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Dignità umana e nuova era della distruzione atomica

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La fantasmagorica produzione vaticana di documenti simildottrinali si è arricchita ultimamente della Dignitas Infinita che già nel titolo ha ingenerato qualche allarmata perplessità. Perché nei più maliziosi è nato spontaneo il sospetto di un supporto concettuale approntato per dare dignità, è il caso di dirlo, all’avventuroso Fiducia Supplicans, nel senso cioè che si sia voluto affermare la dignità estesa in senso quantitativo a qualunque manifestazione umana, in virtù della qualitativa superiorità umana.

 

Il sospetto, fugato a prima vista dalle sacrosante riconferme della morale cattolica per cui va rispettata la dignità dell’uomo in sé in quanto creatura – rispetto ovviamente che non esclude affatto la possibilità di giudicare antiumane le sue azioni – ha trovato poi conferma in certe ambiguità del testo e soprattutto nelle dichiarazioni con cui l’immaginifico custode della dottrina lo ha presentato alla stampa.

 

Purtroppo tutto questo appartiene ormai più al folklore vaticano che alla fede e alla fine lascia il tempo non proprio luminoso che trova.

 

Ma è anche vero, per altri versi, che proprio sul tema della dignità umana, nelle sue articolazioni storiche, teologiche e filosofiche, occorre fermare l’attenzione per decifrare i tanti fenomeni inediti che segnano la contemporaneità e che a quel concetto per vie diritte o distorte si ricongiungono.

 

Infatti, oggi come non mai appare chiaro che siamo giunti alla resa dei conti tra i due modi fondamentali in cui, attraverso una storia millenaria, ha preso forma la idea della dignità umana.

 

Da un lato quella per cui essa deriva all’uomo dall’essere creatura generata, secondo la immagine michelangiolesca, da un Dio che la sovrasta. Dall’altro, l’uomo che col tempo non ha riconosciuto più alcuna dipendenza, nulla più in alto della propria volontà e immaginazione, e che attinge ad essa la propria dignità e il proprio valore.

 

Tra questi due poli passa tutta la parabola di una civiltà che si identifica, appunto, con la storia del proprio pensiero prima teologico, poi filosofico, quindi scientifico. Una parabola che va appunto dalla idea, consacrata nel libro della Genesi, dell’uomo creato da Dio a Sua immagine e somiglianza, trapassata nel dogma della Incarnazione, e poi dissolta a poco a poco fino a rovesciarsi nel dramma moderno «dell’umanesimo ateo».

 

Un rovesciamento che appare a noi in tutta la sua compiutezza, ma che non sfuggì all’occhio attento di chi ne presagiva il compimento.

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Se la creazione in sé apparve al suo creatore «molto buona», questo doveva implicare che anche i suoi frutti futuri sarebbero stati «molto buoni», secondo le aspettative divine. Ma come sappiamo le cose sono andate diversamente. Il peccato di orgoglio ha tradito quelle aspettative con la caduta degli angeli e quella dell’uomo, ed è stato dettato dal desiderio dell’uomo di farsi uguale a Dio e la cui pericolosità era stata presagita lucidamente da un popolo dalle spiccate attitudini speculative e che pure aveva coscienza del grande valore dell’uomo.

 

La tentazione della onnipotenza è stata alla base della perdizione di Adamo. Anche Prometeo si è perduto per avere osato troppo, ma a differenza di Adamo il suo era stato un gesto filantropico, anche se indirettamente aveva indotto nell’uomo «le false speranze». Infatti era stato punito per motivi oggettivi. Adamo invece ha peccato di superbia come chiunque voglia assumere un ruolo che non è suo. La conseguenza punitiva ha avuto presupposti diversi, ma noi siamo metaforicamente figli di entrambi.

 

Dopo la scomparsa del mondo antico e la lunga gestazione di quello cristiano che vi si era innestato, totalmente polarizzato sulla volontà e la legge di Dio, l’umanesimo riapre la finestra sul valore dell’uomo e delle sue opere, sul suo essere «meraviglia» come lo definiva Marsilio Ficino e che, come tale, mostra la propria natura divina.

 

Tuttavia l’esaltazione dell’uomo nella trattatistica più antica, come negli umanisti del XV secolo, come scrive De Lubac, non era al contempo diminuzione di Dio, ma semmai proprio la rappresentazione della bontà e grandezza, della onnipotenza divine.

 

«Attingendo alla Genesi e a San Paolo, i Padri della Chiesa e poi i medievali, avevano trasformato lo gnothi seautòn dell’oracolo di Delfi che invitava l’uomo a comprendere di essere soltanto un essere mediocre separato dagli dei da un abisso incolmabile, prigioniero nel grande universo del quale doveva subire le leggi. Ora con la stessa formula lo invitavano, al contrario, ad esplorare le profondità del proprio essere, certamente non per scoprirvi illusoriamente una essenza divina, niente faceva loro più orrore, ma per cogliervi il segno di un destino superiore, una chiamata al di là di tutti i limiti che sembravano rinchiuderlo».

 

In ogni caso, col tempo ha preso forma la contrapposizione tra due fondamentali punti di vista.

 

Da un lato quello per cui grandezza dell’uomo e grandezza di Dio sono inseparabili. Dall’altro l’idea che l’uomo faber fortunae suae rivendica titanicamente la propria indipendenza da Dio finché arriverà a postulare la sua inesistenza. Per questa via sarà addebitato proprio all’umanesimo di avere gettato le basi per la eliminazione di Dio.

 

Inoltre, e per altro verso, se le regole della convivenza le detta l’uomo che le può fare e disfare a proprio piacimento e a seconda del prevalere di questo o quel potere, lo Stato diventa etico non in quanto custode di un’etica teleologicamente orientata al bene comune, ma perché posta al servizio del potere.

 

La possibilità di questa ambigua trasformazione dell’uomo era già stata osservata da Pico della Mirandola per il quale «nell’uomo nascente il Padre infuse germi di ogni specie di vita», germi che potranno produrre sia l’animale celeste che il bruto, in ragione di una natura cangiante e metamorfica.

 

Pico, convinto di essere in perfetta ortodossia cristiana, nella sua Oratio mette in evidenza la dignità dell’uomo in quanto capacità, in virtù della libertà del volere donatagli da Dio, di farsi angelo o bruto. Non solo dunque di essere libero di scegliere, come voleva sant’Agostino, tra bene e male, ma di essere dotato di natura cangiante e metamorfica e dunque di poter percorrere strade opposte e assumere forme opposte. Tutto ciò sembrò agli occhiuti ma non sprovveduti censori vaticani il presagio pericoloso di pericolose rivendicazioni di autonomia spirituale e di futura totale licenza.

 

Dunque qui già si annidava il possibile equivoco. La dignità è di qualunque creatura umana in quanto tale, per cui solo a Dio è dato disporne (nel senso per cui è stato detto «nessuno tocchi Caino»), o nel senso per cui qualunque manifestazione, qualunque decisione di vita è giustificata in nome di quella dignità, come, a pensar male, forse vorrebbe Tucho Fernandez?

 

Insomma, in prospettiva si poneva già il problema se l’uomo è buono in sé in quanto creatura, e le sue azioni siano di conseguenza anche buone, o in quanto capace di bene e nei limiti in cui agisca per il bene proprio e altrui; inoltre, e infine, che cosa sia veramente il suo bene presente e futuro.

 

Mentre poi ci si è dovuti chiedere, e oggi la domanda è diventata lacerante, se l’uomo faber sia ora in grado di dominare ciò che è diventato capace di produrre, quali siano i frutti buoni della sua acquisita conoscenza del mondo e della natura, se gli sfugge di mano ciò che realizza, o perde la capacità di valutare anche il peso delle proprie idee, dato che anche il pensiero in sé è una forza capace di produrre il bene e il male.

 

E soprattutto cosa può accadere, come accade, se a tenere in mano le leve del potere che domina i mezzi spiritualmente e materialmente distruttivi, siano quelli che, nella visione di Pico, appartengono all’altra faccia dell’umanità, o quanto meno non abbiano nel loro orizzonte il bene comune.

 

Sicché, alla fine, l’esito ultimo della libertà assoluta e della autodivinizzazione, per paradossale eterogenesi dei fini, è quello del trapasso nell’opposto del nuovo paradiso promesso, e l’onnipotenza diventa strumento di distruzione e autodistruzione.

 

Non per nulla, in seguito, il tema della trasfigurazione dell’uomo in demonio, preconizzata da Pico come «iconografia della trascendenza deviata», diventerà un tema molto frequentato nella letteratura moderna, come osserva ancora De Lubac, soprattutto in quella russa dominata proprio dal rapporto con la trascendenza. Basti pensare al Dostoevskji dei Demoni o dei Fratelli Karamazov. Ma l’abisso della perdizione è presente ormai in tutti gli autori cattolici del diciannovesimo secolo, che in ogni caso presuppongono appunto la perdita dell’orizzonte normativo, non la sua inesistenza.

 

Oggi però nella concezione antireligiosa, ateista, libertaria, sostanzialmente nichilista e autoreferenziale, l’uomo, se non intende neppure assomigliare ad un dio in cui non crede, confida ugualmente nella propria onnipotenza, e si riconosce legislatore di se stesso.

 

Prende corpo tangibile l’abisso tra la concezione per cui il valore dell’uomo sta nella propria filiazione divina, e nella sottomissione ad una legge superiore, e quella più euforica che medita di un potere sciolto da limiti persino di ordine naturale.

 

Tuttavia si tratta di una concezione che non appartiene coscientemente ad una massa alle prese con la vita quotidiana, la quale semmai la assorbe per osmosi dallo spirito del tempo, ma ad una minoranza di individui, immersi nella deriva gnoseologica e nella degenerazione culturale propria della cosiddetta civiltà occidentale. Una minoranza di potere diventata capace per contingenze storiche di dominare le vite, ma anche di manipolare gli atteggiamenti mentali altrui.

 

Infatti alle due concezioni, quella che sente il divino come principio creatore e ordinatore, e quella dell’umanesimo ateo impegnato a far valere la forza creatrice della propria libertà, questa è diventata determinante e politicamente egemone, disponendo di tutti i mezzi pratici per realizzare i propri obiettivi.

 

Inutile dire, però, che la disumanizzazione copre dominanti e dominati, se, per dirla con le parole di De Lubac: «non c’è più uomo, perché non c’è più nulla che trascenda l’uomo».

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Ora, la volontà di potenza, che va di pari passo con i miraggi di libertà assoluta e autodeterminazione negatrici di ogni presupposto normativo, comporta anche la necessità di eliminare lo spettro delle conseguenze del proprio agire, impone di non volere vedere e sapere. E questo richiede a sua volta la cancellazione della memoria insieme alla percezione del pericolo incombente: ovvero la cancellazione di tutto ciò che, facendo prendere coscienza della realtà, aiuterebbe i più a ricostruire il proprio orizzonte umano e ad attivare le necessarie difese.

 

Per questo, tra falsa emancipazione e falso umanesimo, si è arrivati alla plausibilità dell’era atomica.

 

Infatti alle due visioni, quella dell’uomo che sente l’obbligo morale di modellare le proprie azioni sulla legge divina, e quella di chi si intende liberato da ogni imperativo trascendente, oggi si è aggiunta quella apocalittica della volontà di potenza distruttiva, che fa dell’uomo un creatore di segno opposto.

 

Grazie alla potenza atomica, l’uomo contemporaneo compensa il vuoto che ha scavato intorno a sé con la propria capacità distruttiva come una creazione rovesciata: se egli non si è creato come specie privilegiata, ora sa di avere il potere di autodistruggersi. E non è poco nella visione allucinata del nuovo superuomo.

 

Quanto tempo rimane per arrivare alla autodistruzione umana? Si chiedeva già Norman Causins in un saggio del 1946, a ridosso delle bombe statunitensi sulle città giapponesi. Se la guerra è ineliminabile perché appartiene al destino umano, sarà ineliminabile l’impiego autodistruttivo dei mezzi ora a disposizione. E aggiungeva: «è un curioso fenomeno naturale che solo due specie pratichino l’arte della guerra: gli uomini e le formiche, ed entrambi viventi in complesse organizzazioni sociali».

 

Solo che ora, la guerra, da mezzo per un qualunque fine pratico, compreso quello della affermazione di potere personale, dettato dallo spirito di conquista che fu di condottieri antichi e moderni, appare dare tragicamente forma estrema alla allucinazione del potere che riscatta la precarietà umana proprio attraverso la sua capacità di distruzione totale. E, al di là di ogni possibile calcolo utilitaristico, tutto ciò assume il significato metafisico, appunto, della capacità distruttiva quale rovescio della potenza creatrice divina. Cosa che si connette naturalmente anche alla dimenticanza alienata e quasi ostentata, o della ignoranza intenzionale, delle conseguenze.

 

Una ignoranza che sembra non risparmiare né gli impresari ufficiali della guerra, né in particolare le masse ad essi sottoposte.

 

Infatti sono queste che dovrebbe teoricamente poter cambiare la rotta della autodistruzione grazie al potere critico che induce a cambiare «perché connesso con l’istinto di sopravvivenza». Un potere critico che, nell’era atomica, di fronte alla potenza distruttiva raggiunta dalla scienza, dovrebbe essere tanto potenziato da essere in grado di scongiurare proprio il pericolo dell’autodistruzione. Invece l’uomo moderno, osservava ancora Causins, «attraversa una crisi della decisione, perché il dilemma che lo riguarda più da vicino è quello tra la volontà di cambiare e la capacità di cambiare, e oggi la volontà di cambiare sembra essere venuta meno».

 

Il fenomeno d’altra parte va letto alla luce del fatto che l’immane potere distruttivo è comunque in mano a pochi decisori, e proprio la volontà dei più è sovrastata e manipolata da quella dei detentori del potere che dimostrano in massimo grado spregiudicatezza e irresponsabilità, sicché la stessa percezione del pericolo è stata ottusa dal frastuono delle mille stimolazioni, che, distraendo le masse dalla realtà effettuale, le immerge nel fumo di quella virtuale.

 

Come nella confusione dei piani concettuali non viene più percepito il valore né la sostanza dei fenomeni, così qui viene meno la capacità di giudizio e di comprensione dei nessi causali.

 

Insomma, tra sottomissione forzata alle decisioni prese dall’alto, e incapacità critica indotta, anche lo istinto di sopravvivenza è messo fuori gioco nella sua funzione conservatrice da un meccanismo che sotto traccia ne inceppa la potenza determinante.

 

Questo quadro di inconsapevolezza autodistruttiva va a congiungersi con quello della guerra che da strumento di sopravvivenza diventa proiezione appariscente della volontà di potenza fine a se stessa, che da un capo si trasferisce ad un popolo o viceversa, o trova nel loro connubio una sintesi poderosa.

 

Ma oggi sembra prevalere in ogni caso quella arroganza solitaria del potere che assume le vesti anonime di uno stolido competitore col divino sempre più stordito dalla ebbrezza di poter tenere in pugno il mondo intero.

 

Nessuna immagine può rappresentare in modo più icasticamente eloquente il senso tragico di questa follia senza speranza come quella ideata dal genio di Stanley Kubrick per il finale del suo Dottor Stranamore, col generale che vola a cavalcioni del suo «ordigno fine di mondo», sventolando inebriato il cappello da cow boy.

 

Eppure la vertigine di questa apocalisse annunciata ci investe di fatto da vicino se, girando per questa Italia che ebbe il benigno destino di diventare culla insuperata e insuperabile di bellezza, pensiamo sgomenti alla sua precarietà.

 

Una bellezza donata ma poi ricreata, che ha allevato un popolo in sé mite e vitale, ma anche ottimista e contemplativo. Un popolo che di quella bellezza ricevuta e restituita, sempre rinnovata si è nutrito magari inconsapevolmente, di città in città, di borgo in borgo, mentre all’ombra di quelle pietre poteva arricchire la propria sensibilità anche con l’arguzia di infiniti linguaggi capaci di fissare esperienze e pensieri nuovi o tramandati come i corredi nelle casse spesso intonse di spose promesse e spose mancate.

 

Un patrimonio di bellezza pubblica e domestica che ha provato già l’acconto immane, feroce e belluino della distruzione totale, e continua ad essere esposto senza difese al suo compimento. Perché il potere distruttivo è governato anzitutto dallo stesso pensiero tragicamente alienato che guidava la guerra aerea angloamericana nel secondo conflitto mondiale. Quello inglese per cui le città d’arte andavano colpite per motivi tattici, e quello statunitense sempre in vigore per cui la distruzione serve alla ricostruzione.

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In una nuova apocalisse distruttiva non si porrà il problema di sopravvivere perché non varrà la pena di sopravvivere. Di fronte alla scomparsa di Venezia per la bestialità dei distruggitori, sarebbe comunque intollerabile condividere ancora con essi la stessa terra.

 

Perché non sarà valso a nulla coltivare la speranza di un lascito fecondo per quel tanto o poco di noi che potrebbe continuare a generare nell’anima di quelli venuti dopo.

 

In passato, anche quando la memoria dei padri si sbiadiva, rimanevano le pietre resistenti al tempo e agli uomini, la terra e le bellezze tramandate dalle mani e dallo spirito nelle prospettive di colline e montagne, acque e cieli benigni.

 

Ora lo stupore e l’incanto rapito, la commozione per la bellezza trovata o cercata, ora li dobbiamo vivere in controluce, ovvero nella luce sinistra del timore, nella angoscia premonitrice di avere di fronte solo immagini fuggevoli perché condannate a sparire.

 

Ora la nuova visione apocalittica non contempla la mano invisibile di un dio che colpisce i peccatori come nella iconografia medievale di Giotto o in quella della Sistina, ma l’inferno che viene dal cielo una volta creato come inviolabile.

 

Ma una domanda sorge spontanea: c’è una vera coscienza di tutto questo? Oppure anche l’idea di questo immane pericolo alimentato dalla irresponsabilità politica viene elusa dai più?

 

Di certo abbiamo a che fare almeno con due fattori decisivi: una consapevolezza della realtà indebolita e la rimozione difensiva.

 

Non bisogna dimenticare come la normalizzazione della follia metafisica della guerra moderna quale premonizione apocalittica sia venuta a maturazione puntualmente proprio con la seconda guerra mondiale. Perché la cancellazione di tanta parte di storia ha sortito l’effetto di cambiare anche un atteggiamento interiore.

 

L’averla subita dalle generazioni che l’hanno vissuta, il suo dejà vu, rimosso però secondo un meccanismo psicologico ben conosciuto, ha fatto rientrare l’indicibile nella plausibilità destinale. In una sorta di interpretazione popolare diffusa e fatalista della fenomenologia hegeliana.

 

L’assuefazione che rende normale l’anormalità e la volontà inconscia di rimuovere la memoria dell’insopportabile, hanno per un certo tempo allontanato il ricordo di quella tragedia vissuta in prima persona. Esso è stato dissotterrato soltanto quando risultava ormai disinnescato perché, estraneo alle nuove generazioni e sterilizzato dalle vecchie in un armadietto ben custodito, aveva perduto la sua capacità di sorreggere l’intelligenza delle cose.

 

Ora che una grande catastrofe di proporzioni inedite si è già verificata, ma è diventata solo un racconto storico, che coinvolge al più la filologia politica, il distacco con cui viene guardata dai più è lo stesso col quale viene vissuta a teatro la più tragica delle vicende. E questo la rende ripetibile, ma proprio nella realtà sempre attuale che non viene colta.

 

Anche in questo caso sembra di toccare con mano un ottundimento della sensibilità collettiva riscontrabile, del resto, in ogni campo della vita pratica. Per diminuita consapevolezza critica, per offuscamento della coscienza, per rimozione, per volontà di non affrontare la realtà, per incapacità di rappresentazione, perché si vive in un mondo alternativo in cui l’effimero è reale e il tragico solo surreale.

 

È questa la chiave di una inconsapevolezza diffusa. È come se nelle voragini aperte dalle bombe di allora sia stata seppellito anche l’istinto di sopravvivenza e il dovere morale della difesa, la capacità di discernere e di valutare con disincanto quanto si muove sopra le nostre teste, e viene sottratto alle nostre anime.

 

Ora, se è vero che solo un Dio ci può salvare, si tratta di recuperare quella ragione donata agli uomini perché capace di assicurare loro una vera dignità. Che non si identifica con la ragione calcolante pseudo scientifica a cui ci siamo asserviti, e tanto meno col compiaciuto adattamento ai falsi miti, ai falsi valori, alle false promesse che tengono banco nell’avanspettacolo di una politica truffaldina e irresponsabile.

 

Patrizia Fermani

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Nucleare

«Non c’è vittoria nella guerra nucleare»: parla l’esperto in armamenti del MIT

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Alla fine della scorsa settimana, a Berlino si sono tenuti diversi eventi che hanno evidenziato il rischio per la Germania derivante dal dispiegamento di missili a medio raggio e dalla fornitura di tali armi all’Ucraina, considerati come un possibile preludio a una Terza Guerra Mondiale. Lo riporta EIRN.   Uno di questi eventi è stata una presentazione di tre ore, svoltasi il 10 ottobre, tenuta dal professor Ted Postol, rinomato esperto di armi del MIT, organizzata congiuntamente dallo Schiller Institute (ente legato al gruppo Larouche) e dalla Eurasian Society. L’argomento era la minaccia rappresentata dal posizionamento di missili a medio raggio in Germania, accompagnata da un’analisi lucida delle conseguenze di una potenziale guerra nucleare.   Postol ha illustrato l’enorme potenziale distruttivo delle moderne armi nucleari, molto più potenti rispetto a quelle che, nel 1945, causarono tra le 200.000 e le 250.000 vittime in Giappone, confutando l’idea assurda di poter vincere una guerra nucleare, dimostrando che la cosiddetta «vittoria» diventa priva di senso quando il Paese vincitore non ha più sopravvissuti al termine del conflitto.   L’esperto ha quindi smontato il mito della vittoria in una guerra nucleare tattica, spiegando che l’uso di una singola arma nucleare porterebbe, in circa cinque giorni, a una guerra globale che estinguerebbe ogni forma di vita sulla Terra.

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Riflettendo sulla sua esperienza personale nella pianificazione di una guerra nucleare, Postol ha sottolineato il problema della riduzione del tempo di allerta precoce, dovuto al posizionamento avanzato dei missili, e il rischio di una rapida escalation verso l’uso di armi nucleari, per entrambe le parti, a causa del dilemma «usalo o perdilo».   «Nel 1983, si svolse un war game chiamato Able Archer. In quel war game, i vertici americani simularono, da una prospettiva sociale, psicologica e militare, uno scontro tra il Patto di Varsavia e la NATO, con l’uso di armi nucleari (…) È importante comprendere che gran parte di ciò che avvenne in quel gioco fu guidato da imperativi militari. Il problema, ancora una volta, deriva dalla natura delle armi nucleari. Sono così potenti che, quando una parte inizia a usarle, entrambe si sentono obbligate a contrattaccare e a distruggere il più possibile la capacità offensiva del nemico. Non hai scelta una volta che sei in questo gioco. Non puoi dire “basta”. Perché non sai se l’avversario intensificherà il suo attacco prima che tu ti fermi. Questo dà al nemico l’opportunità di aumentare la sua potenza in modo da causarti danni ancora maggiori. Sei quindi costretto a entrare in un ciclo in cui devi colpire il nemico per tenerlo sotto controllo».   Postol ha spiegato che questa dinamica di attacco e contrattacco è centrale nel pensiero militare sulla guerra nucleare, basato sull’erronea convinzione che si possa combattere e vincere, chiarendo che non esiste vittoria, poiché «i livelli di distruzione sono così elevati che entrambe le parti vengono annientate». Ha aggiunto che l’idea di una guerra nucleare paragonabile a un conflitto convenzionale è fuorviante, poiché i danni sono incomparabilmente più devastanti.   Il professore ha anche criticato la politica autolesionista del governo tedesco, che consente il dispiegamento di queste armi sul proprio territorio, rendendo la Germania, senza alcuna valida ragione, un bersaglio per la distruzione nucleare in caso di conflitto, deplorando inoltre il rapido declino del senso di realtà tra i leader politici occidentali, un fattore che di per sé alimenta il rischio di un confronto nucleare, a causa della loro incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie scelte politiche.   Come riportato da Renovatio 21, Postol l’anno scorso aveva condannato l’attacco di droni ucraini contro le stazioni di rilevamento per la guerra atomica Armavir (nota come «Lupi dello Zar») e Orsk, nella Russia meridionale e orientale, parlando di una possibile escalation che da lì poteva partire verso la distruzione nucleare pantoclastica.   Si trattava di attacchi ad una componente componente dell’«ombrello nucleare» della Federazione Russa.   «Gli ucraini hanno ora attaccato un secondo radar strategico di allarme rapido nucleare russo critico a Orsk» aveva avvertito Postol. «Questo radar guarda verso l’Oceano Indiano e ha qualche sovrapposizione con i radar del radar già danneggiato di Armavir. I primi indicatori indicano che l’entità dei danni subiti dall’Orsk è probabilmente limitata, ma non si può escludere che il radar non funzioni per il momento a causa dell’attacco».   «Questa è una situazione molto seria. A differenza degli Stati Uniti, i russi non dispongono di sistemi di allarme satellitare spaziali in grado di rilevare attacchi di missili balistici a livello globale. Ciò significa che la copertura radar persa a causa degli attacchi a questi radar riduce notevolmente il tempo di preavviso contro gli attacchi a Mosca dal Mediterraneo e dall’Oceano Indiano».

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«L’estrema pressione temporale sulla leadership russa potrebbe quindi aumentare significativamente le possibilità di un catastrofico incidente nucleare. Il fatto che Blinken e la sua squadra di sicurezza nazionale abbiano dato il via libera al governo ucraino per attaccare siti russi fuori dall’Ucraina, significa che Blinken ha incautamente detto agli ucraini che possono impegnarsi in tali atti che avrebbero conseguenze potenzialmente catastrofiche per gli Stati Uniti e per l’intero pianeta».   Renovatio 21 rammenta come anche nei discorsi degli strateghi russi sia apparsa, negli scorsi mesi, l’idea di attaccare per primi utilizzando armi atomiche.   Come riportato da Renovatio 21, il noto esperto di relazioni internazionali russo Sergej Karaganov ha scritto interventi molto discussi dove ha parlato apertis verbis della revisione della strategia militare atomica di Mosca, arrivando a ipotizzare la nuclearizzazione di una città europea in risposta al sostegno della guerra ucraina.   Siamo arrivati al punto più prossimo allo sterminio atomico. Mai nella storia, nemmeno nei momenti più caldi della guerra fredda, eravamo giunti così vicino all’abisso pantoclastico, alla prospettiva della distruzione massiva dell’umanità.  

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Nucleare

Trump reagisce all’offerta di trattato nucleare di Putin

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha accolto favorevolmente la proposta del presidente russo Vladimir Putin di estendere di un ulteriore anno l’ultimo trattato di controllo degli armamenti tra i due Paesi.

 

Domenica, mentre conversava con i giornalisti fuori dalla Casa Bianca, a Trump è stato chiesto cosa pensasse dell’offerta di Putin riguardo al New START. «Mi sembra una buona idea», ha risposto.

 

Le parole di Trump sono state apprezzate da Kirill Dmitriev, consigliere economico di Putin e figura centrale negli sforzi per migliorare le relazioni con Washington.

 

Dmitriev ha scritto su Telegram che la posizione del presidente statunitense indica che Washington e Mosca sono «abbastanza propense» a prorogare l’accordo.

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Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso Putin aveva espresso la disponibilità di Mosca a estendere di un anno il Trattato sulla riduzione delle armi strategiche del 2010 (New START), a patto che gli Stati Uniti rispondano positivamente e si astengano da azioni che potrebbero alterare l’equilibrio nucleare.

 

All’inizio di questa settimana, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha dichiarato che Washington non ha ancora fornito una risposta ufficiale alla proposta.

 

L’ultimo trattato di riduzione degli armamenti tra Stati Uniti e Russia, che limita ciascuna parte a un massimo di 1.550 testate nucleari strategiche e 700 sistemi di lancio schierati, scadrà a febbraio, salvo un’eventuale proroga.

 

Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa, all’apice delle tensioni per la guerra ucraina, il ministero degli Esteri russo aveva accusato la «flagrante» violazione del trattato Start da parte di Washingtone. Nell’agosto 2022 la Russia aveva quindi annunciato la sospensione delle ispezioni nucleari con il nuovo trattato START.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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La Russia resta il principale fornitore di combustibile all’uranio per gli Stati Uniti

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La Russia rimane il principale fornitore di combustibile nucleare per gli Stati Uniti, nonostante il divieto di importazione firmato dall’ex presidente Joe Biden, secondo quanto emerso dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti.   Il rapporto annuale sull’uranio dell’agenzia, pubblicato martedì, rivela che nel 2024 la Russia ha fornito il 20% dell’uranio arricchito acquistato per i reattori commerciali americani. Seguono la Francia con il 18%, i Paesi Bassi con il 15%, la Gran Bretagna con il 9% e la Germania con il 7%, mentre il 19% dell’uranio arricchito è stato prodotto internamente.   Biden ha promulgato il Prohibiting Russian Uranium Imports Act nel 2024, con il divieto entrato in vigore ad agosto. In risposta, a novembre Mosca ha imposto un limite temporaneo alle esportazioni di uranio arricchito verso gli Stati Uniti.   Tuttavia, la legge prevede deroghe che consentono acquisti dalla Russia fino al 2028, in caso di mancanza di fonti alternative o se le importazioni sono ritenute strategicamente necessarie. Secondo Bloomberg, deroghe sono state concesse a Constellation Energy Corp, il maggiore operatore nucleare statunitense, e a Centrus Energy Corp, uno dei due soli arricchitori di uranio nazionali.

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Sebbene Biden abbia destinato fondi per incrementare la capacità di arricchimento degli Stati Uniti, l’ex assistente segretario di Stato per le risorse energetiche Geoffrey Pyatt (già ambasciatore a Kiev durante il golpe di Maidan) aveva avvertito a gennaio che «sarà necessario tempo per sviluppare una catena di approvvigionamento indipendente dalla Russia».   Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca quest’anno, Washington e Mosca hanno ripreso i negoziati diretti per esplorare misure volte a normalizzare le relazioni commerciali.   Il mese scorso, Rosatom, il colosso nucleare statale russo, ha ribadito di essere il principale produttore mondiale di combustibile per centrali nucleari. «Manteniamo la leadership globale nell’arricchimento dell’uranio», ha dichiarato il primo vicedirettore Generale Kirill Komarov.   Come riportato da Renovatio 21, il tema della dipendenza statunitense dal combustibile nucleare russo è risalente. La Russia possiede circa il 50% delle infrastrutture mondiali per l’arricchimento dell’uranio, fondamentali per la produzione di combustibile nucleare. Mosca continua ad essere un importante fornitore di servizi di estrazione, macinazione, conversione e arricchimento dell’uranio per i servizi pubblici statunitensi.

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Come riportato da Renovatio 21, negli anni è emerso che le società americane acquistano ancora circa 1 miliardo di dollari di uranio russo ogni anno, con gli sforzi per ridurre questa dipendenza considerati come falliti. Mosca è il principale esportatore di tecnologia atomica al mondo.   La Rosatom è altresì al centro di una controversia che coinvolge i Clinton, accusati di corruzione in un caso che coinvolge Uranium One, una società venduta a Rosatom. Secondo le accuse, ritenute dal mainstream come teorie del complotto, vi sarebbe una scandalosa bustarella da 145 milioni di dollari dietro alla cessione. La storia è raccontata dal libro di Peter Schweizer Clinton Cash.

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Immagine di MBH via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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