, quindi quindici settimane non erano sufficienti, dovevamo arrivare a sei settimane», sottolineando la sua opposizione alla legge sull’aborto.   È a questo punto che Biden, sulla carta secondo presidente «cattolico» della storia USA (e forse l’unico, che nonostante gli acciacchi, porterà al termine mandato: il primo è stato JFK e sappiamo come è andata a finire) si è fatto il segno della croce.   La reazione della rete è stata immediata, con commenti che davano del «vile» al vegliardo del Delaware. «Biden, l’autodefinito “cattolico devoto”, fa il segno della croce a sostegno del desiderio di questa donna di uccidere i bambini fino ai 3 mesi di gravidanza» scrive Buck Sexton. «Totalmente malvagio e sacrilego» ha twittato LifeNews. «Davvero da vomitare. Disgustoso. Insulto. Blasfemo» hanno scritto ancora su Twitter. Ancora: «Joe Biden si fa il segno della croce mentre promuove l’aborto! Questo è il male!».   Il fatto è avvenuto a pochi giorni dalla sostituzione della Pasqua della Casa Bianca con la giornata mondiale di visibilità trans.   La Fried, già Commissario per l’Agricoltura della Florida, grande sostenitrice dell’aborto, è anche esplicita riguardo alla sua pratica del giudaismo. Mentre era al liceo, partecipava al B’nai B’rith, la famigerata organizzazione ebraica. La donna ha preso anche attivamente in considerazione l’idea di fare aliya – cioè di andare a vivere in Israele –e di unirsi alle forze di difesa israeliane.   Dopo la sua elezione a commissario per l’agricoltura, Fried ha prestato giuramento utilizzando la prima Bibbia ebraica pubblicata negli Stati Uniti.

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Politica

Elezioni USA 2020, un elettore per corrispondenza su cinque ha ammesso la presenza di frode elettorale: sondaggio

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Un quinto degli elettori che hanno votato per corrispondenza durante le elezioni presidenziali del 2020 ha ammesso di aver commesso almeno un tipo di frode elettorale, secondo i risultati di un recente sondaggio condotto da Rasmussen Reports e The Heartland Institute.

 

Tucker Carlson ha fatto uscire nelle ultime ore una sconvolgente intervista con Just in Haskins, direttore del Centro di ricerca sul socialismo presso l’Heartland Institute, in cui quest’ultimo ha spiegato come un sondaggio condotto insieme a Rasmussen Reports ha rivelato una diffusa attività elettorale illegale tra gli elettori per corrispondenza durante le elezioni del 2020.

 

Il sondaggio è stato pubblicato per la prima volta nel dicembre 2023.

 

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Agli intervistati che hanno indicato di aver votato per posta alle elezioni del 2020 sono state poste una serie di domande che indagavano su attività illegali e fraudolente, sebbene le domande non etichettassero esplicitamente queste attività come «frode».

 

«Ad esempio, abbiamo chiesto alle persone: “Hai votato in uno Stato in cui non risiedi più legalmente? Se non risiedi permanentemente in uno stato, non puoi votare lì. Il 17% delle persone, quasi una su cinque, ha detto di sì», ha detto Haskins a Carlson.

 

Ha inoltre condiviso che il 21% degli elettori per corrispondenza ha ammesso di aver compilato una scheda elettorale per conto di qualcun altro, un’altra attività illegale, e il 17% ha ammesso di aver falsificato una firma per conto di qualcun altro, «con o senza il suo permesso».

 

«Quindi, tutto sommato, almeno una scheda elettorale su cinque ha coinvolto qualche tipo di attività fraudolenta», ha detto Haskins.

 

Di tutti gli elettori intervistati – sia quelli che hanno votato per posta che quelli che hanno votato di persona – il 10% ha affermato che «un amico, un familiare, un collega o un altro conoscente» ha ammesso di aver votato per posta in uno stato diverso da quello in cui sono registrati come stato di residenza permanente.

 

«I risultati di questo sondaggio sono a dir poco sorprendenti», ha osservato Haskins dopo i risultati del sondaggio. «Negli ultimi tre anni, agli americani è stato ripetutamente detto che le elezioni del 2020 sarebbero state le più sicure della storia. Ma se i risultati di questo sondaggio riflettono la realtà, è vero esattamente il contrario. Questa conclusione non si basa su teorie del complotto o su prove sospette, ma piuttosto sulle risposte fornite direttamente dagli elettori stessi».

 

«Una repubblica democratica non può sopravvivere se le leggi elettorali consentono agli elettori di commettere facilmente frodi, e questo è esattamente ciò che è accaduto durante le elezioni del 2020», ha continuato. «Sebbene siano stati compiuti alcuni progressi in più di una dozzina di stati dalla conclusione delle elezioni del 2020, è necessario molto più lavoro nella maggior parte delle regioni degli Stati Uniti. Se le leggi elettorali americane non miglioreranno presto, elettori e politici continueranno a mettere in dubbio la veridicità e l’equità di tutte le future elezioni».

 

Il Carlson ha sottolineato che le affermazioni secondo cui i risultati delle elezioni presidenziali del 2020 sarebbero basati su voti fraudolenti sono ora considerate un «reato penale» negli Stati Uniti, almeno nella misura in cui «quel crimine sembra costituire la base di una delle accuse pendenti di Trump». L’accusa in questione afferma che Trump ha utilizzato «false accuse di frode elettorale per ostacolare la funzione del governo federale mediante la quale tali risultati vengono raccolti, conteggiati e certificati».

 

Sono emerse numerose prove di frodi nelle elezioni generali del 2020, ma ciò è stato ampiamente ignorato dai media mainstream.

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Ad esempio, nel 2022, un articolo sottoposto a revisione paritaria dell’esperto economista ed ex ricercatore senior del Dipartimento di Giustizia (DOJ), John Lott, ha compilato prove statistiche di frode elettorale nelle elezioni del 2020, in particolare, di circa «255.000 voti in eccesso, forse fino a 368.000, per Joe Biden in sei Stati indecisi dove Donald Trump ha presentato accuse di frode».

 

La notte delle elezioni sono stati segnalati gruppi di voti che sono stati conteggiati in modo sospetto e schiacciante per Biden, invertendo un precedente vantaggio di Trump in stati come Pennsylvania e Wisconsin. E prima delle elezioni, Project Veritas aveva pubblicato un video che mostra gli elettori corrotti e persuasi a votare per i democratici, anche modificando i loro voti nella scheda elettorale.

 

Come riportato da Renovatio 21, truccare qualsiasi elezione, negli USA, non è un lavoro difficile, come ha attestato la testimonianza di un frodatore elettorale al New York Post. L’operativo della politica, in forza ai Democratici, aveva detto che la frode è più la regola che l’eccezione. «Questa è una cosa reale. E ci sarà una cazzo di guerra in arrivo il 3 novembre su questa roba» aveva dichiarato in riferimento alle elezioni in arrivo nel 2020.

 

Gli Stati Uniti – Paese occidentale che guida la trasformazione della società verso un incubo di sorveglianza tecnocratica – sono altresì teatro della demenziale – ma provvidenziale, per i frodatori elettorali – mancanza di obbligo di esibire qualsiasi documento quando si va a votare.

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