Pensiero

Addio a Primo Siena. Ricordo di una serata speciale a Santiago

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È morto Primo Siena, intellettuale che aveva attraversato tutto il secolo italiano. Aveva quasi 95 anni.

 

Io, pur non sapendo nulla della sua opera, l’avevo conosciuto, per incredibile coincidenza (o qualcosa di più in là), dall’altra parte del mondo. Primo, che aveva girato il mondo per seguire le scuole italiane all’estero per conto del Ministero dell’Istruzione, si era stabilito circa trent’anni fa a Santiago del Cile.

 

A inizio 2019 mi trovavo in Cile per un paio di lavoretti. Un pomeriggio mi arriva un SMS del mio avvocato, che, diciamo così, è cultore della materia. Gli rispondo mandandogli i miei saluti da Santiago del Cile. «Santiago?» risponde subito lui. «Salutami Primo Siena». Non ricordo bene come replicai. Insomma, ero là per lavorare, e figurati se mi metto a cercare questo Primo Siena, che neanche so bene chi sia.

 

Il nome tuttavia mi suonava: forse me ne aveva parlato, in una delle fluviali telefonate notturne che facevamo, Piero Vassallo. La percezione era che Primo Siena fosse uno del giro antico-fascista, di quelli che erano stati nel MSI, di quelli che scrivevano di Evola, di Mussolini, robe così. A me queste cose non interessano, e non ci voglio aver niente a che fare: oggi meno che mai. E me ne tengo lontano. Quindi, perché mai avrei dovuto incontrare Primo Siena a Santiago?

 

Poche ore dopo ero all’ambasciata d’Italia a Santiago, dove per qualche ragione ero stato invitato ad un evento-serata di gala nello splendido giardino della residenza (dove, tuttavia, durante la dittatura ci buttarono dentro, da dietro il muro, il cadavere di una ragazza).

 

C’erano ministri del governo Piñera, insopportabili attrici delle soap opera locali, frotte di elegantoni e classici fenomeni zonali che rimbalzano come flipper tra le feste diplomatiche (ogni grande città ne ha, Roma su questo credo sia imbattibile). Io, che non conoscevo quasi nessuno, e di fatto c’entravo molto limitatamente, me ne stavo in disparte. E poi avevo la testa altrove, focalizzata su una bambina che stava crescendo dentro una ragazza bellissima dall’altra parte dell’Oceano.

 

Per cui, non potendo andar via prima, aspettai che a serata inoltrata la folla si riducesse – con i residui concentrati sull’open bar e sul buffet in chiusura – per impadronirmi di un intero tavolino attorniato da divani piazzati in mezzo al giardino. Schiena sul cuscino, gambe conserte, fuori il telefonino, e giù a scrollare l’intera internet per far passare il tempo.

 

Tuttavia, dopo qualche minuto alzai la testa: c’era un brusio potente che mi si stava avvicinando. Anzi, mi erano praticamente addosso. Erano un gruppo di persone, che di primo acchito riconoscevo come eterogenee, per età e morfologia, e – strano a dirsi ma è così – felici.

 

Una signora con un sorriso radioso mi guarda e chiede, indicando i divani vuoti, «¿Se puede?». Io, che non ho nemmeno il tempo di capire se sono infastidito, rispondo automaticamente «claro que si».

 

Il gruppone, energico e vociante, si siede ed occupa ogni spazio attorno a me, con gente anche in piedi: cercavano solo un posto dove sedersi per magiare la torta. Tuttavia, la prima persona che la signora sorridente fa sedere, proprio accanto, a me è un signore anziano, i capelli bianchissimi che brillano nella notte, anche lui un’espressione di serenità ineffabile.

 

«Ti presento Primo Siena» mi disse la signora.

 

Eh?

 

«Yo soy Primo Siena» fa lui guardandomi e tendendomi la mano.

 

Potete capire il mio smarrimento. Parimenti, il buonumore conseguente. Ammetto che fu difficile spiegare che poche ore prima mi avevano chiesto di salutarlo. Non capivano bene, sia che lo raccontassi in italiano che in spagnuolo. La coincidenza è troppo grossa. Cominciarono un po’ a capire quando tirai fuori il telefonino con il messaggino che diceva «Salutami Primo Siena».

 

Di lì fu una serata fantastica. Magica, è il caso di dire. Seguirono presentazioni, chiacchiere, bicchiere e risate. Quel gruppo, fatto di ragazzi e di anziani e, visibilmente, di persone di ogni colore – tutti però con una qualche relazione con l’Italia – era davvero eccezionale. C’era un ragazzo, più o meno della mia età, alto e biondo: padre italo-cileno, madre tedesco-cilena, nessun dubbio verso quale ambasciata tendere. C’erano un signore di mezza età, che era piemontese ma faceva il giornalista lì. C’erano una serie di ragazze. Una in particolare aveva tratti incontrovertibilmente autoctoni, vorrei dire, mapuche. Il suo nome, molto polisillabico, non lo posso ricordare, perché era in una lingua mai sentita prima, tuttavia ricordo la sua storia: era nata lì, ma cresciuta a Roma. Facile indovinare perché: i genitori erano scappati dal Cile di Pinochet.

 

Tuttavia, rammento ancora più nitidamente come mi saltasse agli occhi l’amore della signora elegante e sorridente – anche lei, a guardarla bene, potrebbe avere lineamenti mapuche – nei confronti di Primo, che è sempre seduto a fianco a me. Lo continua ad accarezzare, gli passa la mano sulla chioma canuta lucente, lo chiama «Primito» gli occhi ad un certo punto mi pare le si bagnino. La señora Siena è esaltata dalla casualità di aver fatto sedere il suo adorato marito a fianco di uno che aveva ricevuto poco prima il compito di salutarlo da qualcuno sull’altra faccia della terra. La storiella pare a tratti aumentare il suo affetto per il marito, che continua a carezzare.

 

 

Fu un momento di pace, e di dolcezza, insperato. Fu davvero una bella serata.

 

Nei giorni successivi non rividi Siena, ma il ragazzo alto e biondo sì. Si offrì, con estrema generosità di farmi da Cicerone su e giù per Santiago. Gli chiesi di portarmi all’immane cimitero della capitale, una vera necropoli che si gira in macchina: volevo vedere piazzetta Craxi (che sorge tra tonitruanti mausolei di famiglie di massoni local) e pure la tomba d Miguel Serrano, ambasciatore col pallino del nazi-tantrismo, vero personaggione che sulla tomba, un po’ triste, ci ha runa inedita buttata là.

 

Poi mi introdusse al concetto del café con piernas («caffè con gambe»), una cosa che esiste solo a Santiago: in pratica sono dei bar, alcuni in superficie alcuni no, dove il caffè te lo portano fanciulle in abiti discinti, o ritenuti tali: il tutto alla luce del sole, nel quartiere più centrale, con nient’altro che succede che non sia, appunto, il caffè portatoti da gambe vagamente ignude. Alcune ragazze baciano i clienti sulle guance come se li conoscessero, ma non li hanno mai visti prima. Molte venivano dal Venezuela sprofondato nel totale crash economico, e raccontavano tutto il disastro delle loro famiglie con estrema franchezza, e anche una certa tranquillità.

 

È qui che feci al ragazzo italo-tedesco-cileno la domanda che mi tenevo dentro da quella serata: ma scusa, com’è possibile che nel vostro stesso gruppone di amici c’era Primo Siena, passato per la Repubblica Sociale Italiana e ad occhio non pentitissimo, e una ragazza cresciuta in Italia a causa della famiglia perseguitata da Pinochet?

 

Lui mi guardò pacifico: «sì, qui c’è molta commistione», rispose, come cercando la parola italiana giusta. Il senso che trasmetteva era: a noi importa fino ad un certo punto, qui quelle cose riusciamo a superarle. E sembrava proprio così: quella sera erano tutti giovali come pochi insiemi di amici che ricordo.

 

Era spiazzante. Per molto, molto meno, in Italia, non ci si rivolge la parola, si litiga – in alcuni casi ci si mena. Ho in mente, peraltro, le tante volte che ho visto negli anni nella TV italiana lo scrittore cileno Sepulveda, per qualche motivo molto pubblicato in Italia, anche lui esule di Pinochet, che ripete la parola «fascisti» con disprezzo e oltre. Poi penso alla realtà di Santiago, con la ragazza mapuche dal nome impronunciabile seduta a lato della moglie di Primo, che continua ad accarezzarlo… Primito.

 

Insomma c’era una lezione da portare a casa da quell’incontro con Primo Siena, probabilmente, e non riguardava il pensiero metapolitico o la storia della destra cattolica. Era qualcosa di umano. Strettamente umano.

 

La verità è che niente dura per sempre. Poco dopo che me ne andai, il Cile entrò in una spirale devastatrice. Il populismo intossicò la classe politica – quella che riusciva a tenere parte di quell’equilibrio che avevo testimoniato – e ci furono rivolte, la città messa a ferro e fuoco. Mi dissero che c’era lo zampino della narco-criminalità (che Pinochet aveva totalmente eradicato, ovviamente a modo suo). In realtà era ovvio che c’era molto di più.

 

Si dice che attaccarono pure la sede di un importante gruppo energetico italiano. Di mio ho avuto pochi dubbi – si è trattato di un capitolo iniziale di quella che hanno chiamato la guerra del litio (materiale fondamentale per le batterie ricaricabili con cui va avanti il mondo moderno oramai, di cui il Cile è ricchissimo), il caos sudamericano che portò alla defenestrazione in Bolivia del presidente Evo Morales.

 

Quel paradiso di convivenza forse si guastò. Non so dirlo, a causa della pandemia non sono più tornato in Cile.

 

Tuttavia, quel ricordo mi rimane. È possibile vivere in pace, almeno per una serata.

 

Mi hanno mandato una foto del suo funerale: a lato la bandiera veneta di San Marco, sopra la bara il drappo della Repubblica Sociale Italiana, alla quale, giovanissimo aveva aderito combattendo nell’Italia nordorientale, finendo poi internato nel campo di concentramento titino di Borovnica, in quella che oggi è Slovenia, tra italiani torturati e fucilati.

 

È pura utopia chiedere che chi sta dall’altra parte possa fare pace con la cosa? Si può dire parce sepulto, oltre che per un uomo per bene, anche per l’intera questione del fascismo, che è morto e se rivive è solo nella sua incarnazione della sinistra mondiale pandemica?

 

Evidentemente, non ce la fanno, nemmeno quando hanno la premier post-missina che difenda l’aborto e tutto il resto.

 

Tuttavia, io ci riesco. E quindi saluto l’uomo, l’intellettuale, e pure il combattente, il vecchio e il giovane, l’intera esistenza umana di quel signore che ho incontrato per magica combinazione una sera in Sudamerica.

 

Addio Primito.

 

Che la terra ti sia lieve.

 

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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