Necrocultura

Depiddificazione vera liberazione

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Fino a poco fa, se ci avessero detto, a reti unificate, che nelle piazze d’Italia le manifestazioni del 25 aprile – sulla carta festa della liberazione dell’Italia dal nazifascismo – vi erano state violente accuse contro un partito di destra in rapporti anche casuali con un qualsiasi gruppo neonazista straniero, non ci saremmo sorpresi.

 

Il 25 aprile, e poco dopo il 1° maggio, a questo servono: le sinistre e i sindacati ringhiano un po’, gli si dà un po’ di pubblicità, e via.

 

Fino a poco fa, tuttavia non esisteva nella percezione pubblica il fatto che c’è un Paese d’Europa i cui vertici sono probabilmente in mano a gruppi nazistoidi, con timbro a forma di croce uncinata a certificare la purezza ideologica e non solo ideologica.

 

Fino a poco fa, la pubblica opinione non poteva pensare nemmeno lontanamente che il partito (cioè i partiti: ci sono le propaggini feudali biodegradabili di D’Alema e Speranza, il quale vorrebbe chissà perché riconfluire) che si vuole figlio della Resistenza potesse allearsi con i nazisti. Di più, mandare loro armi. Di più: giustificare il ritorno del nazismo con pubbliche acrobazie orwelliane.

 

Tutto questo, invece è successo. Se pensavate che le ultime due feste della Liberazione, passate da prigionieri delle proprie cause causa lockdown, fossero l’ultimo colmo, l’ultimo segno del mondo invertito, l’ultima evidenza della presa per il sedere a cui siamo sottoposti, vi sbagliavate.

 

Voilà. Ecco il 25 aprile ucrainista, o meglio, ucronazista. Eccoti i giornali italioti, oramai interamente allineati con l’establishment e cioè con il suo partito – il PD – che ti parlano dei nazisti dell’Azov come della «nuova resistenza».

 

Partigiani runici. La Resistenza con la svastica, e il Sonnenrad di Himmler. È semplicemente incredibile, ma è il mondo in cui ora state vivendo.

 

Putin all’inizio dell’Operazione Z aveva parlato di denazificazione. Media e politici italiani avevano ignorato la cosa, forse perché nella loro suina ignoranza non conoscevano il problema della nazificazione di Kiev. Poi, una volta informati dal padrone che dovevano smontare la cosa, hanno cominciato a dire che è impossibile che l’Ucraina è nazista, perché lo Zelen’skyj è ebreo: non sanno, i professionisti dell’informazione, che da quasi due lustri la questione nel Paese ha pure una definizione semiseria, «zhidobandera» («giudeobanderista») che nasconde la verità incontestabile: tanti battaglioni ultranazionalisti sono stati foraggiati, se non creati, da personaggi come Igor Kolomojskij – per breve tempo, dopo una scalata delle sue, a capo del Consiglio Ebraico Europeo delle Comunità Ebraiche – che è anche, guarda caso, il puparo dietro l’ascesa di Zelens’kyj.

 

In pratica, il PD (e gli altri partiti che si vogliono nati dalla Resistenza, come la Lega Nord) stanno nazificando l’Ucraina. Oggi tuttavia festeggiano la denazificazione dell’Italia. Non una grinza.

 

Ci sarebbe qui da perdersi nella tana del coniglio metastorico, metapolitico, metageopolitico. Alla fine, davvero, non conta il colore di camicia che si indossa: conta la volontà del padrone atlantico, conta la sete di sangue del demone angloide. Il quale usa chiunque come sua pedina, anche a poca distanza di tempo, trattando gli esseri umani secondo un distico della poesia di Gozzano: «così come ci son formiche rosse, / così come ci son formiche nere».

 

Proprio come insetti, gli uomini neri sono stati mandati allo sbaraglio, e l’ordine del demone atlantico è quello di sacrificarsi, di morire, magari assieme a qualche civile, nel bunker di un’acciaieria, anche quando avrebbero la possibilità di arrendersi e, come promesso dai russi, ottenere in cambio la «conservazione della vita».

 

La trasformazione degli uomini in insetti è, del resto, una delle basi della Necrocultura. È incredibile notare come alcuni dei teorizzatori della riduzione della popolazione fossero entomologi. Paul Ehrlich, che con il suo libro La bomba demografica (1968) introdusse il mondo al tema della depopolazione, è un entomologo: ogni sua predizione su carestia e guerra causata dall’aumento demografico incontrollato è stata sconfessata, il personaggio sembrava dimenticato… Poi, improvvisamente, è riapparso nel vaticano Bergogliano, invitato a sante conferenze…

 

Ora, c’è un partito, in Italia, di radici assai solide, che oltre ad allearsi con i nazisti è il capofila di contraccezione, aborto, ecologismo antiumano. Non stiamo parlando del M5S, che a breve sarà biodegradato in forma quasi totale (qualcuno in meridione, siamo certi, lo voterà ancora, e chissà perché). Non stiamo parlando di Pannella, a cui va dato atto di essere stato sincero pioniere della questione.

 

Parliamo, ovviamente, del PD. L’unico vero partito italiano. Il più potente, il più completo, il più invincibile. Governano da decenni, pure quando perdono le elezioni. E anche quando c’era Berlusconi, in quella che qualche editorialista de La Repubblica debenedettiana chiamava «l’era silvica», in realtà comandava comunque la classe pidizzata, che aveva il monopolio culturale e morale, e un numero imprecisato di radici nello Stato profondo e nelle microrealtà territoriali, con relative mangiatoie di voti.

 

Se prendiamo per buona la lucida definizione di Rino Formica dello Stato-partito, possiamo dire che esso coincide, in larga parte, con il PD.

 

Il PD è un ente macchinale, è oramai la meccanica stessa dello Stato.

 

Fateci caso: i leader che si dà sono contradditori, improbabili, eppure la macchina va avanti.

 

C’era Fassino, il cui carisma è diventato poi purtroppo oggetto di scherzi online in tema di iattura.

 

C’era Bersani, che riuscì a perdere pure quando aveva vinto le elezioni, facendosi devastare la manovra per Prodi presidente e dando poi il partito in mano ai giovanotti, Letta e poi Renzi, che poco c’entravano con la sua corrente – ammettiamo di far fatica a ricordare queste cose, perché se pensiamo a Bersani pensiamo soprattutto al diluvio di aforismi nietzschiani regalatici negli anni, tipo «non siam mica qui a pettinare le bambole», «C’è chi preferisce un passerotto in mano che un tacchino sul tetto», «Tu vuoi un tortello a misura di bocca», e poi ancora il «vedere la mucca nel corridoio» e lo «smacchiare il giaguaro»  e ancora «Ci hanno levato la briscola e siamo rimasti col due in mano» (quest’ultima è infine realistica ed autobiografica, e sa di Bettola, nel senso del suo paesello natìo, dove peraltro talvolta stravince la Lega).

 

C’era Renzi, che era odiato da una fetta consistente del partito, che però poi in qualche modo se l’è fatto andare bene, anche quando era chiaro che non c’entrava niente: e infatti si è fatto il suo partito, e ha tolto il disturbo amputando una quota di deputati piddini. Anche quella, una cosa perdonata, una cosa senza vere conseguenze: ora governano insieme.

 

C’era Zingaretti, fratello di Montalbano, questionato brevemente per i titoli di studio e le gaffe incredibili a inizio COVID: se lo se tenuti stretti, fino a quando ha voluto lui, nonostante fosse che la sua politica fosse priva di spina dorsale (e in Lega sussurrano pure che aveva un accordo con Salvini per andare a elezioni nel 2019 così da micronizzare i grillini e far sparire Renzi… chissà se è vero).

 

Poi arriva Letta, che era stato detronizzato dal Renzi (una sorta di minestra riscaldata, quindi) per motivi ancora indecifrabili, che si era sistemato presso un altro Paese nostro legittimo rivale con mire di conquista economica (e non solo) nei nostri confronti; stava a fare il fenomeno in questa prestigiosa università della parigineria, e piazzava sui social foto di lui con i sottoposti mentre fa balletti socialtrendy: insomma, la persona giusta per tornare alle radici popolane, operaie, resistenziali del Partito. È tornato smagrito e radicalizzato: ius soli, omotransfobia. La sintonia con la pancia del Paese è totale.

 


(En passant, ricordiamo con il nipote di Gianni Letta fu anche premier, e fu praticamente un dei pochi premier o presidenti a presenziare all’apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi, che furono il trionfo di Putin, al punto che una settimana dopo, per fermarlo, gli combinarono Maidan)

 


Lasciate perdere i segretari. Guardate i primi ministri che hanno applaudito nei decenni in cui hanno comandato. Quasi nessuno, praticamente, era davvero del partito. Prodi appariva e scompariva, piazzato alla Commissione Europea, ripescato, ributta giù, infine tirato fuori per l’elezione presidenziale del 2013 e abbandonato. Ma tecnicamente quanto era davvero presente nel partito?

 

Per Monti i Dem si sono spellati le mani: poi lui ha fatto un partito per i fatti suoi, rubando un po’ di voti, poi finite nel niente insieme a Scelta (Sciolta) Civica.

 

Il premier Renzi era talmente PD che il partito lo ha lasciato squartandone un pezzettino.

 

Conte bis? Lo hanno adorato. Qualcuno lo voleva perfino al vertice PD. Non importa che fosse un UFO tirato fuori da un non ancora ben compreso cilindro fatto di grillini e qualcos’altro di un po’ più oscuro.

 

Draghi? Lo avete visto, il PD si sdilinquisce per «quello bravo», gli va bene pure far cadere il loro governo.

 

Ecco, scorrendo la galleria lo capite da voi: nessuno dei leader conta qualcosa per i piddini, e neppure nessuno dei premier che sostengono.

 

Non importa quanto potere abbiano: possono essere al contempo governatori di grandi regioni, premier del Paese, professori internazionali, favoriti di israeliani e repubblicani USA, banchieri centrali. Con o senza leader, con o senza esseri umani,  la macchina va avanti.

 

Il problema, quindi, non è negli uomini del partito, che non contano nulla: né la base, né i vertici. In questo, bisogna dirlo, il PD è davvero moderno: è una macchina che procede senza l’essere umano o nonostante l’essere umano, è come un un T-800 nel finale del primo Terminator: può togliergli completamente la carne, lo va avanti lo stesso, spietato, implacabile.

 

Ciò è possibile perché il PD, sin da quando si chiamava PCI, ha perseguito una politica molto lungimirante, che è quella di mettere radici solide nel corpo del Paese.

 

Radici che sono politiche e amministrative: due regioni intere, Emilia-Romagna e Toscana, sono saldamente in mano piddina, nonostante tutt’intorno ai grandi centri urbani – cioè le grandi mangiatoie elettorali – il consenso sia crollato in modo vergognoso.

 

Non solo. Ci sarebbe poi la radicalizzazione nella magistratura, che fu cavallo di battaglia del Berlusconi degli anni Novanta; oggi a parlare di magistratura politicizzata c’è anche qualche giovanotto, ma tanto la cosa non fa notizia.

 

C’è, soprattutto, la parte di radicamento più potente: l’economia. Eccoti la grande assicurazione, eccoti la Banca Toscana, eccoti il sistema delle cooperative, una filiera titanica e resistente a tutta, perfino alla pandemia: ricordate? Chiusi in casa, passeggiata con il cane a 200 metri dalla porta massimo, tuttavia all’ipermercato andate pure ad ammucchiarvi, lì non c’è rischio alcuno.

 

La cosa sconvolgente è che glielo hanno consentito. Questa è stata la demenza democristiana, la stupidità di tutti i partiti della Seconda Repubblica, che hanno accettato come irreversibile questo processo, accontentandosi di quello che veniva lasciato loro. La fetta è diventata un avanzo della torta, quindi una briciola, quindi nulla.

 

Qualcuno fa risalire la cosa al famoso patto, risalente agli inizi della Repubblica, di cui parlava Ettore Bernabei nel libro L’uomo di fiducia. Un accordo segreto, ma non più di tanto, stipulato de visu tra Alcide De Gasperi (per la DC), Palmiro Togliatti (per il PCI) e il banchiere Raffaele Mattioli (per la massoneria): ai bianchi la politica e la magistratura (per la seconda, sappiamo come è andata a finire: lungimirantissimi); ai rossi lo spettacolo e la cultura e due regioni (indovinate quali) strafinanziate rispetto alle altre; ai massoni le banche e tutto il potere finanziario – tuttavia abbiamo visto l’élite piddina intercettata esclamare, qualche anno fa «abbiamo una banca!», quindi si sono allargati anche lì, pure in zona cappuccetti, che un po’ in verità stanno anche nel PD.

 

Quindi, chi pensa che il PD sia solo un partito, un qualcosa che quindi si può battere con le elezioni, non sa di cosa sta parlando. Le ultime elezioni emiliano-romagnole, a cui Renovatio 21 prestato speciale attenzione, ci hanno insegnato definitivamente che c’è molto, molto di più dietro ai voti piddini, sia che si perda, sia che si vinca.

 

Il PD è una macchina, dicevamo, una creatura automatica con braccia multiformi che scavano a profondità abissali.

 

Fermare questa macchina sembra impossibile, a meno che non si proceda in modo radicale, cioè, letteralmente, dalle radici.

 

Abbiamo assistito nelle decadi repubblicane alla progressiva piddificazione dell’Italia.

 

Ora, l’Italia piddificata ci ha portato verso il baratro più esiziale della nostra storia: la Guerra non è più fredda, la Guerra è calda, la distruzione atomica è a un passo da noi.

 

Notatelo: quelli che furono leader PD sono stati considerati come papabili per il segretariato NATO, ossia della realtà che, essendo stata creata dal demone angloide per questo, sta spingendo verso lo scontro totale. La stessa NATO che, non differentemente da quanto fatto durante gli anni dell’operazione Stay Behind, foraggia forze neonaziste, quelle contro le cui mostrine runiche si dovrebbe abbaiare il 25 aprile.

 

Ci troviamo, insomma, dinanzi ad un pericolo esistenziale per noi stessi, per il Paese, per i nostri figli, per la Civiltà.

 

È da ottusi non vedere il ruolo del PD, o meglio, dello Stato-partito, dello Stato-piddificato, nella situazione apocalittica in cui ci hanno cacciati.

 

L’unica vera liberazione da tale rischio, per l’ora presente e per il futuro, e la depiddificazione dell’Italia.

 

Fermate la macchina distruttrice, che procede ciecamente senza curarsi né della decenza, né della logica, né degli esseri umani.

 

Serve qualcuno che lo dica ad alta voce: la depiddificazione è l’unica vera liberazione di cui hanno bisogno ora l’Italia e l’umanità tutta.

 

Perché il Partito, tra armi ai neonazisti e salamelecchi al demone atlantico, ci ha portato non molto democraticamente verso il baratro termonuclare.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

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