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Geopolitica

Gheddafi sta stornando. Sul serio

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Gheddafi sta tornando, e la Libia è pronta ad accoglierlo a braccia aperte.

 

Non si tratta di Muhammar, che è difficile che torni dal Regno dei Morti (con buona pace di coloro che credono sia vivo, nascosto magari in un lussuoso sobborgo di Mosca con altri dittatori dalla pubblica morte simulata). Si tratta del figlio Saif al-Islam Gheddafi.

 

Il New York Times il mese scorso ha pubblicato un lungo e dettagliatissimo reportage che va ben oltre l’ardita intervista con il rampollo Gheddafi per offrire un quadro della Libia davvero importante per chiunque, come gli italiani, viva a poca distanza dalla polveriera libica. Inutile cercare analisi, o anche solo l’eco, di quello che viene detto nel pezzone del NYT sui media italiani.

 

Si tratta di un grande reportage, contente forse più di uno scoop.

 

In Italia e nei suoi giornali troppi sono gli interessi pubblici e privati (o meglio, semi-privati) in una situazione instabile dove il sistema Paese italiano certo non ha brillato per le sue scelte, scommettendo talvolta sul cavallo sbagliato, e creando una voragine di influenza un tempo impensabile, dove si sono posizionati la Turchia, la Russia, l’Egitto, gli Emirati, e finanche il Qatar e Francia e Regno Unito. Del resto ogni tanto bisogna ricordare a noi stessi che il ministro degli Esteri è Luigi Di Maio.

 

Il pezzo del NYT è un esempio  di immenso giornalismo di inchiesta. Mesi e mesi di lavoro dell’inviato, su e giù per la Libia a parlare con capi tribali, ministri, miliziani e uomini della strada. Al giornalista Robert F. Worth, soprattutto, è consentito di incontrare Saif Gheddafi (che nessun giornalista occidentale vedeva da dieci anni) in una ricca villa che sembra appena arredata, dove il figlio del dittatore parla con franchezza del futuro suo e del Paese, due cose che sembrano destinate a divenire una sola.

 

Saif Gheddafi prima del 2011 agiva come volto internazionale del regime tripolino. Era accettato nelle cerchie mondialiste, specie londinesi – aveva acquisito un inglese impeccabile con gli studi alla London School of Economics. Aveva fatto dichiarazioni sorprendenti, come quando disse che in Libia non c’era democrazia, e non intendeva essere un complimento a suo padre. Non aveva ruoli precisi all’interno dello Stato libico, tuttavia il padre gli aveva dato incarichi delicatissimi come le riparazioni per la bomba che disintegrò il volo Pan Am 103 sopra Lockerbie. Si dice che egli possa aver avuto un ruolo nella decisione del padre di smantellare le armi di distruzione di massa (di fatto, la scelta più stupida possibile, che gli è costata con probabilità la morte e l’esplosione del suo Paese).

 

«Hanno violentato il paese, è in ginocchio. Non ci sono soldi, nessuna sicurezza. Non c’è vita qui. Vai alla stazione di servizio: non c’è diesel. Esportiamo petrolio e gas in Italia – stiamo illuminando mezza Italia – e qui abbiamo blackout. È più di un fallimento. È un fiasco».

Tuttavia, quando scoccò l’ora fatale della primavera araba in suolo libico, Saif partecipò alla repressione del regime, che fu certo violenta. Quando il ghedaffismo ebbe la peggio, Saif invece di essere giustiziato venne rapito da una milizia indipendente, che lo preservò dalle attenzioni di altre fazioni ribelli portandolo nella loro regione di origine, le montagne di Zintan. Fu prigioniero per lungo tempo, anche dopo le elezioni libiche del 2012.

 

Seguirono anni di caos e sangue. Milizie armate devastano città e villaggi, compare perfino un mini-califfato ISIS sulla costa.

 

«Lentamente, i libici hanno iniziato a pensare in modo diverso a Saif al-Islam, che profetizzò la frammentazione della Libia nei primi giorni della rivolta del 2011. Ci sono state segnalazioni che era stato liberato dai suoi rapitori, e anche che stava progettando di candidarsi alla presidenza. Ma nessuno sapeva dove fosse». Era a Zintan, assieme ai suoi nemici ora alleati. Da prigioniero a principe in attesa. «Riesci a immaginare? Gli uomini che erano le mie guardie ora sono miei amici». R

 

All’epoca qualcuno parlava del fatto che Saif fosse ancora vivo forse perché sapeva dove era nascosto, e magari poteva disporre, del famoso «tesoro di Gheddafi». Renovatio 21 rammenta figure che erano alla febbrile ricerca di questa quantità infinita di danari, da riconsegnare alla Libia, alla banche o chissà a chi. Il tesoro, infine, parrebbe non essere stato trovato.

 

Il giornalista nota che a Saif mancano il pollice e l’indice destro, che sostiene essere stati amputati in un attacco aereo nel 2011. Dice inoltre di non essere più prigioniero, e di star preparando il suo ritorno sulla scena politica.

 

«Saif ha sfruttato la sua assenza dalla vita pubblica, osservando le correnti della politica mediorientale e riorganizzando silenziosamente la forza politica di suo padre, il Movimento Verde. È timido sul fatto che si candiderà alla presidenza, ma crede che il suo movimento possa ripristinare l’unità perduta del Paese». Qui il New York Times fa un implicito riferimento al populismo di Trump.

 

Può essere che si senta tradito dagli italiani, che in fine dei conti erano grandi alleati del padre?  Significa che se salisse al potere, Saif farà una politica anti-italiana, a partire dalla questione energetica?

Un messaggio contro i politici che, tra corruzione e incompetenza, hanno portato il Paese alla miseria e alla violenza, cioè l’esatto contrario di quello che era la Libia di Gheddafi senior.

 

«Hanno violentato il paese, è in ginocchio. Non ci sono soldi, nessuna sicurezza. Non c’è vita qui. Vai alla stazione di servizio: non c’è diesel. Esportiamo petrolio e gas in Italia – stiamo illuminando mezza Italia – e qui abbiamo blackout. È più di un fallimento. È un fiasco».

 

Già qui, ci sarebbe mezzo scoop per gli Italiani. A cosa si riferisce il rampollo? Può essere che si senta tradito dagli italiani, che in fine dei conti erano grandi alleati del padre (che arrivò a piazzare l’immagine di Berlusconi che stringe la mano al Rais come grafica di tutti passaporti libici)? Significa che se salisse al potere, Saif farà una politica anti-italiana, a partire dalla questione energetica?

 

«Nonostante lo status di fantasma di Saif , le sue aspirazioni presidenziali vengono prese molto sul serio

Non sono questioni di poco conto per il nostro Paese. Chi si occupa di combustibile, di economia, di tenuta del Paese, leggendo questa dichiarazione dovrebbe sobbalzare dalla sedia.

 

Anche perché l’analisi pare condivisa sia dal giornale di Nuova York che dal popolo libico: «Dieci anni dopo l’euforia della loro rivoluzione, la maggior parte dei libici probabilmente sarebbe d’accordo con la valutazione di Saif».

 

Non si tratta di un miraggio. Gheddafi junior ha delle concrete possibilità di arrivare al potere.

 

«Nonostante lo status di fantasma di Saif , le sue aspirazioni presidenziali vengono prese molto sul serio. Durante i colloqui che hanno formato l’attuale governo libico, i sostenitori di Saif sono stati autorizzati a partecipare e finora hanno manovrato abilmente per respingere le regole elettorali che gli avrebbero impedito di candidarsi».

 

Racconta il giornalista americano:

 

«Per molti libici, il ritorno di Saif al-Islam sarebbe un modo per chiudere la porta a un decennio perduto»

«Ero in Libia solo da pochi giorni quando sono entrato in un’area di servizio autostradale e mi sono ritrovato a guardare un discorso del colonnello Muammar el-Gheddafi degli anni ’80, trasmesso dal canale televisivo del Movimento dei Verdi con sede al Cairo. Una notte all’iftar del Ramadancena a Tripoli, ho chiesto a quattro libici poco più che ventenni chi avrebbero scelto come presidente. Tre di nome Saif al-Islam. Un avvocato libico mi ha detto che i suoi sforzi informali per valutare l’opinione pubblica suggeriscono che otto o nove libici su 10 voterebbero per Saif».

 

Un voto di protesta che, come abbiamo visto in vari Paesi del mondo, potrebbe diventare una frana irresistibile.

 

È «peculiare che il figlio di Muammar el-Gheddafi – lo stesso uomo che ha promesso “fiumi di sangue” in un discorso del 2011 – è ora visto da molti come il candidato presidenziale con le mani più pulite».

 

«I limitati dati dei sondaggi in Libia suggeriscono che un gran numero di libici – fino al 57 percento in una regione – esprimono “fiducia” in lui. Un omaggio più tradizionale alla vitalità politica di Saif è arrivato due anni fa, quando si dice che un rivale abbia pagato 30 milioni di dollari per farlo uccidere. (Non era il primo attentato alla sua vita.)».

 

«Per molti libici, il ritorno di Saif al-Islam sarebbe un modo per chiudere la porta a un decennio perduto».

 

«Tutta la Libia sarà distrutta. Ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come governare il Paese, perché oggi tutti vorranno essere presidente, o emiro, e tutti vorranno governare il Paese»

Attorno a Saif, quindi, si sta agglutinando un gruppo di potere, oltre che al consenso popolare. Di più: un mito, una narrazione.

 

Non solo. Anche la geopolitica si sta muovendo attorno a lui.

 

«Una vittoria per Saif sarebbe certamente un trionfo simbolico per gli autocrati arabi, che condividono il suo odio per la primavera araba. Sarebbe accolto anche al Cremlino, che ha rafforzato uomini forti in tutto il Medio Oriente e rimane un importante attore militare in Libia, con i propri soldati e circa 2.000 mercenari ancora sul campo. “I russi pensano che Saif potrebbe vincere”, mi ha detto un diplomatico europeo con una lunga esperienza in Libia. Saif sembra avere altri sostenitori stranieri».

 

Questo nonostante egli sia ricercato per crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale per i fatti del 2011. Non che i processi lo spaventino: È stato processato in un procedimento separato a Tripoli nel 2015, facendo apparizioni tramite collegamento video da una gabbia a Zintan, ed è stato condannato a morte per fucilazione. Secondo la legge libica, ci sarà un ricorso.

 

I libici ricordano ancora un suo discorso televisivo del 20 febbraio 2011, a tre giorni dalla prima protesta della Primavera Araba libica, partita da Bengasi. Invece che fare concessioni e intavolare discorsi para-occidentali su democrazia e diritti umani, accusò la protesta, dicendo che era ordita dagli oppositori libici all’estero ed era portata avanti da tossicodipendenti e criminali. Poi fece una profezia che i libici ricordano tutti benissimo: a causa delle sue radici tribali, la Libia è diversa dall’Egitto e dalla Tunisia, quindi potrebbe facilmente frantumarsi in mini-stati ed emirati. Nel discorso preconizzava la guerra civile, i confini infranti, la migrazione di massa.

 

«Tutta la Libia sarà distrutta. Ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come governare il Paese, perché oggi tutti vorranno essere presidente, o emiro, e tutti vorranno governare il Paese».

 

«Quello che è successo in Libia non è stata una rivoluzione. Puoi chiamarla guerra civile o giorni di malvagità. Non è una rivoluzione»

Il discorso all’epoca peggiorò le cose. I  rivoltosi lo interpretarono come la caduta definitiva della maschera della famiglia Gheddafi. La Jamahiriya era irriformabile.

 

Oggi invece è difficile non vedere quanto le cose che disse si sono avverate. Così la pensano molti libici, dopo questo «decennio perduto» tra guerre civili e milizie islamiche sempre più prepotenti.

 

«Quello che è successo in Libia non è stata una rivoluzione. Puoi chiamarla guerra civile o giorni di malvagità. Non è una rivoluzione». Anche qui, il realismo non fa difetto al ragazzo.

 

Saif accusa Barack Obama di essere l’uomo che ha davvero distrutto la Libia, e il NYT amette che «potrebbe essere vero». Lo stesso Obama, nel 2016, dichiarò che l’attacco alla Libia, che di fatto equivaleva a permettere il suo crollo, fu il suo più grande errore. In Libia gli americano hanno fatto peggio che in Afghanistan, Hanno fatto collassare lo Stato, ma senza assumersi alcuna responsabilità: anzi, quando il gioco si è fatto davvero duro, con l’assassinio dell’ambasciatore J. Christopher Stevens a Bengasi (che, di racconta, fu trovato impalato) mollarono definitivamente i libici al caos che gli USA stessi avevano contribuito ad ingenerare.

 

Gheddafi jr ne ha anche per Recep Tayyip Erdogan: «Prima era con noi e contro l’intervento occidentale»., C’è nell’articolo anche un accenno a Nicolas Sarkozy, definito «attore straniero opportunista». Il giornale non lo dice, ma Sarkozy fu sospettato di aver spinto per la guerra in Libia anche a causa di imbarazzanti voci di finanziamenti di Gheddafi riguardo la campagna elettorale presidenziale del 2007: Saif nel 2018 dichiarò ad Euronews che «l’ex presidente Sarkozy è responsabile del caos, della diffusione del terrorismo e del traffico di esseri umani in Libia». Mentre Erdogan ora è da considerarsi il protettore militare del governo di Tripoli, dove ha scalzato il ruolo di Roma in vari settori, arrivando a far sgomberare un ospedale italiano per far posto ai suoi miliziani, che sono, si dice, tagliagole veterani del macello siriano.

 

In un Paese con lo Stato collassato, comando tribù e milizie – che chiamano meno spregiativamente kataib, brigate. E cioè clan familiari, alcuni dei quali in grado di compiere atrocità senza fine

L’intero appeal pollitico di Saif si riflette nella sua analisi veritiera della Libia come Stato in perenne collasso. «Non è nel loro interesse avere un governo forte»,  dice dei governi che si alternano. «Ecco perché hanno paura delle elezioni. Sono contrari all’idea di un presidente. Sono contro l’idea di uno Stato, un governo che ha la legittimità derivata dal popolo».

 

In un Paese con lo Stato collassato, comando tribù e milizie – che chiamano meno spregiativamente kataib, brigate. E cioè clan familiari, alcuni dei quali in grado di compiere atrocità senza fine.

 

Per esempio a Tarhuna, una cittadina agricola a circa un’ora di macchina a sud-est della capitale, comandava la milizia dei fratelli Kani. Alla fine, la loro kataib è stata cacciata. Dal  giugno dello scorso anno, quando i Kani se ne sono andati,  i residenti hanno iniziato a trovare resti umani vicino a un uliveto ai margini della città.

 

Le squadre di scavo hanno scoperto i corpi di 120 persone, ma vi sono anche altre fosse comuni. Più di 350 famiglie hanno denunciato la scomparsa di parenti. Le vittime includevano donne e bambini, ad alcuni dei quali hanno sparatoi fino a 16 volte.

«Per molti libici, Saif era diventato una specie di fantasia nazionale collettiva, un sogno di salvataggio»

 

«Quando le loro storie sono emerse, si è aperta una finestra su un bizzarro regno del terrore che è durato per quasi otto anni. Nessuno ha fatto nulla per fermare i Kani, perché si sono resi così utili a tutti nella classe politica libica, alleandosi prima con i capi politici di Tripoli e poi con Haftar. Il loro regno ha trasformato Tarhuna in uno stato di polizia con echi di Gheddafi: sei fratelli hanno messo il loro marchio su tutto e hanno terrorizzato la loro gente, tutto in nome della rivoluzione».

 

E in questa situazione che Saif è diventato un miraggio benevolo per tutta la popolazione della Libia.

 

«Per molti libici, Saif era diventato una specie di fantasia nazionale collettiva, un sogno di salvataggio – scrive Worth – il suo mistero sarebbe un balsamo per loro. Vorrebbero credere che fosse cambiato e che avesse imparato. Dopo tanti anni di delusioni, erano alla disperata ricerca di un salvatore. “Penso che la gente speri in una storia di redenzione”, mi è stato detto da un avvocato libico».

 

Riassumendo: Gheddafi sta tornando – e la cosa potrebbe sconvolgere gli equilibri mediterranei e non solo. L’Italia non se ne sta nemmeno accorgendo. Del resto, che ci volete fare: la diplomazia è in mano a Giggino Di Maio, e non si tratta di una «fantasia nazionale collettiva», ma dell’amara realtà.

 

Una realtà che, una volta di più, potrebbe costarci carissimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Geopolitica

Lo sceicco emiratino Mohamed bin Zayed è stato il primo a congratularsi con Putin per il suo insediamento

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Il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, è apparentemente il primo leader straniero a congratularsi con Vladimir Putin per il suo insediamento per il quinto mandato come presidente russo, avvenuto martedì scorso.

 

«Esprimo le mie congratulazioni al presidente Vladimir Putin per il suo insediamento come presidente della Russia. Gli Emirati Arabi Uniti si impegnano a collaborare con partner internazionali negli sforzi per rafforzare il dialogo globale, lo sviluppo e la cooperazione a beneficio di tutti i popoli», ha scritto il leader degli Emirati Arabi Uniti in un post su X in inglese, arabo e russo.

 

Al Nahyan è stato anche tra i primi leader stranieri a congratularsi con Putin per la sua schiacciante vittoria alle elezioni presidenziali del mese scorso, nelle quali si è assicurato il record dell’87,28% dei voti. In una telefonata con Putin il 20 marzo, ha affermato che non vede l’ora di continuare a lavorare insieme per rafforzare le relazioni bilaterali tra Emirati Arabi Uniti e Russia.

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Gli Emirati Arabi Uniti sono emersi come un partner commerciale chiave per la Russia in Medio Oriente dall’inizio del conflitto in Ucraina nel febbraio 2022, che ha portato i Paesi occidentali a imporre sanzioni senza precedenti a Mosca.

 

Le relazioni economiche tra i due Stati si sono espanse rapidamente negli ultimi due anni, con un fatturato commerciale in aumento di oltre il 60% solo nel 2023. Gli Emirati Arabi Uniti sono anche tra i maggiori investitori regionali nell’economia russa, e sono la base di Telegram, l’app social di messaggistica creata da russo Pavel Durov, ora popolarissima in tutto il mondo grazie all’assenza di censura.

 

Il sovrano di Abu Dhabi, detto anche MbZ, è considerato una sorta di monumento per la politica nella regione e non solo. Di recente il giornalista Tucker Carlson ha riferito che molti leader internazionali lo consultano per la sua saggezza, che a detta dell’americano deriverebbe anche dal fatto di ammettere talvolta di non avere la soluzione a determinati problemi.

 

MbZ è ritenuto mentore e confidente del più giovanel Mohammed bin Salman, l’uomo forte di Ryadh, detto anche MbS. MbZ e MbS sarebbero apparsi in resoconti giornalistici in cui i due scherzavano sul fatto di avere «nel taschino» l’uomo di Trump per il Medio Oriente, il genero ebreo Jared Kushner. Ad ogni modo, gli Emirati il risultato degli sforzi di Trump furono gli Accordi di Abramo.

 

Secondo la classifica stilata da Bloomberg sulle dinastie più ricche del mondo, la Casata dei Nahyan, la famiglia del presidente degli Emirati Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan, che si è aggiunta alla lista per la prima volta, è emersa come la dinastia più abbiente a livello globale.

 

Lo sceicco è inoltre al centro dell’operazione vaticana di avvicinamento all’islam (come visto, appunto, ad Abu Dhabi), nonché di sincretismo generale (come visto ad Astana).

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Secondo la testata di inchiesta The Intercept che ha fatto riferimento alle e-mail hackerate dell’ambasciatore emiratino in USA Yousef Al Otiaba, un cittadino americano Khaled Hassen avrebbe ricevuto 10 milioni di dollari nel 2013 per un presunto accordo per tortura dopo una causa presentata alla corte federale di Los Angeles contro tre alti reali di Abu Dhabi, tra cui Mohamed bin Zayed. Nel 2021 vi fu polemica quando fu eletto presidente dell’Interpol l’alto funzionario del ministero degli Interni degli Emirati Arabi Uniti Ahmed Naser al-Raisi, accusato da ONG e attivisti di aver avallato violenze e abusi nelle carceri.

 

MbZ è noto per la sua opposizione ai Fratelli Musulmani e all’Iran e i suoi proxy, ed apparentemente all’integralismo islamico in generale. Da quando sono diventati presidente de facto, gli Emirati Arabi Uniti hanno partecipato alla guerra contro l’ISIS e sono stati ufficialmente parte dell’intervento guidato dall’Arabia Saudita nello Yemen fino a quando gli Emirati Arabi Uniti non hanno ritirato le loro truppe nel 2019. Gli Emirati Arabi Uniti non sono d’accordo con l’approccio dell’Arabia Saudita nella guerra per il suo sostegno ad Al -Islah, un partito che gli Emirati Arabi Uniti considerano vicino ai Fratelli Musulmani; ma mantiene il suo sostegno al Consiglio di transizione meridionale.

 

Lo sceicco ruppe con l’amministrazione Obama sull’accordo sul nucleare iraniano e ha sostenuto il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano.

 

Come riportato da Renovatio 21, Abu Dhabi – emirato retto da MbZ  – a inizio 2023  aveva suggellato con Pechino un accordo sullo sviluppo del nucleare civile.

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

 

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Geopolitica

Il presidente colombiano Petro chiede alla Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto per Netanyahu

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La Corte penale internazionale e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite devono agire per prevenire il «genocidio» del popolo palestinese nella città densamente popolata di Rafah, nel sud di Gaza, ha affermato venerdì il presidente colombiano Gustavo Petro.   Venerdì il gabinetto di guerra israeliano ha approvato una «misurata espansione» dell’operazione militare in corso a Rafah, con il primo ministro Benjamin Netanyahu che ha promesso che Gerusalemme Ovest continuerà la sua campagna militare contro i militanti di Hamas e «combatterà con le unghie» se gli Stati Uniti interromperanno le forniture di armi.   «Netanyahu non fermerà il genocidio», ha scritto Petro su X, reagendo alla dichiarazione del leader israeliano. «Ciò implica un mandato d’arresto internazionale da parte della Corte penale internazionale».

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Il leader colombiano ha poi suggerito che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU debba «considerare la creazione di una forza di mantenimento della pace nel territorio di Gaza».   In un discorso del Labor Day a Bogotà all’inizio di questo mese, Petro ha promesso di interrompere le relazioni diplomatiche con la leadership «genocida» di Israele , esprimendo solidarietà con i palestinesi di Gaza i cui «bambini sono morti, smembrati dalle bombe».   Diversi media hanno riferito il mese scorso che la Corte penale internazionale potrebbe accusare Netanyahu e diversi altri funzionari di alto rango di crimini di guerra per la guerra in corso a Gaza. Secondo la testata statunitense Axios, Netanyahu ha chiesto al presidente degli Stati Uniti Joe Biden l di impedire alla Corte penale internazionale di perseguitare lui, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo di stato maggiore dell’IDF Herzi Halevi.   Sia i deputati repubblicani che quelli democratici degli Stati Uniti hanno avvertito la Corte penale internazionale delle «conseguenze» nel caso in cui avesse perseguito funzionari israeliani. Secondo quanto riferito, un gruppo di legislatori repubblicani sta ora escogitando sanzioni contro la Corte.   Israele ha lanciato un’operazione militare contro Hamas a Gaza in seguito alla mortale incursione del gruppo militante del 7 ottobre, che ha causato la morte di oltre 1.200 persone, mentre centinaia di israeliani sono stati presi in ostaggio. Secondo le autorità sanitarie controllate da Hamas, l’operazione punitiva delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) ha provocato la morte di 35.000 palestinesi, per lo più civili.   A gennaio, la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite (ICJ) ha affermato in una sentenza che era «plausibile» che l’esercito israeliano avesse commesso un genocidio nell’enclave palestinese densamente popolata.

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Come riportato da Renovatio 21, in settimana governo colombiano aveva ufficialmente notificato all’ambasciatore israeliano la fine delle relazioni diplomatiche e l’intenzione di ritirare il personale correlato, decidendo tuttavia che i servizi consolari dovrebbero essere mantenuti sia a Tel Aviv che a Bogotá.   Bolivia e Belize hanno interrotto le relazioni con Israele all’inizio della guerra, mentre Cile e Honduras hanno richiamato i loro ambasciatori da Israele.   Come riportato da Renovatio 21, il presidente venezuelano Maduro ad inizio anno aveva dichiarato che Israele ha lo stesso sostegno occidentale di Hitler. Il Nicaragua è andato oltre, attaccando anche i Paesi «alleati» dello Stato ebraico come la Repubblica Federale Tedesca, portando Berlino davanti alla Corte Internazionale per complicità nel genocidio di Gaza.   In Sud America Israele sembra godere del favore parossistico – definito «chiaro ed inflessibile sostegno» – del presidente argentino Milei, uomo consigliato da rabbini che sarebbe in procinto di «convertirsi» al giudaismo, che ha addirittura fatto partecipare l’ambasciatore israeliano ad un gabinetto di crisi del governo di Buenos Aires, destando scandalo nella comunità diplomatica del suo Paese.   Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il Milei ha definito il presidente colombiano Petro «assassino terrorista», provocando così l’espulsione di tutti i diplomatici argentini da Bogotá.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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Carri armati israeliani distruggono la scritta «I love Gaza»

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L’esercito israeliano ha attaccato scritte e cartelli con la parola «Gaza» dopo aver preso il controllo del valico di frontiera di Rafah all’inizio di questa settimana, investendoli deliberatamente con i carri armati, secondo filmati che circolano online.

 

Il danno raffigurato nel filmato sembra essere stato inflitto dai carri armati della 401a Brigata israeliana, che sono entrati al valico di Rafah martedì mattina. Il valico di frontiera collega l’enclave palestinese con l’Egitto.

 

Un video che circola online, girato da un membro dell’equipaggio di un carro armato Merkava, mostra il veicolo che manovra davanti a un cartello «I love Gaza» all’incrocio. Il carro armato quindi prende di mira il cartello e lo investe.

 

 

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Un carro armato dell’IDF ha anche distrutto un cartello con la scritta «Gaza» situato di fronte a una struttura al confine.

 

 

Un altro video sembra mostrare le forze israeliane che abbattono le bandiere palestinesi sul posto e issano quelle israeliane per sostituirle.

 


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Lunedì notte Israele ha lanciato il suo attacco a lungo discusso contro la città di Rafah, nel sud di Gaza. L’avanzata via terra è stata accompagnata da attacchi aerei sulla città densamente popolata, che aveva visto un grande afflusso di rifugiati dal nord nel contesto del conflitto tra Israele e Hamas.

 

Secondo il ministero della Sanità palestinese, il computo dei morti sarebbe oltre i 36 mila – un «genocidio» in corso secondo vari osservatori internazionali, ottenuto attraverso le armi avanzate e perfino la fame.

 

La volontà di annientamento percepibile dalla cancellazione della stessa parola «Gaza» si riflette anche in dichiarazioni come quella del ministro del patrimonio culturale israeliano Amichai Eliyahu che apriva alla possibilità di nuclearizzare Gaza. L’annientamento è il destino degli amaleciti, popolo di cui, nel Vecchio Testamento, è chiesta la distruzione assoluta. Netanyahu e i suoi sono stati accusati anche alla Corte Penale Internazionale di aver usato questo riferimento biblico, ma l’ufficio del premier ha parlato di fraintendimento.

 

In rete circolano varie battute degli israeliani sul destino della Striscia, spianata per diventare «un parcheggio» o un’immensa spiaggia. La questione è presa sul serio dal genero di Donald Trump Jared Kushner il quale, proveniente da una famiglia di palazzinari ebrei finanziatori diretti di Bibi Netanyahu in Israele e del Partito Democratico in USA, si è fatto notare di recente per aver detto che «è un peccato» che l’Europa non accolta più profughi palestinesi in fuga da Gaza, per poi fare dichiarazioni entusiastiche sul valore delle proprietà immobiliari future sul lungomare della Striscia.

 

Come riportato da Renovatio 21, video atroci sono emersi subito dall’attacco israeliano a Rafah.

 

Come riportato da Renovatio 21, il ministro israeliano Itamar Ben Gvir ha minacciato di far cascare il governo Netanyahu, di cui è membro con il suo partito ultrasionista Otzma Yehudit («Potere ebraico») qualora l’esercito israeliano non fosse entrato a Rafah.

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Immagine screenshot da Twitter

 

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