Pensiero

Addio al grande filosofo Piero Vassallo. Addio ad un amico

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È morto Piero Vassallo.

 

Per molti è stato il più grande filosofo cattolico della tradizione italiana. Per me è stato, sopra ogni cosa, un grande amico.

 

Ci eravamo conosciuti quando uscì il mio primo libro, oramai una decade fa. Mi chiamò e parlammo a lungo: era chiaro che ci eravamo trovati, condividevamo una stessa linea di pensiero di pensiero, solo che lui aveva dalla sua una cultura sterminata, decenni di studio alle spalle (quando si studiava veramente, e non ci si improvvisava con Google) e un’esperienza di vita lunga quasi un secolo.

 

Piero ricordava la guerra. Piero ricordava il dopoguerra. Piero ricordava tutto l’impatto dell’era moderna sul nostro mondo. A differenza di altri, aveva gli strumenti per capire quello che stava per accadere. Sentiva, sapeva che una Civiltà fondata sull’essere si stava piano piano sgretolando, per essere rimpiazzata da una devastazione votata al niente. Cristo sostituito dal nichilismo assassino e da idoli pagani: questa tendenza, oggi patente, era visibile già 60 anni fa, e Piero lo aveva presente già allora.

 

La precognizione era aiutata dal fatto di aver collaborato con il cardinale Giuseppe Siri. «Dopo di di questa era, sarà il diluvio gnostico» Piero mi disse in una delle nostre innumeri telefonate serotine, parafrasando  un pensiero del cardinale Siri. «Quando parlavamo degli gnostici, all’epoca, la gente rideva. Non sapevano cosa fosse: “ma lo hai mai visto, uno gnostico”? Poi si è visto cosa è successo».

 

Il diluvio gnostico è arrivato, e Piero aveva ogni strumento di pensiero per anticiparlo, diagnosticarlo ed esorcizzarlo.

 

La risorgenza del paganesimo, la corsa a perdifiato della società verso la Necrocultura (aveva scritto nel 1994 un libro, Ritratto di una cultura di morte. I pensatori neognostici), l’attitudine sempre più esplicita del pensiero moderno a tollerare, se non a spingere, il ritorno del sacrificio umano era al centro di tante nostre conversazioni. Piero ne aveva scritto in un romanzo pubblicato negli ultimi anni, Il treno nella notte filosofante – Cronaca di un viaggio tra incubo e teologia. Pur essendo un romanzo satirico, vi era tante cose, anche atroci in modo innominabile, che derivavano da decenni di vita vissuta scandagliando gli abissi della realtà.

 

Piero, docente alla facoltà di Teologia,  rifiutava quello che vedeva avvenire nelle Università. Un lancio di agenzia del lontanissimo 1994 raccoglieva le sue dichiarazioni su Emanuele Severino, Massimo Cacciari ed Elémire Zolla «cattivi maestri»:  «Sono tanti i docenti universitari che insegnano una cultura esoterica, invitando gli studenti a vivere in funzione della morte, in un rapporto con la natura senza più briglie che porta ad abbandonarsi totalmente agli istinti».

 

Riteneva che dietro a molti fatti di cronaca nera (erano gli anni dei sassi dal cavalcavia, delle stragi del sabato sera, dei morti allo stadio) con protagoniste le nuove generazioni «c’è indubbiamente uno sfondo di irrazionalismo neopagano», una cultura che più che nichilista era intimamente esoterica, una cultura che da qualche parte, con fori e sistemi di irrigazione poco visibili ma precisi, era percolata alle masse.

 

Una delle cose su cui ci trovammo subito, era nel rifiuto di Julius Evola, che Piero aveva conosciuto di persona. Da decenni gli era divenuto chiaro quale danno le fumisterie magico-pagane di Evola avessero causato alla destra italiana (di cui era cartografo vero, non come Marcello Veneziani) e più in generale, a generazioni di ragazzi a cui invece che raccontare il primato ontologico dell’Essere di San Tommaso d’Aquino venivano iniettate dosi di nulla a base di neopaganesimo, buddhismo tantrico, «teoria dell’individuo assoluto» e via perdigiornando. Avevamo un progetto di libro su Evola – con già il titolo pronto, Il virus Evola – di cui è rimasto lo scheletro, ma l’introduzione doveva essere di Piero, che era entusiasta di questo primo vero libro scritto contro il filosofo purtroppo egemone della destra del dopoguerra.

 

Da membro della commissione diocesana sulle sette religiose di Genova, si espresse contro l’insegnamento del pensiero tedesco più oscuro che d’un tratto era propalato a piene mani da università e licei: «autori come Nietzsche e Heidegger, pendagli del nazismo, siano dati in pasto agli studenti in modo totalmente acritico. Ed ancor più assurdo è il fatto che a dare loro questo insegnamento siano intellettuali ex marxisti. Non c’è dubbio che dopo la caduta del comunismo, l’unico baluardo in difesa della ragione sia rimasta la Chiesa cattolica».

 

Per questo, chiaramente, libri più o meno sottilmente anticristiani erano stati fatti circolare da una casa editrice che nei decenni era stata oggetto degli strali di Piero, che la riteneva di essere portatrice di un «pericoloso progetto anticristiano» che secondo lui seguiva un piano «volto a creare scompiglio tra gli studiosi credenti». Nel suo libro del 1996  , Piero aveva parlato di una nuova sinistra che si stava impadronendo dei testi teoricamente afferenti destra ma con una finalità esoterica. Un catalogo, scriveva in Ritratto di una cultura di morte, che «rispecchia stati d’ animo che sono al di là del bene e del male, della destra e della sinistra: è la radunata di tutti gli autodistruttori e di tutti gli autosconvolti; l’epilogo dell’ avventura moderna, la luce compiuta del “rinascimento”. Nietzsche e Guénon: la musica del futuro spenta da un incantamento antichissimo. Babele, o cara!».

 

Non si tratta di puri voli intellettuali. Queste visioni finirono, ad un certo punto, in un interrogazione parlamentare. 12 maggio 1993, un deputato missino chiedeva se fosse noto al governo che «numerosi componenti di organizzazioni cattoliche impegnate a contrastare la diffusione di pericolose sette pseudoreligiose (…) segnalano allarmati quanto avvenuto domenica 9 maggio 1993, durante la trasmissione televisiva di RAI 3 Babele». «Babele o cara», appunto. Durante il programma  avevano parlato due autori di certa fama, di certa importanza nel sistema editoriale italico – due di quel catalogo combattuto con forza da Piero. Uno, disse il deputato in Parlamento, «avrebbe affermato che oggi la “via più diretta per avvicinarsi al divino” sarebbe lo stupro e l’esperienza dell’orribile», mentre l’altro «avrebbe chiarito con un esempio il significato delle parole» dell’altro, «e cioè che l’esperienza del “divino” si compie mediante riti di impossessamento, citando come ottima concretizzazione del concetto i riti della “religione” sincretista afro-americana del vudù (la “religione” degli zombi, che sono appunto degli impossessati)».

 

Sembra un romanzo fantasy, ma tutto questo succedeva del nostro Paese – e succede ancora oggi, solo che non vi sono le menti come quelle di Piero per comprendere con lucidità il disegno sottostante. E non c’è più nemmeno il coraggio per gridarlo come faceva vassallo.

 

Aggiungo, come nota più o meno leggera Pierangelo disprezzava sommamente anche la presenza del «gobbo di Recanati», come lo chiamava lui, nei programmi scolastici. Trovava che uno Stato serio avrebbe dovuto togliere immediatamente Leopardi dai libri di scuola. La dottrina cosmo-pessimistica del gobbo – con la natura matrigna, la vita fatta di dolore e basta, etc. – di fatto, più che spiritualismo orientaleggiante para-schopenaueriano, costituisce una pura gnosi – in realtà, la gnosi della sfiga. Questa cosa della gnosi della sfiga, quando mi spiegava la tossicità di Leopardi, lo pensavo io, perché, come molti studenti italiani, l’ho sempre pensato: come è possibile che uno così, con una storia così, sia studiato a scuola, con le poesie a memoria? Come si può allevare una Nazione sul modello di uno che guardava da lontano colline, siepi e donzelle, e che a Silvia mai ha trovato il coraggio di fare un semplice invito per un caffè?

 

Non trovo più parole, adesso. Piero le avrebbe trovate. La sua prosa era irta di termini desueti ed irresistibili: fòmite, umbratile, astrolabio. Il suo stile era inarrivabile: secco e sorprendente, autorevole e godibilissimo, che talvolta provocava impagabili sonore risate. Come dimenticare miriadi di espressioni di originalità eccezionale che con eleganza prendevano per i fondelli soloni e catto-insiemi vari: «apostoli dell’urofilia», «lanciatori di coriandoli», «discepoli dell’ortica amazzonica».

 

Tuttavia, non è con i contenuti filosofici della sua battaglia, né con le sue somme capacità artistiche, che voglio chiudere il mio ricordo.

 

Voglio scrivere di una cosa che mi aveva detto in una di quelle telefonate, rigorosamente sulla linea fissa, che si inoltravano fino alle ore piccole.

 

Quella notte, Piero mi fece il dono del racconto della sua conversione.

 

Chissà che storia mi aspettavo. Un filosofo, un teologo di quel livello, chissà tramite quale illuminazione ideale era pervenuto a Cristo. Quale momento di lucidità intellettuale soprannaturale. Quale potente pensiero metafisico, metastorico….

 

E invece, mi raccontò invece qualcosa di più profondo, di più struggente.

 

Negli anni Cinquanta, mentre era in auto, credo in Piemonte, in tour per il partito, fece un incidente spaventoso – mi disse che nella vita aveva ricevuto l’estrema unzione due volte, forse questa era la prima, penso.

 

Finì, fracassato, in ospedale. Era giovane, era forte tuttavia era spaventato da quello che gli era successo, e da quel luogo. La sua anima stava cercando di fare i conti con questa incomprensibile lezione dell’esistenza. Forse, aveva toccato i limiti del suo pensiero: quello che aveva studiato, quello che gli aveva trasmesso il movimento politico, quello che aveva vissuto sino a quel momento non gli aveva dato strumenti necessari per capire ciò gli era successo, e che gli poteva succedere in ogni momento – la vita, la morte… il loro significato.

 

Fu lì, a quel punto, che il giovane Piero fece un incontro che gli cambiò la vita. Entrato forse erroneamente, in una stanza dell’ospedale, trovò un signore steso sul letto. Si trattava di un uomo semplice, un signore che probabilmente stava già molto male. Aveva chiaramente tanta voglia di parlare, soprattutto con quel giovane che aveva lì davanti.

 

Il signore attaccò raccontando subito che era di Abano Terme, e la casa della sua famiglia era quella che vedi sulla collina arrivando da Est, come ad intendere che anche l’interlocutore doveva per forza avere cognizione di quella casa. Piero, genovese non esattamente habitué delle terre venete, annuiva, fingendo di sapere perfettamente di cosa stesse parlando.

 

L’uomo continuò: parlava della sua famiglia, dei suoi figli, dei suoi genitori, dei suoi parenti. Poi, come un fiume in piena, quell’uomo semplice cominciò a parlare di Dio. Del Signore Gesù Cristo. Con ogni evidenza, anche sul punto di morire, quell’uomo viveva una fede profonda. Era qualcosa di immenso, qualcosa davanti al quale non era possibile rimanere impassibili. Era un insegnamento sconvolgente, da una fonte inaspettata, da raccogliere immediatamente.

 

Quel signore, senza nessuna riflessione intellettuale, sapeva perfettamente cosa stava facendo, dove stava andando. Quel signore, nel momento più oscuro, aveva dentro qualcosa di invincibile: sentiva la continuazione di sé oltre la morte nella sua famiglia e nel piano di Dio. Sentiva la continuazione dell’essere al di là di sé. Era una realizzazione semplice e infinita. Era, in una parola, la fede.

 

Quell’uomo, dopo non molto, morì.

 

Fu a quel punto che Piero, mi raccontò, aveva trovato la fede. E non l’ha persa mai più. L’ha difesa con ogni fibra del suo essere, con la sua mente, la sua esistenza, la sua anima.

 

Sì, tu puoi usare le parole della Seconda lettera a Timoteo (4, 6-9): «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».

 

Addio Piero, amico mio.

 

Quanto ti sono grato, per quello che mi ha trasmesso, per quello che vedevi in me, per quello che hai dato al mondo, ora lo sai.

 

Ti voglio bene.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

I funerali di Piero Vassallo si terranno a Genova  domani, venerdì 1 luglio, alle 8.30 nella chiesa di Sant’Anna di via Magenta.

 

 

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