Morte cerebrale
Si risveglia dopo 30 minuti senza segni vitali. I medici parlano di «sindrome di Lazzaro». La vita è quindi una malattia?
Un uomo di 78 anni di origine libiche è stato colto da un grave malore nella sua abitazione, a Tarquinia. I sanitari del 118 sono tempestivamente accorsi ma l’uomo, dopo aver subito due arresti cardiaci e dopo oltre mezz’ora di tentativi di rianimazione, è stato dichiarato clinicamente morto. I sanitari intervenuti erano talmente sicuri della sua morte che è stata rimandata indietro l’eliambulanza che avrebbe dovuto trasportarlo nel nosocomio più vicino.
Poi, l’evento inaspettato: il «morto» ha riaperto gli occhi, si è sollevato e ha chiesto delle figlie. A questo punto, il malato è stato trasferito in ospedale e le sue condizioni sono tuttora considerate stabili.
«Un evento eccezionale che apre interrogativi sulla morte apparente e sulla necessità di maggiore cautela nei protocolli di rianimazione», commentano i gazzettieri, i quali però tacciono immancabilmente quando si tratta di denunciare le evidenti incongruenze insite nel falso criterio della morte cerebrale. I giornalisti preferiscono ora scrivere di «sindrome di Lazzaro», definizione che in queste ore circola ovunque e che apre a domande non da poco: se tornare in vita è una sindrome, allora la vita è un malanno?
E ancora, visto che tirano in ballo una figura evangelica: la resurrezione è una malattia da curare?
Al momento, vogliamo fare una domanda più semplice per chi, davanti a questo ulteriore caso eclatante, non si lascia affogare nella dissonanza cognitiva della morte cerebrale, dove, con evidenza i vivi sono ritenuti morti.
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Cos’è la morte? Tradizionalmente, l’accertamento della morte avveniva attraverso il riscontro della definitiva cessazione delle funzioni vitali: respirazione, circolazione e attività del sistema nervoso. Tuttavia, dal momento che essa può essere osservata solamente a posteriori, ossia dopo che già si è verificata, sempre la tradizione medica e giuridica occidentale imponeva l’obbligo di attendere il sopraggiungere dei segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo, per trattare il defunto come un cadavere.
I numerosi casi di morte apparente, ossia di persone che sono tornate in vita anche diverse ore dopo la cessazione delle funzioni vitali (fenomeno sempre esistito e niente affatto rarissimo come ci vogliono far credere), stanno a dimostrare che tra il momento della morte accertata e quella effettiva esiste sempre e comunque un periodo più o meno prolungato di vita latente.
La scienza si è sempre interrogata circa il fenomeno della morte apparente ma al di là delle ipotesi che possono essere formulate, essa rimane un mistero che sfugge ad ogni tentativo di razionalizzazione medico scientifica. La realtà è che l’uomo è fatto di anima e corpo e il suo principio vitale non è riconducibile alla funzionalità dei suoi organi, neppure del cervello. Punto.
Poste tali premesse ci si chiede, ancora una volta, come sia possibile considerare scientificamente e razionalmente fondato un criterio di morte che tratta come fossero dei cadaveri le persone che presentano tutti i segni inequivocabili della vita, ossia che sono in grado di respirare e a cui batte il cuore.
Se un uomo può tornare alla vita dopo minuti o addirittura ore di assenza totale dei parametri vitali, com’è possibile considerare certamente morto lo stesso uomo che invece tali parametri li ha addirittura in abbondanza?
Non c’è bisogno di essere medici o scienziati per capire che la morte cerebrale semplicemente non esiste e che rappresenta solo un ingegnoso escamotage per eliminare i malati e depredarli dei loro organi, alimentando il business di trapianti e farmaci, e ancora più importante, distruggendo la dignità dell’uomo ridotto a insieme di ingranaggi materiali sfruttabili a piacimento dalla Necrocultura e dai suoi mercati.
Alfredo De Matteo
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Immagine di Peter Paul Rubens, La resurrezione di Lazzaro (1625), Galleria Sabauda, Torino.
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; tagliata