Civiltà
Elisabetta Frezza: Gioventù terminali, generazioni telecomandate, artificializzate, geneticamente modificate. Formare il ritorno degli uomini liberi

Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno «Sapiens^3. Superare un’antropologia disumana», Centro Ad Gentes, Nemi (Roma), 4 luglio 2021
Gli antichi chiamavano specchio di Diana questo piccolo lago di Nemi in cui storia e mito si incontrano. Diana era la dea della caccia e dei giovani che si affacciavano all’età adulta.
Anche oggi, come allora, a suggellare questo passaggio ci sono dei riti di iniziazione. Dei quali è mutata la forma, perché si sono smaterializzati, e si risolvono nella apposizione di un marchio di Stato; ed è mutato lo stesso significato, per il fatto che l’età adulta non è altro che un prolungamento caricaturale dell’infanzia, in una società liquida e ormai svirilizzata.
C’è di mezzo qualche millennio tra l’ora presente e il tempo di Diana Nemorensis. C’erano, allora, altri eroi, altre armi e altre battaglie. A cui sbaglieremmo se smettessimo di guardare.
Dei riti di iniziazione è stata mutata la forma, perché si sono smaterializzati, e si risolvono nella apposizione di un marchio di Stato; ed è mutato lo stesso significato, per il fatto che l’età adulta non è altro che un prolungamento caricaturale dell’infanzia, in una società liquida e ormai svirilizzata
Se partiamo dal fondo, dall’ultimo anno e mezzo – dal «via» della nuova era post-COVID – salta all’occhio come le istituzioni, quelle centrali e a cascata quelle periferiche, si siano disvelate come braccio armato del Potere, ossia come sua emanazione diretta, non più mediata (nemmeno per finta) dal diritto; quel diritto che, figlio della Civiltà più che millenaria sbocciata in questa terra – fatalità è proprio il Rex Nemorensis la prima magistratura della storia di Roma – ha sviluppato nei secoli una funzione duplice e interdipendente: da un lato svolge una funzione essenzialmente ordinatrice per la società, secondo un ordine che deve rispondere a criteri oggettivi ispirati al bene comune e in primis a un’esigenza di conservazione; dall’altro incorpora una funzione di garanzia per il singolo cittadino e per le formazioni sociali (naturali, che significa pregiuridiche, in primo luogo la famiglia) in cui l’individuo nasce, cresce e forma la propria personalità: serve cioè, in questo senso, a fare da argine alle degenerazioni del potere, per porre il cittadino al riparo dall’arbitrio sia del legislatore sia del giudice.
Il diritto oggi è stato inghiottito dalla cosiddetta pandemia.
E il Potere, oggi, si presenta al pubblico sottoforma di auctoritas autoaccreditata dal mito scientista: infatti è decentrato dalla sua sede naturale e (almeno nominalmente) «democratica», e trasferito in capo a organismi tecnici (comitati tecnico-scientifici, task force, cabine di regia) che emettono gli ipse dixit soggetti, poi, a mera ratifica da parte degli organi della politica. Con il risultato che il sindacato di legittimità sopra gli atti, cui viene data la forma di provvedimenti legislativi o amministrativi, diventa pressoché impraticabile.
Perché questi atti sono blindati dentro un guscio tecnocratico che rende spuntata ogni forma di controllo giuridico. Ma pure, paradossalmente, ogni forma di controllo scientifico, sempre per l’ipse dixit di cui sopra.
Salta all’occhio come le istituzioni, quelle centrali e a cascata quelle periferiche, si siano disvelate come braccio armato del Potere, ossia come sua emanazione diretta, non più mediata (nemmeno per finta) dal diritto; quel diritto che, figlio della Civiltà più che millenaria sbocciata in questa terra
Dunque, il presidio rappresentato dall’ordinamento giuridico in uno Stato di diritto ne esce di fatto neutralizzato (resta, e solo in parte, come puro involucro onomastico), grazie anche alla acquiescenza, tacita ma eloquentissima, delle istituzioni che sarebbero incaricate di esserne custodi, specialmente in frangenti di crisi o di emergenza.
La politica, dal canto suo, relegata dal pretesto emergenziale in una posizione ancillare, sconta almeno altri due limiti propri:
1) sconta la annosa tara di essere, nella cosiddetta democrazia rappresentativa, ostaggio dell’arbitrio delle maggioranze, dove le maggioranze sono le masse psicomediaticamente pilotate. Sappiamo bene come la propaganda sia in grado di generare superstizioni inscalfibili, e come su queste si fondi la logica del consenso, che viene guadagnato soprattutto attraverso la manipolazione dei linguaggi e delle idee;
2) sconta un limite empirico, di cui non possiamo non prendere atto: sugli scranni parlamentari e governativi sono approdate schiere di abusivi della politica, cioè personaggi privi del senso stesso, e alto, del mestiere che fanno, e perciò capaci solo di screditarlo e di affossarlo.
Il diritto oggi è stato inghiottito dalla cosiddetta pandemia. E il Potere, oggi, si presenta al pubblico sottoforma di auctoritas autoaccreditata dal mito scientista: infatti è decentrato dalla sua sede naturale e (almeno nominalmente) «democratica», e trasferito in capo a organismi tecnici (comitati tecnico-scientifici, task force, cabine di regia) che emettono gli ipse dixit soggetti, poi, a mera ratifica da parte degli organi della politica. Con il risultato che il sindacato di legittimità sopra gli atti, cui viene data la forma di provvedimenti legislativi o amministrativi, diventa pressoché impraticabile
Al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli che ne sfruttano l’ignoranza, l’ignavia o la stupidità, questi personaggi ottusi o ottusamente conniventi, poiché condizionano le maggioranze parlamentari, stanno producendo la distruzione di tutte le basi etiche, alcune conquistate a caro prezzo, di una società che aveva pensato se stessa come emancipata dai lacci delle tirannie e della arroganza di poteri incontrollati.
Nemmeno percepiscono, gli abusivi della politica, la gravità di quanto sfornano a getto continuo e nei più vari ambiti tematici. Giocano con il Lego, tolgono e spostano mattoncini – che si chiamano obblighi, diritti, libertà – senza rendersi conto, per una specie di incapacità metafisica, che, magari, qualcuno di questi mattoncini è la chiave di volta di una costruzione complessa, eretta con fatica, scrupolo, sacrifici, per reggere e proteggere la convivenza civile.
Pare del tutto estranea, a costoro, l’idea di avere per le mani un oggetto da maneggiare con cura e sapienza, la cui gestione implica una immensa responsabilità. L’ordinamento infatti è un sistema organico e strutturato di norme che risponde a principi generali fondamentali; si sostanzia di categorie tecniche – il diritto è una disciplina tecnica e parla un linguaggio proprio, non fungibile con parole in libertà – e, se si toccano quei principi, viene giù tutto, e ci si mette nulla a precipitare nella barbarie.
Un esempio eclatante della barbarie incipiente è l’obbligo inflitto al personale sanitario di sottoporsi alla somministrazione di un farmaco del tutto nuovo e tuttora in fase di sperimentazione, come dichiarano espressamente le stesse case produttrici: un obbligo assistito da sanzioni che incidono sul diritto del lavoro e al lavoro, fino a travolgerlo.
Col DL 44 si è materializzato un monstrum giuridico che disintegra con nonchalance, in un colpo solo, una serie di cardini dell’ordinamento costituzionale a partire nientemeno che dall’art. 1; ma, ancor prima, aggredisce quel nucleo inscalfibile di principi portanti inviolabili e inderogabili che nemmeno una legge di rango sopraordinato, come è la Costituzione, può intaccare, perché non può far altro che riconoscerli e garantirli. Altrimenti si spezza quel nesso tra nomos e dike che si radica nella consuetudine morale profonda e che, a partire da Antigone, tiene in piedi, puntella, non tanto e non solo un ordinamento positivo, ma una Civiltà.
Al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli che ne sfruttano l’ignoranza, l’ignavia o la stupidità, questi personaggi ottusi o ottusamente conniventi, poiché condizionano le maggioranze parlamentari, stanno producendo la distruzione di tutte le basi etiche, alcune conquistate a caro prezzo, di una società che aveva pensato se stessa come emancipata dai lacci delle tirannie e della arroganza di poteri incontrollati
C’era una volta l’habeas corpus. E ci voleva un manipolo di individui eletti da nessuno per pensare di eliminarlo, dall’oggi al domani, con decretazione d’urgenza. D’altra parte, il progressismo scientista e positivista, percorso dal sacro fuoco ecologista, è tranquillamente disposto a riconoscere la dignità morale della zanzara, ma non si fa alcuno scrupolo a profanare con disinvoltura la bandiera della dignità umana che pure sventola da decenni, ad pompam, in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti.
E però, ridurre un qualunque essere umano ad oggetto di sperimentazione, travalicando la sua volontà che deve essere libera, attuale e informata, vuol dire reificarlo. E questo fatto impone a tutti noi, indistintamente, di ricordare cosa abbia potuto significare la sperimentazione sull’uomo nel tempo in cui era praticata – con il consenso politico – da un certo dottor Mengele, di cui ultimamente si sente parlare sempre meno.
A margine, vale la pena di sottolineare lo strabismo delle stesse maggioranze illuminate che, del tutto incuranti della contradditorietà delle proprie emissioni tossiche, avevano già stravolto in senso inverso (ma ideologicamente convergente) la ratio dell’art. 32 Cost. quando, a partire dal caso Englaro, hanno preteso che persino la somministrazione di cibo e di acqua necessari per assicurare la sopravvivenza di una persona disabile sia da considerare trattamento sanitario e, come tale, debba essere condizionato al consenso del paziente, consenso vero o (come è stato per Eluana) semplicemente presunto. Stravolgendo così, con una orchestrazione farisaica, il senso di una norma nata per salvare le vite da trattamenti invasivi arbitrari, e non certo per garantire la soppressione di un congiunto magari diventato scomodo. Eppure in questo modo è stato tirato fuori dal cilindro del legislatore il cosiddetto «testamento biologico».
Ora d’improvviso quel consenso, ritenuto imprescindibile persino per essere nutriti e idratati, diventa tranquillamente trascurabile se si tratta di imporre una pozione di magia genetica (fàrmakon nella etimologia greca significa medicina e anche veleno) preparata dagli apprendisti stregoni di stanza nelle multinazionali farmaceutiche per i loro esperimenti faustiani.
C’era una volta l’habeas corpus. E ci voleva un manipolo di individui eletti da nessuno per pensare di eliminarlo, dall’oggi al domani, con decretazione d’urgenza. D’altra parte, il progressismo scientista e positivista, percorso dal sacro fuoco ecologista, è tranquillamente disposto a riconoscere la dignità morale della zanzara, ma non si fa alcuno scrupolo a profanare con disinvoltura la bandiera della dignità umana che pure sventola da decenni, ad pompam, in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti
Fatto sta che, insomma, siamo scivolati rovinosamente nella giungla del sopruso istituzionalizzato in cui non vi è più alcun argine alla demenza fatta precetto, in un vortice di spregiudicatezza e di irresponsabilità dove il confine tra l’impostura, la malafede e la tragicomicità è diventato davvero difficile da identificare.
In questa giungla può trovare sfogo incontrastato la libidine di comando e di prevaricazione di quanti, privi di scrupoli e al servizio di interessi personali e contingenti, si trovino a vestire pro tempore la divisa della autorità, nei più diversi ordini di grandezza: dai dicasteri fino agli istituti scolastici, dagli enti territoriali ai condomini.
Dilaga ovunque la sindrome del kapò – di cui ciascuno di noi nei mesi trascorsi ha di sicuro fatto una qualche personale esperienza – che colpisce in misura direttamente proporzionale alla pusillanimità e alla frustrazione repressa di chi sia esposto al contagio per la posizione che riveste.
In questo virtuosismo di dissennatezza e prepotenza, la massa a trazione mediatica, acquisito definitivamente l’habitus del suddito mentalmente depresso e assuefatto, peraltro intimidita dal piglio autoritario del despota diffuso, è disposta a mettere da parte ogni reazione che il semplice buon senso – questo sconosciuto – dovrebbe suggerirle.
Ad alimentare la propensione alla obbedienza cieca e automatica – si può dire cadaverica – se in origine era effettivamente, e comprensibilmente, la paura di un virus sconosciuto, ora è per lo più un’altra paura primordiale, che se possibile lascia ancora meno spazio all’esercizio del pensiero: la paura della morte civile, ossia la paura di essere emarginati dal consesso sociale, altrimenti detto società civile, perché fatta di bravi cives, cioè – nella accezione aggiornata del termine – ominidi educati dalla culla alla tomba a conformarsi ai dogmi del nuovo evangelo civico (arricchito recentemente del corposo capitolo sanitario).
Siamo scivolati rovinosamente nella giungla del sopruso istituzionalizzato in cui non vi è più alcun argine alla demenza fatta precetto, in un vortice di spregiudicatezza e di irresponsabilità dove il confine tra l’impostura, la malafede e la tragicomicità è diventato davvero difficile da identificare
Quell’evangelo che è diventato nel frattempo persino una nuova supermateria obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dall’asilo (supermateria perché trasversale a tutte le altre e che quindi si comporta come una sorta di asso pigliatutto) e che va sotto l’etichetta rassicurante di «nuova educazione civica» – pareva brutto chiamarla direttamente Agenda 2030, ma di fatto quello è: i libri di testo, infatti, si intitolano proprio così – introdotta con l. 92/2019 ed entrata in vigore giusto giusto a partire dall’ultimo anno scolastico 2020/21. Guarda un po’ le combinazioni.
Questa materia è un grande carro dentro cui vengono trasportati i macromotivi delle ideologie in voga, per addomesticare il suddito globale. In contemporanea il Vaticano, per non sfigurare, si è inventato una cosa che ha chiamato Global Compact on Education (c’era una volta il latino), con cui ha messo a tema anche lui la necessità di «ricostituire il patto educativo globale per costruire il futuro del pianeta», come da decalogo mondialista, quale risulta dal combinato disposto della Agenda ONU 2030 e della enciclica Laudato sì, che non sono altro che le due facce della stessa medaglia.
Così la teologia globalista, che si presenta al mondo in veste egualitaria, pacifista, ecologista (nel senso di Greta), scientista, genderista, omosessualista e ora terapeutica, diventa un programma congiunto contro-culturale (a-culturale) da imporre alle masse a uso e consumo del Potere; di qui discende la sua implacabile vocazione fondamentalista, nel senso che quanti non vi si convertano sono ipso facto rigettati dal consesso civile. Candidati alla nuova apartheid.
Ad alimentare la propensione alla obbedienza cieca e automatica – si può dire cadaverica – se in origine era effettivamente, e comprensibilmente, la paura di un virus sconosciuto, ora è per lo più un’altra paura primordiale, che se possibile lascia ancora meno spazio all’esercizio del pensiero: la paura della morte civile, ossia la paura di essere emarginati dal consesso sociale, altrimenti detto società civile, perché fatta di bravi cives, cioè – nella accezione aggiornata del termine – ominidi educati dalla culla alla tomba a conformarsi ai dogmi del nuovo evangelo civico (arricchito recentemente del corposo capitolo sanitario).
Questo pacchetto di dogmi è stato imbellettato con un cerone mistico e si è tramutato in un vero e proprio credo, elaborato nei templi delle tecnocrazie sovranazionali, sposato dalla chiesa postcattolica, e propagato in filodiffusione a reti unificate. Una religione con le sue formule, i suoi riti, i suoi sacramenti, i suoi ministri del culto.
L’apporto del cristianesimo – un cristianesimo evidentemente contraffatto, orizzontale, rivisto e corretto in salsa filantropica e umanitaria – è oltremodo utile a fornire alla manovra il respiro universale cui ambisce.
Nelle catechesi di massa, come è questa con cui abbiamo a che fare, torna comoda la struttura gerarchica del cattolicesimo romano, che incorpora in sé il germe dell’obbedienza, sfruttando l’equivoco madornale insito nella domanda che pochi si fanno, ma che è cruciale: obbedienza a chi? Alla verità rivelata, o alla istituzione pro tempore? A Cristo, o al suo vicario? Alla legge di Dio, o ai suoi interpreti estemporanei? Questa ambiguità sul senso dell’obbedienza lascia tutto lo spazio all’indottrinamento massivo, che fa leva su un duplice atavico bisogno delle persone: di avere una guida morale da seguire, e di sentirsi in pace con la coscienza.
A questo serve, e non è cosa da poco, la santa alleanza tra le tecnocrazie e la neochiesa, impegnate oggi nella stessa identica opera di proselitismo.
Da notare che chi aderisce a questa nuova religione ha il terrore di sottoporne i dogmi al vaglio della ragione, perché sa che questo vaglio potrebbe far crollare miseramente una impalcatura farlocca a cui ha finito per affidare tutto, per puro atto di fede, a partire dalla propria salute, la propria vita, la salute e la vita dei propri figli.
Ecco perché il devoto si aggrappa disperatamente ai mantra che i media di regime diramano per soffocare i fatti – che hanno il vizio di accadere nonostante la narrazione costruita a tavolino che tenta di soffocarli – e li ripete ipnoticamente, questi mantra, in cattedra, al bar, dal salumiere, nel sonno.
Ecco perché il devoto odia coloro che non si lasciano trascinare nel gorgo del conformismo ed esercitano ancora un discernimento critico (peraltro nemmeno troppo sofisticato, anzi piuttosto elementare). Questo nuovo uomo pio odia gli empi che disertano i rituali di massa, le orge scientificamente corrette, perché in qualche modo mettono in luce tutta la debolezza, l’abulia, l’apatia, di chi si lascia stregare dai suoni disarticolati della propaganda, per quanto siano palesemente stonati, grossolanamente contraddittori, ma non importa.
Ecco perché il devoto odia coloro che non si lasciano trascinare nel gorgo del conformismo ed esercitano ancora un discernimento critico (peraltro nemmeno troppo sofisticato, anzi piuttosto elementare).
Questo nuovo uomo pio odia gli empi che disertano i rituali di massa, le orge scientificamente corrette, perché in qualche modo mettono in luce tutta la debolezza, l’abulia, l’apatia, di chi si lascia stregare dai suoni disarticolati della propaganda, per quanto siano palesemente stonati, grossolanamente contraddittori, ma non importa.
La massa ovina non si pone troppi problemi: obbedisce in cambio di una brucata qua e là. E comunque, a rinsaldare e nobilitare questa modalità gregaria (cioè propria di chi è parte integrante del gregge) soccorre l’autoidentificazione con la figura del missionario, che incarna la più alta forma di altruismo caritatevole. Così che, appunto, anche la coscienza ne esce non solo pacificata, appagata, ma addirittura gonfiata con generoso autocompiacimento.
Alla luce di tutto questo, è evidente come da un anno e mezzo a questa parte noi non siamo di fronte a una operazione di carattere sanitario, ma semmai psicosociale e psicopolitico. L’adesione al piano terapeutico calato dall’alto è un referendum, una richiesta di consenso (non informato, perché fondato su un puro atto di fede).
Ebbene, il popolo eterodiretto ha votato: la maggioranza ha detto sì. Un voto estorto con l’inganno, in cambio del miraggio della restituzione di una finta libertà, come se la mia libertà fosse l’oggetto di una graziosa concessione altrui.
Particolarmente esposte a restare catturate nelle geometrie perverse e pervertite di questo potere ab-soluto (sciolto da ogni vincolo superiore) e nei suoi tentacoli mediatici, e soprattutto prone a subirne massimamente i danni, sono le nuove generazioni. Plasmabili per definizione e obbedienti per formazione.
Alla luce di tutto questo, è evidente come da un anno e mezzo a questa parte noi non siamo di fronte a una operazione di carattere sanitario, ma semmai psicosociale e psicopolitico. L’adesione al piano terapeutico calato dall’alto è un referendum, una richiesta di consenso (non informato, perché fondato su un puro atto di fede)
Il loro indottrinamento, già a buon punto grazie a un programma che parte da molto lontano, ha subito nell’ultimo anno e mezzo una accelerazione furibonda e un cambio di passo verso l’addestramento precoce della vita in schiavitù.
È stato inflitto loro un violento condizionamento psicofisico, fortemente potenziato dalla privazione protratta di tutti quegli spazi naturali, tempi naturali, modalità spontanee, legati indissolubilmente ai bisogni vitali di individui in crescita: la scuola, l’aggregazione, il movimento, l’aria aperta. Addirittura sono stati cancellati i volti, le espressioni; è stato inibito il contatto, il respiro, il sorriso e l’abbraccio. La vita.
Nelle parentesi elargite in presenza, momentaneamente scarcerati dalla famigerata DAD, gli scolari sono stati costretti a inscenare in modo continuato, come tante scimmiette ammaestrate, una serie di rituali di massa (distanziamenti, igienizzazioni, controlli, monitoraggi, sensi unici alternati, e chi più ne ha più ne metta): un incrocio tra un lager e un presidio sanitario, insomma. Queste azioni ritmate e ripetute, intimamente condizionanti, finiscono per cementare demenziali automatismi, per inculcare ipocondria, diffidenza verso i propri simili, subordinazione cieca agli ordini della sedicente autorità. L’obbedienza a ogni genere di imposizione, cui la massa è stata educata per tempo a scuola con mezzi subdoli quanto suggestivi, si radica così definitivamente legandosi pure al voto in pagella.
Ebbene, il deserto sensoriale e l’annientamento psicofisico sono stati la premessa ideale per completare un piano di conquista e di sottomissione di una generazione già pesantemente minata nel proprio sistema immunitario dalla dipendenza telematica (con tutti i suoi effetti degradanti sullo sviluppo delle facoltà superiori), oltre che da una scuola divenuta, da tempo, palestra di omologazione coatta: è stato fatto un lavoro implacabile e certosino nella scuola dei test a crocette, del mercato e delle soft skills, del successo formativo, dei crediti e dei debiti. Dell’alternanza con il lavoro, dei corsi alla sessualità e alla non violenza, all’inclusione, alla alimentazione e al codice della strada. Di tutto, insomma, fuorché della conoscenza, della cultura, della teoresi: ovvero dei fondamentali. La scuola è di fatto una fabbrica di invertebrati analfabeti, che devono essere svuotati di tutto e rimpinzati di contenuti ad alta carica ideologica.
Com’è intuitivo, ha un ruolo chiave nel processo di destrutturazione, liquefazione e riprogrammazione dell’essere umano, perché è lì che transitano tutti e che tutti si possono plasmare, come il pongo.
Particolarmente esposte a restare catturate nelle geometrie perverse e pervertite di questo potere ab-soluto (sciolto da ogni vincolo superiore) e nei suoi tentacoli mediatici, e soprattutto prone a subirne massimamente i danni, sono le nuove generazioni. Plasmabili per definizione e obbedienti per formazione.
La cattività protratta, e tutta la sofferenza che ne è scaturita, è stata il trampolino di lancio per l’ultimo ricatto e la soluzione finale che, attraverso i noti raggiri mediatici, ha indotto i nostri ragazzi ad assumere di slancio il ruolo di cavie inconsapevoli in una surreale, agghiacciante, transumanza. Messi in carcere per un anno e mezzo-due, sono diventati delle molle, hanno perso la capacità di guardare a un orizzonte che vada oltre la prospettiva asfittica della vacanzina estiva o della serata in discoteca. Hanno perso il senso del limite e il senso stesso della vita e, pur di riconquistarne una fettina, un pallido simulacro peraltro a scadenza, sono pronti a tutto.
Non bisogna dimenticare che la scuola dell’emergenza – un grottesco surrogato di scuola – era stato definito dall’UNESCO (propaggine ONU per l’educazione, la scienza e la cultura), come «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». Siamo, appunto, nell’era degli esperimenti di massa. Ce lo dicono a chiare lettere, ormai non c’è più nulla di nascosto, la fase carsica dell’esecuzione del piano egemonico è superata, ora è tutto alla luce del sole. Pornograficamente.
La cavia predestinata di questo esperimento era appunto l’alunno, ridotto a paziente, a terminale, a materiale di laboratorio, ostaggio fisso della macchina che gli è fornita in dotazione e che deve prendere il sopravvento su di lui, profilandolo e, poi, telepilotandolo. Nel fantastico mondo dei finti diritti e della finta democrazia, nella ubriacatura delle finte libertà, il controllo si fa sempre più penetrante e pervasivo e serve alla manipolazione, alla standardizzazione, alla robotizzazione sistematica. D’altra parte, il potere che ci sovrasta (e che si presenta oggi sotto la forma insidiosa del biopotere) è ossessionato dal controllo. Talmente ossessionato da fare irruzione fin dentro lo spazio sacro della sovranità famigliare e persino della sovranità biologica, genetica, molecolare. E di quella spirituale.
Ebbene, il deserto sensoriale e l’annientamento psicofisico sono stati la premessa ideale per completare un piano di conquista e di sottomissione di una generazione già pesantemente minata nel proprio sistema immunitario dalla dipendenza telematica (con tutti i suoi effetti degradanti sullo sviluppo delle facoltà superiori), oltre che da una scuola divenuta, da tempo, palestra di omologazione coatta. La scuola è di fatto una fabbrica di invertebrati analfabeti, che devono essere svuotati di tutto e rimpinzati di contenuti ad alta carica ideologica
Bene. Abbiamo il risultato (parziale) di questo bell’esperimento scolastico. Ce lo hanno fornito i dati, rilanciati pure senza vergogna dai giornaletti mainstream, che titolano: «I ragazzi come reduci di guerra». I primi sono stati i neuropsichiatri del Bambin Gesù, poi l’equipe del Gaslini, da ultimo l’istituto neurologico Mondino di Pavia, e molte altre sirene qualificate che hanno fatto suonare l’allarme rosso: il 79 per cento degli adolescenti manifesta sintomi riconducibili a un disturbo post traumatico da stress. Proprio come i reduci del Vietnam. Si impennano i suicidi, tentati e consumati.
È criminale che, dopo questa strage dichiarata, gli stessi cosiddetti “esperti” lascino che passi liscio liscio il messaggio becero che la vita, rapinata e insultata fino a quel punto, si ripari e si riconquisti attraverso un green pass, che sta diventando il patentino da esibire in società per farle credere (alla società) che sei un tipo emancipato. Quando invece è la plastica manifestazione del più beota asservimento.
Stiamo truffando e annientando una generazione intera. Ora lo stiamo facendo proprio fisicamente. Ma spiritualmente, moralmente, culturalmente il grosso del lavoro era già stato fatto e il terreno era ampiamente dissodato.
Lo Stato, appropriandosi manu militari dei suoi sudditi in erba, li vuole crescere ligi, uguali e obbedienti. L’arma vincente, per ottenere la piena uniformità di vedute e comportamenti, ed evitare disertori, è la minaccia dell’esclusione dei non conformi dal gruppo dei pari.
In questo delirio collettivo, è sbocciata addirittura una nuova virtù civica, la delazione (che si è aggiunta alla lista dei comandamenti del bravo cittadino globale, allevato in batteria col becchime della Agenda ONU 2030). Il sicofante, prototipo del personaggio spregevole nella letteratura classica, è diventato un eroe nella nuova catechesi scolastica.
La scuola dell’emergenza – un grottesco surrogato di scuola – era stato definito dall’UNESCO (propaggine ONU per l’educazione, la scienza e la cultura), come «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». Siamo, appunto, nell’era degli esperimenti di massa. Ce lo dicono a chiare lettere, ormai non c’è più nulla di nascosto, la fase carsica dell’esecuzione del piano egemonico è superata, ora è tutto alla luce del sole. Pornograficamente
Si sa bene quanto la pressione del gruppo abbia il potere di conformare fino a intimamente persuadere, soprattutto chi fisiologicamente ha bisogno del gruppo per identificarsi e via via identificare se stesso, e per sbalzare fuori così la propria personalità. Sapevano di affondare il coltello nel burro. Li avevano già programmati per rispondere a un determinato segnale.
Ma di questo trattamento crudele e zootecnico in cui sono rimaste invischiate le nuove generazioni, e non da oggi, i primi responsabili ovviamente siamo noi, i loro ascendenti. Abbiamo assistito in questi mesi al film impietoso e grottesco di genitori storditi, e nonni teledipendenti, ripiegati tutti sul proprio travolgente egotismo, che non hanno fatto altro che avallare una narrazione drogata e rincarare ab intra le vessazioni inflitte a quei figli che, invece, avrebbero dovuto proteggere dagli abusi e armare con le armi della ragione, dell’autonomia, del coraggio.
Senza colpo ferire li hanno consegnati al leviatano, come vittime sacrificali. Nel senso letterale, perché in questi rituali si praticano anche sacrifici umani.
L’idea estrema che deve passare è che bisogna mettere nel conto anche i sacrifici umani, la gente deve imparare ad accettarli in nome del calcolo utilitarista: alcuni muoiono, magari tu stesso muori, ma siccome secondo la vulgata altri da queste morti trarrebbero beneficio, nel bilancio demenziale inculcato alle masse rintronate va bene così. In un clamoroso quanto devastante ribaltamento dei principi morali più elementari, della logica e, ancor prima, del primordiale istinto di conservazione.
Paradossalmente, la leva che ci ha portato fino a dover subire la schiavitù più feroce che sta umiliando le nostre vite è stata proprio l’ubriacatura della finta libertà.
L’uomo si è persuaso di potersi autodeterminare senza limiti nel suo brodo individualistico ed edonistico, fino al punto di sbarazzarsi persino della realtà, della natura e della stessa fisiologia. Ma l’uomo-misura di tutte le cose, quello che si dà le proprie leggi senza alcun parametro superiore, non può che approdare al proprio suicidio. Un po’ come la barca che perde il timoniere o gli strumenti di bordo e non vede più le stelle sopra di sé a darle l’orientamento. Ci siamo schiacciati rasoterra e ci siamo chiusi il cielo sopra di noi.
L’immanentizzazione della religione, completamente addomesticata alle logiche adulterate del mondo, è stata, in questo processo, decisiva.
Stiamo truffando e annientando una generazione intera. Ora lo stiamo facendo proprio fisicamente. Ma spiritualmente, moralmente, culturalmente
Non è un’iperbole paragonare i connotati dell’ora presente a quelli dell’universo concentrazionario, di cui la letteratura ci offre descrizioni mirabili, ma dalle quali non abbiamo tratto l’insegnamento che avremmo dovuto. Del resto, c’è un motivo per cui la storia non si insegna e non si impara più.
In Arcipelago Gulag, Solženicyn racconta la vita nelle centinaia di lager in cui, fra il 1930 e il 1953, sono transitati circa venti milioni di cittadini sovietici. Ogni lager era un’isola dell’Arcipelago.
A un certo punto della sua opera, l’autore elenca i veleni che, dal vasto mare dei lager, si propagarono in tutta la Russia, fino a deformare anche la cosiddetta «vita libera» di coloro che stavano oltre i reticolati. Questi veleni, diffusi come un gas tossico, dappertutto, erano: «costante paura, marchiatura, circospezione e diffidenza, generale ignoranza, delazione, corruzione, tradimento e menzogna come forma di esistenza, crudeltà, psicologia da schiavi».
Meno di un secolo dopo, ciascuna di queste componenti, nessuna esclusa, si ripropone e stende sulla società lo stesso reticolato invisibile. Anzi, l’insieme di questi elementi esce amplificato dalla potenza di fuoco, e dalla estensione senza confini territoriali, del progresso tecnologico, soprattutto biotecnologico. Il nostro è un lager planetario.
L’idea estrema che deve passare è che bisogna mettere nel conto anche i sacrifici umani, la gente deve imparare ad accettarli in nome del calcolo utilitarista: alcuni muoiono, magari tu stesso muori, ma siccome secondo la vulgata altri da queste morti trarrebbero beneficio, nel bilancio demenziale inculcato alle masse rintronate va bene così. In un clamoroso quanto devastante ribaltamento dei principi morali più elementari, della logica e, ancor prima, del primordiale istinto di conservazione
Ciò che davvero interessa i suoi tenutari non è l’egemonia economica o l’espansione geopolitica, ma è il dominio sull’uomo, nel corpo e nel pensiero: la sua umiliazione, la sua riduzione, secondo un piano antico, esplicito e ordinatissimo, che operativamente possiamo ricondurre al Club di Roma alla fine degli anni Sessanta, ma le cui radici teoriche risalgono al Malthus di qualche secolo prima. Era stato messo in fila da tempo tutto ciò che serve all’avvento del postumano e del transumano. Cioè, dell’anti-umano.
Ecco allora i piani di riduzione della popolazione, detti graziosamente di «pianificazione famigliare» (Planned Parenthood). Ecco la sterilizzazione generalizzata, chiamata con la formula più carina di «sviluppo sostenibile» (che è poi il titolo della Agenda 2030), ecco la decrescita più o meno felice. Ovvero la contrazione terminale del sistema tutto: delle libertà, della procreazione, del lavoro. In una parola, della Civiltà.
L’uomo, l’Imago Dei, va annientato.
Alla depopolazione, secondo il programma neomalthusiano che sta alla radice delle agende sovranazionali da qualche decennio a questa parte, si procede attraverso due direttrici interdipendenti: la sterilizzazione e l’eugenetica.
Il mondo nuovo è un mondo sterilizzato, in ogni senso possibile. Sia nel senso che l’umanità va resa sterile, cioè va messa in condizione di non riprodursi naturalmente, e va educata a essere sterile. Sia nel senso che deve nascere, vivere e morire in ambiente sterile: la fecondazione avviene in provetta e l’utero artificiale – si dice in ambienti sedicenti scientifici – sarebbe preferibile all’utero materno perché a differenza di questo è un ambiente sterile; allo scemare della qualità della vita – qualità misurata secondo il metro arbitrario di chi comanda – c’è l’eutanasia a garantire una dipartita pulita, anch’essa in ambiente sterile e sanificato; infine, la cremazione assicura l’igiene post mortem.
Ciò che davvero interessa i suoi tenutari non è l’egemonia economica o l’espansione geopolitica, ma è il dominio sull’uomo, nel corpo e nel pensiero: la sua umiliazione, la sua riduzione, secondo un piano antico, esplicito e ordinatissimo, che operativamente possiamo ricondurre al Club di Roma alla fine degli anni Sessanta, ma le cui radici teoriche risalgono al Malthus di qualche secolo prima. Era stato messo in fila da tempo tutto ciò che serve all’avvento del postumano e del transumano. Cioè, dell’anti-umano.
Tutto risponde a un disegno contronaturale, contro il logos (contro il bio-logos) che sovrintende al creato. Contro la carne e lo spirito.
L’uomo deve essere pian piano sostituito dal prodotto fabbricato in laboratorio, all’ultimo grido dell’ingegneria eugenetica. L’ultimo grido si chiama CRISPR. Il CRISPR è il procedimento biotecnologico di editing genetico, cioè di taglia e cuci molecolare, con cui nel DNA vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena genetica.
Le tecniche connesse con la fecondazione in vitro (il grande affare della provetta) servono a programmare i connotati dell’essere umano nella fase che precede l’impianto dell’embrione. Ancora una volta, su modello zootecnico. Li abbiamo già, i bambini geneticamente modificati, tipo le famose gemelline cinesi, nate nel 2019 AIDS-free (immuni all’HIV) con la tecnica CRISPR.
Un co-scopritore del CRISPR ha detto a chiare lettere che «fare il bambino con il CRISPR sarà come vaccinarlo». La provetta cioè, di fatto, come cantiere prenatale della vita diventa una sorta di vaccino preventivo incorporato nel procedimento di fabbricazione del manufatto umano, in modo che il prodotto sottoforma di bambino possa essere consegnato all’aspirante genitore insieme al relativo certificato di garanzia: immune all’HIV, o un domani immune al Covid, ma anche, per esempio, dotato di ossa indistruttibili, o di orecchio assoluto, di intelligenza matematica.
Il genetista sir Richard Dawkins nel 2006 diceva che è lecito chiedersi, essendo ormai passati sessant’anni dalla morte di Hitler, quale sia la differenza morale tra la riproduzione di esseri con abilità musicali, e il costringere un bambino a prendere lezioni di musica. O tra l’allenare corridori veloci o saltatori in alto, e riprodurli.
L’uomo deve essere pian piano sostituito dal prodotto fabbricato in laboratorio, all’ultimo grido dell’ingegneria eugenetica. L’ultimo grido si chiama CRISPR. Il CRISPR è il procedimento biotecnologico di editing genetico, cioè di taglia e cuci molecolare, con cui nel DNA vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena genetica
Cosa significa questo? Significa che, sotto la suggestione del miglioramento della progenie (il che dovrebbe ricordare qualcosa, ma di nuovo il non studiare più la storia serve anche a dimenticare gli orrori del passato), stiamo allegramente consegnando ai signori delle farmaceutiche il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite.
In cambio dell’illusione di ottenere il figlio perfetto, munito dei connotati scelti da catalogo, liberato a priori da una lista di malattie e affrancato dai rischi connessi alla lotteria della natura (una roulette russa, in fondo), in cambio di questa illusione, siamo disposti a cedere il rubinetto della vita alle multinazionali del farmaco e ai filantropi che le controllano, che potranno accenderlo o spegnerlo a piacimento, e possono condurre impuniti i loro esperimenti eugenetici.
Non ci vuole molto a capire come l’agenda segnata voglia che la procreazione, da naturale, debba diventare sintetica. Cioè de-sessualizzarsi (il sesso viene relegato a funzione ricreativa, ma sterile) e spostarsi verso il paradigma della “fertilizzazione”, come nella zootecnia (con relative selezioni e manipolazioni tecnologiche).
Il «padre» della prima bambina concepita in provetta nel 1978 – il prototipo Louise Brown – per la sua impresa conquistò nel 2010 il Nobel per la medicina. Nella motivazione del premio, si legge che, grazie a lui, «la fecondazione in vitro passa da visione a realtà, e comincia una nuova era della medicina». E lui, sir Robert Edwards, dichiarò, papale papale, di essere riuscito a dimostrare con successo di sapersi mettere al posto di Dio. E preconizzava compiaciuto che «presto sarà colpa dei genitori avere un bambino portatore di disordini genetici». Vale a dire che, nella sua testa, la normalizzazione della provetta doveva gradualmente portare verso la demonizzazione della generazione naturale.
Le tecniche connesse con la fecondazione in vitro (il grande affare della provetta) servono a programmare i connotati dell’essere umano nella fase che precede l’impianto dell’embrione. Ancora una volta, su modello zootecnico. Li abbiamo già, i bambini geneticamente modificati, tipo le famose gemelline cinesi, nate nel 2019 AIDS-free (immuni all’HIV) con la tecnica CRISPR
Ha fatto proseliti costui, perché il nostro ministero della salute qualche anno fa, in occasione del lancio dei cosiddetti Fertility Day (una bella trovata della Lorenzin acclamata dalla galassia cattolica), diceva che la FIVET, «nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta forse assumendo il significato di un’alternativa fisiologica». Cioè, alla procreazione come madre natura l’ha pensata. Alternativa fisiologica è il passaggio che precede la «scelta obbligata» perché, in questo ordine di idee, la procreazione naturale, quella appunto affidata alla roulette russa della natura, deve diventare un rischio assurdo e correrlo una scelta irresponsabile, da persone civicamente ineducate e anche un po’ egoiste: oggi infatti il progresso offre la possibilità di eliminare gli imprevisti attraverso la riprogenetica, sterilizzata e selettiva, quella che produce e consegna designer babies su ordinazione, chiavi in mano e in garanzia.
Il punto è che la fecondazione artificiale, cioè la fabbricazione dell’uomo in laboratorio, è intimamente e inscindibilmente interconnessa alla eugenetica. Per una questione di logica invincibile. Se io ordino un bambino e, dopo tutta la filiera, mi viene consegnata una creatura con qualche patologia o senza gli optional richiesti è, tecnicamente, un aliud pro alio.
Lo stesso Edwards non ha mai fatto mistero né del proprio brutale orizzonte utilitarista, né del proprio credo eugenetico. «Quando la gente dice che la diagnosi preimpianto è costosa, rispondo sempre: qual è il prezzo di un bambino disabile che nasce? Qual è il costo che ognuno deve sopportare? È un prezzo terribile per tutti, e il costo economico è immenso. Per una diagnosi preimpianto, a confronto, servono davvero pochi soldi». L’eroe della scienza, vincitore del premio Nobel, portatore per definizione di un’alta vocazione umanitaria, colui che ha inaugurato una nuova era della medicina, può permettersi impunemente di parlare come un Mengele. Il grande innominato che ci ha lasciato in eredità un sacco di cloni in incognita.
Cosa significa questo? Significa che, sotto la suggestione del miglioramento della progenie (il che dovrebbe ricordare qualcosa, ma di nuovo il non studiare più la storia serve anche a dimenticare gli orrori del passato), stiamo allegramente consegnando ai signori delle farmaceutiche il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite
Quindi, alla base della legge 40/2004 («norme in materia di procreazione medicalmente assistita)» – per inciso legge voluta e scritta dal mondo cattolico e prolife – e poi alla base dell’ingresso della fecondazione artificiale nei LEA di Stato non vi è di certo la preoccupazione di incentivare le nascite, come qualcuno voleva farci credere, a partire appunto dai cattolici. Peraltro e per inciso, se c’era bisogno di una riprova di come tutti rispondano a un unico richiamo e a interessi convergenti, basti dire che oggi i cosiddetti prolife italiani sono tutti presi a promuovere la bontà dei cosiddetti «vaccini» OGM: e con questo è detto tutto.
La FIVET è subdola perché si presenta al pubblico sotto la maschera della vita (dietro il paravento caritatevole di fornire un bimbo in braccio a chi lo desideri e che, siccome ogni volontà desiderante oggi si tramuta magicamente in diritto, sarebbe titolare del cosiddetto «diritto alla genitorialità»). Ma il suo obiettivo, per chi vede la luna e non si ostina a guardare il dito, è tutt’altro e prevale su tutto: è appunto la desessualizzazione della procreazione, la sua artificializzazione, connessa con la selezione eugenetica della specie, in costanza di libera orgia, purché sterile.
La FIVET in quanto tale – omologa, eterologa, la sostanza non cambia – porta con sé la reificazione e la mercificazione dell’uomo. Esattamente a questo mirano i ministeri che si chiamano della salute, mira la neochiesa, mirano soprattutto le multinazionali del farmaco, i loro scagnozzi e i loro padroni.
E intanto l’uomo, nel silenzio generalizzato, si derubrica a manufatto di precisione, a prodotto industriale come un altro, soggetto alle regole del mercato e alla logica del profitto, diventa un codice a barre. Una monade senza identità, privata persino delle radici di un padre e di una madre, di un grembo e di una famiglia, al di fuori di quella catena che, da che mondo è mondo, lega insieme le generazioni. E che a tutti i costi si vuole spezzare, con conseguenze che nemmeno gli scienziati-stregoni sono in grado di prevedere. Fanno esperimenti, loro.
In cambio dell’illusione di ottenere il figlio perfetto, munito dei connotati scelti da catalogo, liberato a priori da una lista di malattie e affrancato dai rischi connessi alla lotteria della natura (una roulette russa, in fondo), in cambio di questa illusione, siamo disposti a cedere il rubinetto della vita alle multinazionali del farmaco e ai filantropi che le controllano, che potranno accenderlo o spegnerlo a piacimento, e possono condurre impuniti i loro esperimenti eugenetici
Ora la Francia, come sempre all’avanguardia, ha in dirittura di arrivo una legge che consentirà la ricerca senza limiti sulle cellule staminali embrionali umane, la creazione di gameti artificiali, copie di embrioni umani, embrioni chimerici ed embrioni transgenici. Cioè permetterà, di fatto, la trasformazione dell’uomo in un organismo geneticamente modificato, e l’attraversamento della barriera delle specie. Ovviamente, tutto dietro il paravento del progresso medico-scientifico e biotecnologico, per il bene dell’umanità. L’Italia, come sempre, seguirà a ruota.
Secondo una nota genetista francese, Henrion-Caude, c’è un rapporto diretto tra i trattamenti genici sperimentali di massa a mRNA, diffusi a seguito della pandemia da COVID-19, e gli orizzonti spalancati dalla nuova legge francese che liberalizza la manipolazione del DNA degli embrioni. Entrambe sono manovre di chiara matrice transumanista. Dove il transumanesimo diventa una operazione di massa.
Evidentemente, l’obiettivo è controllare il seme della stirpe dell’uomo, il suo codice genetico, il codice della vita.
Quello che stiamo vedendo e vivendo ora non è altro che l’esito cibernetico della hybris antica e il precipitato finale del non serviam, il binomio suicida con cui la creatura, disconoscendo il proprio statuto, addenta il frutto dell’albero della vita.
Il 12 febbraio 1974, giorno del suo arresto cui seguì l’espulsione dalla Russia, fu pubblicata la celebre esortazione di Solženicyn ai suoi compatrioti, intitolata Vivere senza menzogna.
La FIVET è subdola perché si presenta al pubblico sotto la maschera della vita (dietro il paravento caritatevole di fornire un bimbo in braccio a chi lo desideri e che, siccome ogni volontà desiderante oggi si tramuta magicamente in diritto, sarebbe titolare del cosiddetto «diritto alla genitorialità»). Ma il suo obiettivo, per chi vede la luna e non si ostina a guardare il dito, è tutt’altro e prevale su tutto: è appunto la desessualizzazione della procreazione, la sua artificializzazione, connessa con la selezione eugenetica della specie, in costanza di libera orgia, purché sterile.
«Stiamo ormai per toccare il fondo, su tutti noi incombe la più completa rovina spirituale, sta per divampare la morte fisica che incenerirà noi e i nostri figli, e, noi continuiamo a farfugliare con un pavido sorriso: Come potremmo impedirlo? Non ne abbiamo la forza. Siamo a tal punto disumanizzati, che per la modesta zuppa di oggi siamo disposti a sacrificare qualunque principio, la nostra anima, tutti gli sforzi di chi ci ha preceduto, ogni possibilità per i posteri, pur di non disturbare la nostra grama esistenza. Non abbiamo più nessun orgoglio, nessuna fermezza, nessun ardore nel cuore. (…) Davvero non c’è alcuna via d’uscita? E non ci resta se non attendere inerti che qualcosa accada da sé? Ciò che ci sta addosso non si staccherà mai da sé, se continueremo tutti ogni giorno ad accettarlo, ossequiarlo, consolidarlo, se non respingeremo almeno la cosa a cui più è sensibile. Se non respingeremo la menzogna. (…) Ed è proprio qui che si trova la chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è tanto semplice e accessibile: il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini per opera mia! (…) Per i giovani che vorranno vivere secondo la verità, all’inizio l’esistenza si farà alquanto complicata: persino le lezioni che si apprendono a scuola sono infatti zeppe di menzogne… Ma per chi voglia essere onesto non c’è scappatoia…: mai, neanche nelle più innocue materie tecniche, si può evitare l’uno o l’altro dei passi che si son descritti, dalla parte della verità o dalla parte della menzogna: dalla parte dell’indipendenza spirituale o dalla parte della servitù dell’anima. E chi non avrà avuto neppure il coraggio di difendere la propria anima non ostenti le sue vedute d’avanguardia, non si vanti d’essere un accademico o un «artista del popolo» o un generale: si dica invece, semplicemente: sono una bestia da soma e un codardo, mi basta stare al caldo a pancia piena. Ma se ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo di lamentarci che qualcuno non ci lascerebbe respirare: siamo noi stessi che non ce lo permettiamo. Pieghiamo la schiena ancora di più, aspettiamo dell’altro, e i nostri fratelli biologi faranno maturare i tempi in cui si potranno leggere i nostri pensieri e mutare i nostri geni. Se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: A che servono alle mandrie i doni della libertà?».
Solženicyn ha fatto conoscere al mondo i meandri maligni dell’Arcipelago Gulag; ma, insieme a questi, ha fatto conoscere anche i tanti ricoveri spirituali di cui l’arcipelago, nonostante tutto, era disseminato. Perché, proprio là dentro, gli uomini che intendevano mantenere integro il loro cuore potevano trovare la via della salvezza.
La FIVET in quanto tale – omologa, eterologa, la sostanza non cambia – porta con sé la reificazione e la mercificazione dell’uomo. Esattamente a questo mirano i ministeri che si chiamano della salute, mira la neochiesa, mirano soprattutto le multinazionali del farmaco, i loro scagnozzi e i loro padroni.
Non a caso egli titola L’anima e il reticolato la parte della sua opera dedicata alla rinascita spirituale sua e di tanti suoi compagni di prigionia.
Senza volerlo, i reticolati erano divenuti riparo di una terra benedetta, fecondata dai martiri, e fiorita di quel cristianesimo di cui la rivoluzione aveva cancellato sì le tracce, ma senza distruggere la semente.
Oggi i renitenti alla leva della menzogna sono chiamati, ancora una volta, ad uno sforzo che sembra sovrumano.
Ma la pillola rossa una volta inghiottita produce effetti irreversibili e dirompenti: fa saltare fuori dalla società anestetizzata. La cosa ostica e insieme tremenda da digerire è che lo Stato ti vuole male, che lo Stato, al quale tu peraltro versi le tasse, in realtà lavora per il tuo danno. Che la forza di gravità delle istituzioni non tende al bene comune, ma al male comune. Questa prospettiva genera una dissonanza cognitiva insostenibile, che i più rifiutano a priori, perché, per lo meno in prima battuta, getta nella sensazione terribile dell’abbandono.
La cosa ostica e insieme tremenda da digerire è che lo Stato ti vuole male, che lo Stato, al quale tu peraltro versi le tasse, in realtà lavora per il tuo danno. Che la forza di gravità delle istituzioni non tende al bene comune, ma al male comune. Questa prospettiva genera una dissonanza cognitiva insostenibile, che i più rifiutano a priori, perché, per lo meno in prima battuta, getta nella sensazione terribile dell’abbandono
Invece questa prova va affrontata con determinazione.
Innanzitutto con la consapevolezza che abbiamo a che fare con un’Idra dalle molte teste ma da un unico corpo, cioè tanti filoni in apparenza a se stanti fanno capo a un mostro ideologicamente compatto.
Poi con la certezza che la Verità non è quella creata da chi in un dato momento si è conquistato una posizione di supremazia, ma è qualcosa che ci precede e ci resiste, e non si definisce a colpi di maggioranze: la menzogna rimane menzogna anche se la maggioranza la professa e pretende di imporla a tutti come regola di vita.
A noi tocca ogni sforzo per far uscire i nostri figli da questo folle involucro di conformismo e pseudo sicurezza in cui li vogliono ingabbiare per disinnescare la loro vitalità, addestrandoli alla passività cadaverica, smerciando loro in cambio una libertà falsa, del tutto illusoria. In questa sterile sbornia libertaria va risvegliata l’esigenza della trasgressione, che dovrebbe essere peraltro una attitudine congeniale a chi si affaccia alla vita. Va stimolato l’esercizio dello spirito critico sopra ogni regola di cui è preteso il rispetto acritico attraverso un martellamento ossessivo di messaggi di morte e di terrore, e di ricatti e intimidazioni che creano un cupo rumore di fondo.
Dobbiamo fare ogni sforzo per tenere viva nelle nuove generazioni la capacità di elaborare e manifestare un pensiero libero, il che implica la capacità di reggere il dissenso, anche in condizioni di solitudine o di minoranza. Per far questo servono le energie culturali e serve la forza spirituale, interiore, per poter dire: non in mio nome.
Alla dittatura biosecuritaria e ai suoi farmaci transumanisti abbiamo qualcosa di grande da opporre: abbiamo il patrimonio spirituale e la forza del logos di una straordinaria Civiltà, germogliata e sedimentata in questa nostra terra, luogo dell’innesto del cristianesimo nella cultura e nel pensiero dei classici.
Alla dittatura biosecuritaria e ai suoi farmaci transumanisti abbiamo qualcosa di grande da opporre: abbiamo il patrimonio spirituale e la forza del logos di una straordinaria Civiltà, germogliata e sedimentata in questa nostra terra, luogo dell’innesto del cristianesimo nella cultura e nel pensiero dei classici.
Abbiamo l’orgoglio delle nostre radici e della nostra identità, un vincolo materiale, fatto di terra e di sangue, in cui riconoscerci. Abbiamo anche il legame fondato sull’idem sentire, un legame che si stringe nel momento della verità, ed è in grado di generare nuove e feconde alleanze. Abbiamo la nostra coscienza, un bene che nessuno potrà mai imprigionare tra i reticolati, e che dobbiamo tenacemente continuare a nutrire di vera libertà.
Per tutto questo insieme, e soprattutto per la responsabilità che non possiamo non sentire, enorme, verso chi ci succede, ci sarà dato infine anche il coraggio, un’arma grande e benedetta che rende sempre onore a chi la prende con sé.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente pubblicato sul sito dell’autrice.
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Civiltà
«Pragmatismo e realismo, rifiuto della filosofia dei blocchi». Il discorso di Putin a Valdai 2025: «la Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione»

Renovatio 21 pubblica il discorso del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin all’edizione 2025 del Club Valdai.
È improbabile che io possa formulare linee guida o istruzioni, e non è questo il punto, perché spesso le persone chiedono istruzioni o consigli solo per poi non seguirli. Questa formula è ben nota.
Vorrei esprimere la mia opinione su ciò che sta accadendo nel mondo, sul ruolo del nostro Paese in tutto questo e su come ne vediamo le prospettive di sviluppo.
Il Valdai International Discussion Club si è riunito per la 22a volta e questi incontri sono diventati più di una semplice tradizione. Le discussioni sulle piattaforme Valdai offrono un’opportunità unica per valutare la situazione globale in modo imparziale e completo, per individuare i cambiamenti e comprenderli.
Indubbiamente, la forza unica del Club risiede nella determinazione e nella capacità dei suoi partecipanti di guardare oltre il banale e l’ovvio. Non si limitano a seguire l’agenda imposta dallo spazio informativo globale, dove internet fornisce il suo contributo – sia positivo che negativo, spesso difficile da discernere – ma pongono domande non convenzionali, offrono la propria visione dei processi in corso, cercando di sollevare il velo che nasconde il futuro. Non è un compito facile, ma qui a Valdai ci si riesce spesso.
Abbiamo ripetutamente notato che viviamo in un’epoca in cui tutto sta cambiando, e molto rapidamente; direi addirittura radicalmente. Naturalmente, nessuno di noi può prevedere appieno il futuro. Tuttavia, questo non ci esonera dalla responsabilità di essere preparati. Come il tempo e gli eventi recenti hanno dimostrato, dobbiamo essere pronti a tutto. In tali periodi storici, ognuno ha una responsabilità speciale per il proprio destino, per il destino del proprio Paese e per quello del mondo in generale. La posta in gioco oggi è estremamente alta.
Come già accennato, il rapporto del Valdai Club di quest’anno è dedicato a un mondo multipolare e policentrico. Il tema è da tempo all’ordine del giorno, ma ora richiede un’attenzione particolare; su questo punto concordo pienamente con gli organizzatori. La multipolarità che di fatto è già emersa sta plasmando il quadro entro cui agiscono gli Stati. Vorrei provare a spiegare cosa rende unica la situazione attuale.
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In primo luogo, il mondo odierno offre uno spazio molto più aperto – anzi, si potrebbe dire creativo – per la politica estera. Nulla è predeterminato; gli sviluppi possono prendere direzioni diverse. Molto dipende dalla precisione, dall’accuratezza, dalla coerenza e dalla ponderatezza delle azioni di ciascun partecipante alla comunicazione internazionale. Eppure, in questo vasto spazio è anche facile perdersi e perdere l’orientamento, cosa che, come possiamo vedere, accade piuttosto spesso.
In secondo luogo, lo spazio multipolare è altamente dinamico. Come ho detto, il cambiamento avviene rapidamente, a volte all’improvviso, quasi da un giorno all’altro. È difficile prepararsi e spesso impossibile prevederlo. Bisogna essere pronti a reagire immediatamente, in tempo reale, come si dice.
In terzo luogo, e di particolare importanza, è il fatto che questo nuovo spazio è più democratico. Apre opportunità e percorsi per un’ampia gamma di attori politici ed economici. Forse mai prima d’ora così tanti Paesi hanno avuto la capacità o l’ambizione di influenzare i processi regionali e globali più significativi.
Poi. Le specificità culturali, storiche e di civiltà dei diversi Paesi giocano oggi un ruolo più importante che mai. È necessario cercare punti di contatto e convergenza di interessi. Nessuno è disposto a giocare secondo le regole stabilite da qualcun altro, da qualche parte lontano – come cantava un chansonnier molto noto nel nostro Paese, «al di là delle nebbie», o al di là degli oceani, per così dire.
A questo proposito, il quinto punto: qualsiasi decisione è possibile solo sulla base di accordi che soddisfino tutte le parti interessate o la stragrande maggioranza. Altrimenti, non ci sarà alcuna soluzione praticabile, ma solo frasi ad alta voce e un infruttuoso gioco di ambizioni. Pertanto, per ottenere risultati, armonia ed equilibrio sono essenziali.
Infine, le opportunità e i pericoli di un mondo multipolare sono inscindibili l’uno dall’altro. Naturalmente, l’indebolimento del diktat che ha caratterizzato il periodo precedente e l’espansione della libertà per tutti rappresentano innegabilmente uno sviluppo positivo. Allo stesso tempo, in tali condizioni, è molto più difficile trovare e stabilire questo solido equilibrio, il che rappresenta di per sé un rischio evidente ed estremo.
Questa situazione sul pianeta, che ho cercato di delineare brevemente, è un fenomeno qualitativamente nuovo. Le relazioni internazionali stanno subendo una trasformazione radicale. Paradossalmente, la multipolarità è diventata una conseguenza diretta dei tentativi di stabilire e preservare l’egemonia globale, una risposta del sistema internazionale e della storia stessa al desiderio ossessivo di organizzare tutti in un’unica gerarchia, con i paesi occidentali al vertice. Il fallimento di un simile tentativo era solo questione di tempo, qualcosa di cui, tra l’altro, abbiamo sempre parlato. E, per gli standard storici, è avvenuto piuttosto rapidamente.
Trentacinque anni fa, quando il confronto della Guerra Fredda sembrava volgere al termine, speravamo nell’alba di un’era di autentica cooperazione. Sembrava che non ci fossero più ostacoli ideologici o di altra natura che potessero impedire la risoluzione congiunta dei problemi comuni all’umanità o la regolazione e la risoluzione di inevitabili controversie e conflitti sulla base del rispetto reciproco e della considerazione dei reciproci interessi.
Concedetemi qui una breve digressione storica. Il nostro Paese, nel tentativo di eliminare i motivi di scontro di blocco e di creare uno spazio comune di sicurezza, ha dichiarato due volte la propria disponibilità ad aderire alla NATO. La prima volta nel 1954, durante l’era sovietica. La seconda volta durante la visita del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Mosca nel 2000 – ne ho già parlato – quando abbiamo discusso anche di questo argomento con lui.
In entrambe le occasioni, abbiamo ricevuto un rifiuto netto e netto. Lo ripeto: eravamo pronti a un lavoro congiunto, a passi non lineari nell’ambito della sicurezza e della stabilità globale. Ma i nostri colleghi occidentali non erano disposti a liberarsi dalle catene degli stereotipi geopolitici e storici, da una visione semplificata e schematica del mondo.
Ne ho parlato pubblicamente anche quando ne ho discusso con il signor Clinton, con il presidente Clinton. Lui ha detto: «sai, è interessante. Penso che sia possibile». E poi la sera ha detto: «mi sono consultato con i miei collaboratori: non è fattibile, non è fattibile ora». «Quando sarà fattibile?» E questo è tutto, è svanito tutto.
In breve, avevamo una reale opportunità di orientare le relazioni internazionali in una direzione diversa e più positiva. Eppure, ahimè, prevalse un approccio diverso. I paesi occidentali cedettero alla tentazione del potere assoluto. Era davvero una tentazione potente, e resistervi avrebbe richiesto una visione storica e una solida preparazione, intellettuale e storica. Sembra che coloro che presero le decisioni in quel momento semplicemente non avessero entrambe le caratteristiche.
In effetti, il potere degli Stati Uniti e dei suoi alleati raggiunse l’apice alla fine del XX secolo. Ma non c’è mai stata, né ci sarà mai, una forza in grado di governare il mondo, dettando a tutti come agire, come vivere, persino come respirare. Tentativi del genere sono stati fatti, ma sono tutti falliti.
Tuttavia, dobbiamo riconoscere che molti trovavano accettabile e persino conveniente il cosiddetto ordine mondiale liberale. È vero, una gerarchia limita fortemente le opportunità per coloro che non si trovavano in cima alla piramide, o, se preferite, in cima alla catena alimentare. Ma coloro che si trovavano in fondo erano sollevati da ogni responsabilità: le regole erano semplici: accettare i termini, inserirsi nel sistema, ricevere la propria quota, per quanto modesta, ed essere contenti. Altri avrebbero pensato e deciso per noi.
E non importa cosa si dica ora, non importa quanto si cerchi di mascherare la realtà: è andata così. Gli esperti qui riuniti lo ricordano e lo capiscono perfettamente.
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Alcuni, nella loro arroganza, si ritenevano autorizzati a fare la predica al resto del mondo. Altri si accontentavano di assecondare i potenti come obbedienti pedine di scambio, desiderosi di evitare inutili problemi in cambio di un bonus modesto ma garantito. Ci sono ancora molti politici di questo tipo nella parte vecchia del mondo, in Europa.
Coloro che osavano opporsi e cercavano di difendere i propri interessi, diritti e opinioni, venivano, nella migliore delle ipotesi, liquidati come eccentrici e, in pratica, veniva loro detto: «non ce la farete, quindi arrendetevi e accettate che, in confronto al nostro potere, siete una nullità». Quanto ai veri testardi, venivano «educati» dai sedicenti leader globali, che non si prendevano nemmeno più la briga di nascondere le loro intenzioni. Il messaggio era chiaro: resistere era inutile.
Ma questo non ha portato nulla di buono. Nessun problema globale è stato risolto. Al contrario, se ne moltiplicano costantemente di nuovi. Le istituzioni di governance globale create in un’epoca precedente hanno cessato di funzionare o hanno perso gran parte della loro efficacia. E non importa quanta forza o risorse uno Stato, o anche un gruppo di Stati, possa accumulare, il potere ha sempre i suoi limiti.
Come sa il pubblico russo, in Russia esiste un detto: «non c’è risposta a un piede di porco, se non un altro piede di porco», ovvero non si porta un coltello a una sparatoria, ma un’altra pistola. E in effetti, quell’«altra pistola» si può sempre trovare. Questa è l’essenza stessa degli affari mondiali: emerge sempre una controforza. E i tentativi di controllare tutto generano inevitabilmente tensione, minando la stabilità interna e spingendo la gente comune a porre una domanda molto legittima ai propri governi: «perché abbiamo bisogno di tutto questo?»
Una volta ho sentito qualcosa di simile dai nostri colleghi americani, che dicevano: «abbiamo guadagnato il mondo intero, ma abbiamo perso l’America». Posso solo chiedere: ne è valsa la pena? E avete davvero guadagnato qualcosa?
È emerso un netto rifiuto delle eccessive ambizioni dell’élite politica delle principali nazioni dell’Europa occidentale, che si sta diffondendo sempre più nelle società di quei paesi. Il barometro dell’opinione pubblica lo indica in modo generalizzato. L’establishment non vuole cedere il potere, osa ingannare direttamente i propri cittadini, aggrava la situazione a livello internazionale, ricorre a ogni sorta di stratagemmi all’interno dei propri paesi, sempre più spesso ai margini della legge o addirittura oltre.
Tuttavia, trasformare continuamente le procedure democratiche ed elettorali in una farsa e manipolare la volontà dei popoli non funzionerà. Come è successo in Romania, ad esempio, ma non entreremo nei dettagli. Questo sta accadendo in molti paesi. In alcuni di essi, le autorità stanno cercando di mettere al bando i loro oppositori politici che stanno guadagnando maggiore legittimità e maggiore fiducia da parte degli elettori. Lo sappiamo per esperienza personale, in Unione Sovietica. Ricordate le canzoni di Vladimir Vysotskij: «Anche la parata militare è stata cancellata! Presto metteranno al bando tutti e tutti!». Ma non funziona, i divieti non funzionano.
Nel frattempo, la volontà del popolo, la volontà dei cittadini di quei Paesi è chiara e semplice: lasciare che i leader di quei Paesi si occupino dei problemi dei cittadini, si prendano cura della loro sicurezza e della loro qualità di vita, e non inseguire chimere. Gli Stati Uniti, dove le richieste della gente hanno portato a un cambiamento sufficientemente radicale nel vettore politico, ne sono un esempio lampante. E possiamo dire che è noto che questi esempi sono contagiosi per altri Paesi.
La subordinazione della maggioranza alla minoranza, insita nelle relazioni internazionali durante il periodo della dominazione occidentale, sta cedendo il passo a un approccio multilaterale e più cooperativo. Esso si basa su accordi tra i principali attori e sulla considerazione degli interessi di tutti. Ciò non garantisce certamente armonia e assoluta assenza di conflitti. Gli interessi dei Paesi non si sovrappongono mai completamente e l’intera storia delle relazioni internazionali è, ovviamente, una lotta per il loro raggiungimento.
Tuttavia, il clima globale fondamentalmente nuovo in cui i paesi della Maggioranza Globale stanno sempre più imponendo il loro tono, promette che tutti gli attori dovranno in qualche modo tenere conto degli interessi reciproci nella ricerca di soluzioni alle questioni regionali e globali. Dopotutto, nessuno può raggiungere i propri obiettivi da solo, isolato dagli altri. Nonostante l’escalation dei conflitti, la crisi del precedente modello di globalizzazione e la frammentazione dell’economia globale, il mondo rimane integrato, interconnesso e interdipendente.
Lo sappiamo per esperienza personale. Sapete quanti sforzi i nostri oppositori abbiano profuso negli ultimi anni per, diciamolo apertamente, estromettere la Russia dal sistema globale e spingerci verso l’isolamento politico, culturale, informativo e l’autarchia economica. Per numero e portata delle misure punitive imposteci, che vergognosamente chiamano «sanzioni», la Russia è diventata il detentore del record assoluto nella storia mondiale: 30.000, o forse anche di più, restrizioni di ogni tipo immaginabile.
E allora? Hanno raggiunto il loro obiettivo? Credo sia ovvio per tutti i presenti: questi sforzi sono completamente falliti. La Russia ha dimostrato al mondo il massimo grado di resilienza, la capacità di resistere alla più potente pressione esterna che avrebbe potuto spezzare non un solo Paese, ma un’intera coalizione di Stati. E a questo proposito, proviamo un legittimo orgoglio. Orgoglio per la Russia, per i nostri cittadini e per le nostre Forze Armate.
Ma vorrei parlare di qualcosa di più profondo. A quanto pare, lo stesso sistema globale da cui volevano espellerci si rifiuta semplicemente di lasciar andare la Russia. Perché ha bisogno della Russia come parte essenziale dell’equilibrio globale: non solo per il nostro territorio, la nostra popolazione, la nostra difesa, il nostro potenziale tecnologico e industriale o la nostra ricchezza mineraria – sebbene, ovviamente, tutti questi siano fattori di fondamentale importanza.
Ma soprattutto, l’equilibrio globale non può essere costruito senza la Russia: né l’equilibrio economico, né quello strategico, né quello culturale o logistico. Nessuno. Credo che coloro che hanno cercato di distruggere tutto questo abbiano iniziato a rendersene conto. Alcuni, tuttavia, cercano ancora ostinatamente di raggiungere il loro obiettivo: infliggere, come si dice, una «sconfitta strategica» alla Russia.
Ebbene, se non riescono a vedere che questo piano è destinato a fallire e a persistere, spero ancora che la vita stessa dia una lezione anche al più testardo di loro. Hanno fatto molto rumore molte volte, minacciandoci con un blocco totale. Hanno persino detto apertamente, senza esitazione, di voler far soffrire il popolo russo. Questa è la parola che hanno scelto. Hanno elaborato piani, uno più fantasioso dell’altro. Credo che sia giunto il momento di calmarsi, di guardarsi intorno, di orientarsi e di iniziare a costruire relazioni in un modo completamente diverso.
Sappiamo anche che il mondo policentrico è altamente dinamico. Appare fragile e instabile perché è impossibile correggere in modo permanente lo stato delle cose o determinare l’equilibrio di potere a lungo termine. Dopotutto, i partecipanti a questi processi sono molteplici e le loro forze sono asimmetriche e complesse. Ciascuno ha i suoi aspetti vantaggiosi e punti di forza competitivi, che in ogni caso creano una combinazione e una composizione uniche.
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Il mondo odierno è un sistema eccezionalmente complesso e sfaccettato. Per descriverlo e comprenderlo correttamente, le semplici leggi della logica, le relazioni di causa ed effetto e i modelli che ne derivano non sono sufficienti. Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia della complessità, qualcosa di simile alla meccanica quantistica, più saggia e, per certi versi, più complessa della fisica classica.
Eppure è proprio a causa di questa complessità del mondo che la capacità complessiva di accordo, a mio avviso, tende comunque ad aumentare. Dopotutto, le soluzioni unilaterali lineari sono impossibili, mentre le soluzioni non lineari e multilaterali richiedono una diplomazia molto seria, professionale, imparziale, creativa e a volte non convenzionale.
Sono quindi convinto che assisteremo a una sorta di rinascita, a una rinascita dell’alta arte diplomatica. La sua essenza risiede nella capacità di dialogare e raggiungere accordi, sia con i vicini e i partner che condividono gli stessi ideali, sia – non meno importante ma più impegnativo – con gli avversari.
È proprio in questo spirito – lo spirito della diplomazia del XXI secolo – che si stanno sviluppando nuove istituzioni. Tra queste, la comunità BRICS in espansione, organizzazioni di grandi regioni come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, organizzazioni eurasiatiche e associazioni regionali più compatte ma non meno importanti. Molti di questi gruppi stanno emergendo in tutto il mondo – non li elencherò tutti, poiché li conoscete già.
Tutte queste nuove strutture sono diverse, ma sono unite da una qualità cruciale: non operano secondo il principio di gerarchia o subordinazione a un singolo potere dominante. Non sono contro nessuno; sono per se stesse. Vorrei ribadirlo: il mondo moderno ha bisogno di accordi, non dell’imposizione della volontà di qualcuno. L’egemonia – di qualsiasi tipo – semplicemente non può e non vuole far fronte alla portata delle sfide.
Garantire la sicurezza internazionale in queste circostanze è una questione estremamente urgente, con numerose variabili. Il crescente numero di attori con obiettivi, culture politiche e tradizioni distintive crea un contesto globale complesso che rende lo sviluppo di approcci per garantire la sicurezza un compito molto più intricato e difficile da affrontare. Allo stesso tempo, apre nuove opportunità per tutti noi.
Le ambizioni basate su blocchi pre-programmati per esacerbare il confronto sono diventate, senza dubbio, un anacronismo privo di senso. Vediamo, ad esempio, con quanta diligenza i nostri vicini europei stiano cercando di rattoppare e stuccare le crepe che attraversano la costruzione dell’Europa. Eppure, vogliono superare le divisioni e consolidare la traballante unità di cui un tempo si vantavano, non affrontando efficacemente le questioni interne, ma gonfiando l’immagine di un nemico. È un vecchio trucco, ma il punto è che la gente in quei paesi vede e capisce tutto. Ecco perché scendono in piazza nonostante l’escalation esterna e la continua ricerca di un nemico, come ho detto prima.
Stanno ricreando l’immagine di un vecchio nemico, quello che hanno creato secoli fa, ovvero la Russia. La maggior parte delle persone in Europa fa fatica a capire perché debba avere così tanta paura della Russia da dover stringere ulteriormente la cinghia, abbandonare i propri interessi, semplicemente rinunciarvi, e perseguire politiche chiaramente dannose per loro stesse. Eppure, le élite al potere nell’Europa unita continuano a fomentare l’isteria. Affermano che la guerra con i russi è quasi alle porte. Ripetono questa assurdità, questo mantra, ancora e ancora.
Francamente, quando a volte li guardo e li ascolto, penso che non possano crederci. Non possono crederci quando dicono che la Russia sta per attaccare la NATO. È semplicemente impossibile crederci. Eppure lo stanno facendo credere al loro stesso popolo. Quindi, che tipo di persone sono? O sono completamente incompetenti, se ci credono davvero, perché credere a simili assurdità è semplicemente inconcepibile, o semplicemente disonesti, perché non ci credono loro stessi ma stanno cercando di convincere i loro cittadini che è vero. Quali altre opzioni ci sono?
Francamente, sarei tentato di dire: calmatevi, dormite sonni tranquilli e affrontate i vostri problemi. Guardate cosa sta succedendo nelle strade delle città europee, cosa sta succedendo all’economia, all’industria, alla cultura e all’identità europea, agli enormi debiti e alla crescente crisi dei sistemi di sicurezza sociale, alle migrazioni incontrollate e alla violenza dilagante – inclusa la violenza politica – alla radicalizzazione di gruppi di sinistra, ultraliberali, razzisti e altri gruppi marginali.
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Prendete nota di come l’Europa stia scivolando ai margini della competizione globale. Sappiamo perfettamente quanto siano infondate le minacce sui cosiddetti piani aggressivi della Russia, con cui l’Europa si spaventa. L’ho appena accennato. Ma l’autosuggestione è pericolosa. E semplicemente non possiamo ignorare ciò che sta accadendo; non abbiamo il diritto di farlo, per il bene della nostra sicurezza, per ribadirlo, per il bene della nostra difesa e incolumità.
Ecco perché stiamo monitorando attentamente la crescente militarizzazione dell’Europa. È solo retorica o è giunto il momento di reagire? Abbiamo sentito, e anche voi lo sapete, che la Repubblica Federale di Germania afferma che il suo esercito deve tornare a essere il più forte d’Europa. Bene, stiamo ascoltando attentamente e seguendo attentamente tutto per capire cosa si intenda esattamente con questo.
Credo che nessuno abbia dubbi sul fatto che la risposta della Russia non tarderà ad arrivare. Per usare un eufemismo, la risposta a queste minacce sarà estremamente convincente. E sarà davvero una risposta: noi stessi non abbiamo mai avviato uno scontro militare. È insensato, superfluo e semplicemente assurdo; distrae dai problemi e dalle sfide reali. Prima o poi, le società chiederanno inevitabilmente conto ai loro leader e alle loro élite di ignorare le loro speranze, aspirazioni e bisogni.
Tuttavia, se qualcuno si sente ancora tentato di sfidarci militarmente – come diciamo in Russia, la libertà è per chi è libero – provi pure. La Russia ha dimostrato più volte che quando sorgono minacce alla nostra sicurezza, alla pace e alla tranquillità dei nostri cittadini, alla nostra sovranità e ai fondamenti stessi del nostro Stato, reagiamo prontamente.
Non c’è bisogno di provocazioni. Non c’è stato un solo caso in cui la situazione si sia conclusa positivamente per il provocatore. E non ci si dovrebbero aspettare eccezioni in futuro: non ce ne saranno.
La nostra storia ha dimostrato che la debolezza è inaccettabile, poiché crea tentazione: l’illusione che si possa usare la forza per risolvere qualsiasi questione con noi. La Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione. Che questo sia ricordato da coloro che si risentono del fatto stesso della nostra esistenza, da coloro che coltivano sogni di infliggerci questa cosiddetta sconfitta strategica. A proposito, molti di coloro che ne hanno parlato attivamente, come diciamo in Russia, «Alcuni non ci sono più, altri sono lontani». Dove sono ora queste cifre?
Ci sono così tanti problemi oggettivi nel mondo, derivanti da fattori naturali, tecnologici o sociali, che spendere energie e risorse in contraddizioni artificiali, spesso inventate, è inammissibile, uno spreco e semplicemente sciocco.
La sicurezza internazionale è ormai diventata un fenomeno così sfaccettato e indivisibile che nessuna divisione geopolitica basata sui valori può frammentarlo. Solo un lavoro meticoloso e completo, che coinvolga partner diversi e si basi su approcci creativi, può risolvere le complesse equazioni della sicurezza del XXI secolo. In questo quadro, non ci sono elementi più o meno importanti o cruciali: tutto deve essere affrontato in modo olistico.
Il nostro Paese ha costantemente sostenuto – e continua a sostenere – il principio della sicurezza indivisibile. L’ho detto molte volte: la sicurezza di alcuni non può essere garantita a scapito di quella di altri. Altrimenti, non c’è alcuna sicurezza – per nessuno. L’affermazione di questo principio si è rivelata infruttuosa. L’euforia e la sfrenata sete di potere tra coloro che si consideravano vincitori dopo la Guerra Fredda – come ho ripetutamente affermato – hanno portato a tentativi di imporre a tutti nozioni unilaterali e soggettive di sicurezza.
Questa, di fatto, è diventata la vera causa principale non solo del conflitto ucraino, ma anche di molte altre gravi crisi della fine del XX secolo e del primo decennio del XXI secolo. Di conseguenza, proprio come avevamo avvertito, oggi nessuno si sente veramente al sicuro. È tempo di tornare alle basi e correggere gli errori del passato.
Tuttavia, la sicurezza indivisibile oggi, rispetto alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, è un fenomeno ancora più complesso. Non si tratta più solo di equilibrio militare e politico e di considerazioni di interesse reciproco.
La sicurezza dell’umanità dipende dalla sua capacità di rispondere alle sfide poste dai disastri naturali, dalle catastrofi provocate dall’uomo, dallo sviluppo tecnologico e dai rapidi processi sociali, demografici e informativi.
Tutto questo è interconnesso e i cambiamenti avvengono in gran parte da soli, spesso, l’ho già detto, in modo imprevedibile, seguendo una propria logica e regole interne e, a volte, oserei dire, persino al di là della volontà e delle aspettative delle persone.
In una situazione del genere, l’umanità rischia di diventare superflua, un semplice osservatore di processi che non sarà mai in grado di controllare. Cos’è questa se non una sfida sistemica per tutti noi e un’opportunità per tutti noi di lavorare insieme in modo costruttivo?
Non ci sono risposte pronte, ma credo che la soluzione alle sfide globali richieda, in primo luogo, un approccio libero da pregiudizi ideologici e da pathos didascalici, del tipo «Ora ti dico cosa fare». In secondo luogo, è importante capire che si tratta di una questione veramente comune e indivisibile, che richiede sforzi congiunti di tutti i paesi e le nazioni.
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Ogni cultura e civiltà dovrebbe dare il suo contributo perché, ripeto, nessuno conosce la risposta giusta separatamente. Questa può essere generata solo attraverso una ricerca costruttiva congiunta, combinando – non separando – gli sforzi e le esperienze nazionali dei vari Paesi.
Vorrei ripeterlo ancora una volta: conflitti e collisioni di interessi sono esistiti e, naturalmente, rimarranno per sempre: la questione è come risolverli. Un mondo policentrico, come ho già detto oggi, è un ritorno alla diplomazia classica, quando la risoluzione richiede attenzione, rispetto reciproco, ma non coercizione.
La diplomazia classica era in grado di tenere conto delle posizioni dei diversi attori internazionali, della complessità del «concerto» composto dalle voci di diverse potenze. Tuttavia, a un certo punto, è stata sostituita dalla diplomazia di stampo occidentale, fatta di monologhi, interminabili prediche e ordini. Invece di risolvere i conflitti, alcune parti hanno iniziato a far prevalere i propri interessi egoistici, considerando gli interessi di tutti gli altri indegni di attenzione.
Non c’è da stupirsi che, invece di trovare una soluzione, i conflitti siano stati ulteriormente esacerbati, fino a trasformarsi in una sanguinosa fase armata che ha portato a un disastro umanitario. Agire in questo modo significa non riuscire a risolvere alcun conflitto. Gli esempi degli ultimi 30 anni sono innumerevoli.
Uno di questi è il conflitto palestinese-israeliano, che non può essere risolto seguendo le ricette di una diplomazia occidentale sbilanciata, che ignora grossolanamente la storia, le tradizioni, l’identità e la cultura dei popoli che vi abitano. Né contribuisce a stabilizzare la situazione in Medio Oriente in generale, che anzi sta rapidamente peggiorando. Ora stiamo conoscendo più approfonditamente le iniziative del Presidente Trump. Mi sembra che in questo caso si possa ancora intravedere una luce in fondo al tunnel.
Anche la tragedia ucraina ne è un esempio orribile. È un dolore per gli ucraini e i russi, per tutti noi. Le ragioni del conflitto ucraino sono note a chiunque si sia preso la briga di approfondire i retroscena della sua attuale, più acuta fase. Non le ripeterò. Sono certo che tutti in questo pubblico le conoscano bene, così come la mia posizione su questo tema, che ho già espresso più volte.
Anche un’altra cosa è ben nota. Coloro che hanno incoraggiato, incitato e armato l’Ucraina, che l’hanno spinta a inimicarsi la Russia, che per decenni hanno alimentato un nazionalismo dilagante e un neonazismo in quel Paese, francamente – mi si perdoni la franchezza – se ne sono fregati degli interessi della Russia o, se è per questo, dell’Ucraina. Non provano nulla per il popolo ucraino. Per loro – globalisti ed espansionisti in Occidente e i loro tirapiedi a Kiev – sono materiale sacrificabile. I risultati di un simile avventurismo sconsiderato sono sotto gli occhi di tutti, e non c’è nulla da discutere.
Sorge un’altra domanda: le cose sarebbero potute andare diversamente? Lo sappiamo anche noi, e torno a ciò che disse una volta il Presidente Trump. Disse che se fosse stato in carica allora, questo si sarebbe potuto evitare. Sono d’accordo. Anzi, si sarebbe potuto evitare se il nostro lavoro con l’amministrazione Biden fosse stato organizzato diversamente; se l’Ucraina non fosse stata trasformata in un’arma distruttiva nelle mani di qualcun altro; se la NATO non fosse stata usata a questo scopo mentre avanzava verso i nostri confini; e se l’Ucraina avesse infine preservato la sua indipendenza, la sua autentica sovranità.
C’è un’altra domanda. Come avrebbero dovuto essere risolte le questioni bilaterali russo-ucraine, che erano la naturale conseguenza della disgregazione di un vasto paese e di complesse trasformazioni geopolitiche? A proposito, credo che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fosse legata alla posizione dell’allora leadership russa, che cercava di liberarsi dal confronto ideologico nella speranza che ora, con la fine del comunismo, saremmo diventati fratelli. Non è successo nulla del genere. Sono entrati in gioco altri fattori, sotto forma di interessi geopolitici. Si è scoperto che le differenze ideologiche non erano il vero problema.
Quindi, come si dovrebbero risolvere questi problemi in un mondo policentrico? Come si sarebbe affrontata la situazione in Ucraina? Credo che se ci fosse stata multipolarità, i diversi poli avrebbero, per così dire, messo alla prova il conflitto ucraino. Lo avrebbero misurato in base ai potenziali focolai di tensione e fratture nelle proprie regioni. In tal caso, una soluzione collettiva sarebbe stata molto più responsabile ed equilibrata.
L’accordo si sarebbe basato sulla consapevolezza che tutti i partecipanti a questa difficile situazione hanno interessi propri, fondati su circostanze oggettive e soggettive che semplicemente non possono essere ignorate. Il desiderio di tutti i Paesi di garantire sicurezza e progresso è legittimo. Senza dubbio, questo vale per l’Ucraina, la Russia e tutti i nostri vicini. I Paesi della regione dovrebbero avere un ruolo guida nella definizione di un sistema regionale. Hanno le maggiori possibilità di concordare un modello di interazione accettabile per tutti, perché la questione li riguarda direttamente. Rappresenta il loro interesse vitale.
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Per altri Paesi, la situazione in Ucraina è solo una carta da gioco in un gioco diverso, molto più ampio, un gioco a sé stante, che di solito ha poco a che fare con i problemi reali dei paesi coinvolti, incluso questo in particolare. È solo una scusa e un mezzo per raggiungere i propri obiettivi geopolitici, per espandere la propria area di controllo e per trarre profitti dalla guerra. Ecco perché hanno portato le infrastrutture della NATO fino alla nostra porta, e da anni guardano con faccia seria alla tragedia del Donbass e a quello che è stato essenzialmente un genocidio e uno sterminio del popolo russo sulla nostra terra storica, un processo iniziato nel 2014 sulla scia di un sanguinoso colpo di stato in Ucraina.
In contrasto con tale condotta dimostrata dall’Europa e, fino a poco tempo fa, dagli Stati Uniti sotto la precedente amministrazione, si distinguono le azioni dei paesi appartenenti alla maggioranza mondiale. Si rifiutano di schierarsi e si impegnano sinceramente per contribuire a stabilire una pace giusta. Siamo grati a tutti gli stati che negli ultimi anni si sono sinceramente impegnati per trovare una via d’uscita dalla situazione.
Tra questi figurano i nostri partner, i fondatori dei BRICS: Cina, India, Brasile e Sudafrica. Tra questi rientrano anche la Bielorussia e, tra l’altro, la Corea del Nord. Sono nostri amici nel mondo arabo e islamico, soprattutto Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Turchia e Iran. In Europa, tra questi figurano Serbia, Ungheria e Slovacchia. E molti altri paesi simili si trovano in Africa e America Latina.
Purtroppo, le ostilità non sono ancora cessate. Tuttavia, la responsabilità non ricade sulla maggioranza per non essere riuscita a fermarle, bensì sulla minoranza, in primo luogo l’Europa, che continua ad aggravare il conflitto – e a mio avviso, oggi non si intravede alcun altro obiettivo. Ciononostante, credo che la buona volontà prevarrà e, a questo proposito, non c’è il minimo dubbio: credo che anche in Ucraina si stiano verificando dei cambiamenti, seppur graduali – lo stiamo vedendo. Per quanto le menti delle persone possano essere state manipolate, si stanno comunque verificando dei cambiamenti nella coscienza pubblica, e in effetti nella stragrande maggioranza delle nazioni del mondo.
In effetti, il fenomeno della maggioranza globale rappresenta una novità negli affari internazionali. Vorrei spendere qualche parola anche su questo argomento. Qual è la sua essenza? La stragrande maggioranza degli Stati in tutto il mondo è orientata al perseguimento dei propri interessi di civiltà, tra cui spicca il loro sviluppo equilibrato e progressivo. Sembrerebbe naturale: è sempre stato così. Ma in epoche precedenti, la comprensione di questi stessi interessi è stata spesso distorta da ambizioni malsane, egoismo e dall’influenza di un’ideologia espansionistica.
Oggi, la maggior parte dei Paesi e dei popoli – proprio questa maggioranza globale – riconosce i propri veri interessi. Fondamentalmente, ora sentono la forza e la fiducia necessarie per difenderli dalle pressioni esterne – e aggiungerò che, nel promuovere e difendere i propri interessi, sono pronti a collaborare con i partner, trasformando così le relazioni internazionali, la diplomazia e l’integrazione in fonti di crescita, progresso e sviluppo. Le relazioni all’interno della maggioranza globale rappresentano un prototipo delle pratiche politiche essenziali ed efficaci in un mondo policentrico.
Questo è pragmatismo e realismo: un rifiuto della filosofia dei blocchi, un’assenza di obblighi rigidi, imposti dall’esterno, o di modelli che prevedano partner senior e junior. Infine, è la capacità di conciliare interessi che raramente si allineano completamente, ma che raramente si contraddicono fondamentalmente. L’assenza di antagonismo diventa il principio guida.
Ora sta sorgendo una nuova ondata di decolonizzazione, poiché le ex colonie stanno acquisendo, oltre alla sovranità statale, anche quella politica, economica, culturale e di visione del mondo.
Un’altra data è importante a questo proposito. Abbiamo recentemente celebrato l’80° anniversario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non è solo un’organizzazione politica universale e la più rappresentativa al mondo, ma anche un simbolo dello spirito di cooperazione, alleanza e persino fratellanza combattiva, che ci ha aiutato a unire le forze nella prima metà del secolo scorso nella lotta contro il peggior male della storia: una spietata macchina di sterminio e schiavitù.
Il ruolo decisivo nella nostra comune vittoria sul nazismo, di cui andiamo fieri, è stato ovviamente svolto dall’Unione Sovietica. Basta dare un’occhiata al numero di vittime per ciascun membro della coalizione anti-Hitler per capirlo.
L’ONU è l’eredità della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale e, finora, l’esperienza di maggior successo nella creazione di un’organizzazione internazionale volta a risolvere gli attuali problemi globali.
Si dice spesso, ormai, che il sistema delle Nazioni Unite sia paralizzato e stia attraversando una crisi. È diventato un luogo comune. Alcuni sostengono addirittura che sia ormai superato e che dovrebbe essere quantomeno radicalmente riformato. Sì, ci sono molte, moltissime carenze nelle operazioni delle Nazioni Unite. Eppure, finora non c’è stato nulla di meglio delle Nazioni Unite, e dobbiamo ammetterlo.
In realtà, il problema non è l’ONU, che ha un potenziale immenso. Il problema sta nel modo in cui noi, le Nazioni Unite che si sono disunite, stiamo utilizzando questo potenziale.
Non c’è dubbio che l’ONU debba affrontare delle sfide. Come qualsiasi altra organizzazione, dovrebbe adattarsi alle mutevoli realtà. Tuttavia, è estremamente importante preservare l’essenza fondamentale dell’ONU durante la sua riforma e il suo ammodernamento, non solo l’essenza che era insita in essa fin dalla sua nascita, ma anche l’essenza che ha acquisito nel complesso processo del suo sviluppo.
Vale la pena ricordare a questo proposito che il numero degli Stati membri delle Nazioni Unite è quasi quadruplicato dal 1945. Negli ultimi decenni, l’organizzazione, istituita su iniziativa di diversi grandi Paesi, non solo si è ampliata, ma ha anche assorbito numerose culture e tradizioni politiche diverse, acquisendo diversità e diventando una struttura realmente multipolare molto prima che il mondo diventasse multipolare. Il potenziale del sistema delle Nazioni Unite ha appena iniziato a manifestarsi e sono fiducioso che questo processo si completerà molto rapidamente nella nuova era che si sta delineando.
In altre parole, i paesi della maggioranza globale costituiscono ormai una maggioranza schiacciante presso l’ONU e la sua struttura e i suoi organi di governo dovrebbero quindi essere adattati a questo fatto, il che sarebbe anche molto più in linea con i principi fondamentali della democrazia.
Non lo nego: oggi non esiste un consenso unanime su come il mondo dovrebbe essere organizzato, su quali principi dovrebbe basarsi negli anni e nei decenni a venire. Siamo entrati in un lungo periodo di ricerca, spesso procedendo per tentativi ed errori. Quando un nuovo sistema stabile prenderà finalmente forma – e quale sarà la sua struttura – rimane un mistero. Dobbiamo essere pronti al fatto che, per un periodo considerevole, lo sviluppo sociale, politico ed economico sarà imprevedibile, a volte persino turbolento.
Per rimanere sulla rotta giusta e non perdere l’orientamento, tutti hanno bisogno di solide basi. A nostro avviso, queste basi sono, soprattutto, i valori maturati nel corso dei secoli all’interno delle culture nazionali. Cultura e storia, norme etiche e religiose, geografia e spazio: questi sono gli elementi chiave che plasmano civiltà e comunità durature. Definiscono l’identità nazionale, i valori e le tradizioni, fornendoci la bussola che ci aiuta a resistere alle tempeste della vita internazionale.
Le tradizioni sono sempre uniche; ogni nazione ha le sue. Il rispetto delle tradizioni è la prima e più importante condizione per relazioni internazionali stabili e per risolvere le sfide emergenti.
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Il mondo ha già vissuto tentativi di unificazione, di imporre modelli cosiddetti universali che si scontravano con le tradizioni culturali ed etiche della maggior parte dei popoli. L’Unione Sovietica una volta commise questo errore imponendo il suo sistema politico – lo sappiamo e, francamente, non credo che nessuno lo contesterebbe. In seguito gli Stati Uniti raccolsero il testimone, e anche l’Europa ci provò. In entrambi i casi, fallì. Ciò che è superficiale, artificiale, imposto dall’esterno non può durare. E chi rispetta le proprie tradizioni, di regola, non invade quelle degli altri.
Oggi, sullo sfondo dell’instabilità internazionale, si attribuisce particolare importanza alle fondamenta dello sviluppo di ogni nazione: quelle che non dipendono dalle turbolenze esterne. Vediamo paesi e popoli rivolgersi a queste radici. E questo sta accadendo non solo nella maggioranza globale, ma anche nelle società occidentali. Quando ognuno si concentra sul proprio sviluppo senza inseguire ambizioni inutili, diventa molto più facile trovare un terreno comune con gli altri.
Ad esempio, possiamo guardare alla recente esperienza di interazione tra Russia e Stati Uniti. Come sapete, i nostri Paesi hanno molti disaccordi; le nostre opinioni su molti dei problemi mondiali differiscono. Ma questo non è insolito per le grandi potenze; anzi, è assolutamente naturale. Ciò che conta è come risolvere questi disaccordi e se riusciremo a risolverli pacificamente.
L’attuale amministrazione della Casa Bianca è molto schietta riguardo ai propri interessi, dichiarando ciò che vuole direttamente – a volte anche bruscamente, come sono certo concorderete – ma senza inutili ipocrisie. È sempre preferibile essere chiari su ciò che l’altra parte vuole e cosa sta cercando di ottenere. È meglio che cercare di indovinare il vero significato dietro una lunga serie di equivoci, linguaggio ambiguo e vaghi accenni.
Possiamo constatare che l’attuale amministrazione statunitense è guidata principalmente dai propri interessi nazionali, così come li intende. E credo che questo sia un approccio razionale.
Ma poi, se mi permettete, la Russia ha anche il diritto di essere guidata dai propri interessi nazionali. Uno dei quali, tra l’altro, è il ripristino di relazioni pienamente consolidate con gli Stati Uniti. A prescindere dai nostri disaccordi, se due parti si trattano con rispetto, i loro negoziati – anche quelli più difficili e ostinati – saranno comunque volti a trovare un terreno comune. E questo significa che alla fine si potranno raggiungere soluzioni reciprocamente accettabili.
Multipolarità e policentrismo non sono solo concetti; sono una realtà destinata a durare. Quanto presto e con quanta efficacia potremo costruire un sistema mondiale sostenibile in questo contesto dipende ora da ciascuno di noi. Questo nuovo ordine internazionale, questo nuovo modello, può essere costruito solo attraverso sforzi universali, un’impresa collettiva a cui tutti partecipano. Voglio essere chiaro: l’era in cui un gruppo selezionato di potenze più forti poteva decidere per il resto del mondo è finita, ed è finita per sempre.
Questo è un punto che ricorderanno soprattutto coloro che provano nostalgia per l’epoca coloniale, quando era consuetudine dividere i popoli tra coloro che erano uguali e coloro che erano, per usare la famosa frase di Orwell, «più uguali degli altri». Conosciamo tutti questa citazione.
La Russia non ha mai preso in considerazione questa teoria razzista, non ha mai condiviso questo atteggiamento nei confronti di altri popoli e culture, e non lo faremo mai.
Noi rappresentiamo la diversità, la polifonia, una vera sinfonia di valori umani. Il mondo, come sono certo concorderete, è un luogo noioso e incolore quando è monotono. La Russia ha avuto un passato molto turbolento e difficile. La nostra stessa statualità è stata forgiata attraverso il continuo superamento di colossali sfide storiche.
Non intendo insinuare che altri Stati si siano sviluppati in condizioni di serra – ovviamente no. Eppure, l’esperienza della Russia è unica sotto molti aspetti, così come lo è il paese che ha creato. Sia chiaro: questa non è una pretesa di eccezionalità o superiorità; è semplicemente una constatazione di fatto. La Russia è un Paese unico.
Abbiamo attraversato numerosi sconvolgimenti tumultuosi, ognuno dei quali ha offerto al mondo spunti di riflessione su una vasta gamma di questioni, sia negative che positive. Ma è proprio questo bagaglio storico che ci ha preparati meglio alla situazione globale complessa, non lineare e ambigua in cui ci troviamo tutti ora.
Attraverso tutte le sue prove, la Russia ha dimostrato una cosa: è stata, è e sarà sempre. Sappiamo che il suo ruolo nel mondo sta cambiando, ma rimane invariabilmente una forza senza la quale la vera armonia e il vero equilibrio sono difficili – e spesso impossibili – da raggiungere. Questo è un fatto provato, confermato dalla storia e dal tempo. È un fatto incondizionato.
Nel mondo multipolare odierno, questa stessa armonia ed equilibrio possono essere raggiunti solo attraverso uno sforzo comune e congiunto. E voglio assicurarvi oggi che la Russia è pronta per questo compito.
Grazie mille. Grazie.
Vladimir Vladimirovich Putin
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Charlie Kirk e la barbarie social

Charlie Kirk è stato brutalmente ammazzato durante uno dei suoi comizi in un campus universitario. Le immagini del momento in cui il proiettile gli ha perforato la gola hanno fatto il giro del mondo e sono raccapriccianti.
Questo assassinio porterà con sé implicazioni politiche enormi e imprevedibili. Kirk è uno dei principali artefici della vittoria elettorale di Trump, era in grado di spostare valanghe di voti perché in qualche suo modo calamitava e trascinava i più giovani, era un fenomeno generazionale imponente. Tant’è che la notizia dell’attentato ha colpito in primo luogo i ragazzi: i boomer delle colonie non lo conoscevano nemmeno, era fuori dal loro radar e lambiva solo tangenzialmente le loro stupide bolle algoritmiche.
Al di là di tutte le analisi che ora si ricameranno sul fatto, qui si vuole soltanto mettere in luce una cosa. Preme segnalare il punto di non ritorno a cui è giunta la fu-civiltà occidentale, intesa non nel senso dei Grandi Cattivi accomodati nella cabina di regia a godersi lo spettacolo di cui essi stessi muovono i fili, ma nel senso del resto del mondo: della moltitudine di comparse che quello spettacolo inscenano ogni giorno, per lo più inconsapevoli, obbedienti, passivi, acefali, rimbambiti.
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Tra loro, svettano sì gli scribacchini servi, coi loro inestirpabili automatismi verbali, che si precipitano a descrivere la vittima come putiniano, negazionista climatico, sostenitore della disinformazione sul COVID. Giusto per far intendere al lettore diffuso, già indottrinato a puntino, che quella fatta fuori, in fondo, non era una gran bella persona e dunque pazienza.
E il bravo cittadino progressista, russofobo, superinoculato, raccoglitore differenziato e guidatore di auto elettriche, recepisce la notizia e la archivia senza soverchi traumi.
Ma svettano ancor più quelli che si sentono in dovere di esprimere sui social la propria esultanza, protetti dallo scudo dell’anonimato di qualche nickname improbabile. Sono parecchi gli ellegibittì a fare festa, anche perché guarda caso la pallottola è andata a segno proprio quando Kirk aveva appena finito di rispondere a una domanda sugli stragisti trans.
Subito dietro, i pro-pal pavloviani, che saltellano felici per la morte violenta di un filoisraeliano. Ce ne sono tanti, tantissimi, a commentare in modo indicibile. Da quello che «uno sporco sionista in meno, avanti così»; a quell’altro che si guarderebbe «all’infinito in loop il video dell’attentato». Fino alla maestrina finto-moderata che spiega come Kirk ritenesse che i bambini palestinesi sono massacrati da Hamas e che Israele ha il diritto di difendersi. E dunque – ipertesto – tutto sommato questa morte ci sta, a parziale compensazione della strage della Striscia.
Ecco emergere dall’etere il sottoprodotto deteriore della polarizzazione ideologica indotta. Scatta in automatico la furia disumana e codarda dei tastieranti compulsivi, parassiti attempati con voluttà di orrore praticato per interposta persona. Schiumano rabbia e se ne vantano, sghignazzano e gioiscono alla vista di un giovane uomo che muore. Nessuna differenza dai soldati israeliani che riprendono le torture ai palestinesi e gli spari alla folla, e ridono roboticamente dei propri misfatti.
Tutto questo fa veramente orrore. Vedere i pochi secondi in cui da un ragazzo, padre di famiglia, fluisce via la vita, senza scampo, in un fiotto inarrestabile di sangue, evoca alla mente la morte di Ettore, colpito alla gola, «mortalissima parte», dalla lancia di Achille.
Ma lì c’era il combattimento, il corpo a corpo della battaglia finale tra uomo e uomo narrata dal bardo antico e tramandata ai posteri con la forza didascalica dell’epos: qui, nella confusione ormai piena tra il virtuale e il reale, il vile attacco a una persona inerme schizza in mondovisione come un qualsiasi trailer hollywoodiano.
E, barbarie nella barbarie, quell’atto infame scatena l’esaltazione isterica dei belluini sedentari, pronti ad applaudire la soppressione di un proprio simile che non la pensa come loro. Homo homini lupus, i barbari del terzo millennio vogliono così, sostenuti dalla potenza di fuoco dell’intermediario informatico che sa moltiplicare all’infinito e senza rete l’ebbrezza della ferocia più abietta e sanguinaria.
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La sparata assassina non la fai più al bar, dove qualcuno ti vede in faccia, la butti in pasto al popolo smanettatore e perdigiorno, e ti godi l’approvazione dei compagni d’asilo e del suo gestore, che ti premia perché la violenza tira.
Sarebbero dunque questi, i saggissimi antisistema? Quelli che dovrebbero insegnare alle nuove generazioni a pensare con la propria testa e a vivere da persone libere?
Sono relitti senza pietas, senza onore, senza dignità. Liquidatori delle ultime vestigia di una civiltà.
L’assassinio di Charlie Kirk sta aprendo un altro abisso di male, e di vergogna. Forse era proprio quello l’intento di chi lo ha voluto.
Elisabetta Frezza
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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
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