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Obbligo vaccinale per i sanitari, i motivi del dissenso: analisi giuridico sanitarie.

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Renovatio 21 pubblica questo testo di AsSIS

 

L’articolo 4 del decreto-legge 44/2021 recante «Disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SAR-CoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario» costituisce un vero e proprio monstrum giuridico.

 

Le aporie e le contraddizioni che emergono già da una prima lettura del testo di legge non sono altro che l’esito inevitabile del tentativo di codificare una imposizione incompatibile con i principi portanti del diritto e, ancor prima, con la morale e con la ragione. 

L’articolo 4 del decreto-legge 44/2021 recante «Disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SAR-CoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario» costituisce un vero e proprio monstrum giuridico

 

Infatti la norma – oltretutto introdotta ricorrendo allo strumento della decretazione d’urgenza, che mal si attaglia alla portata e alla delicatezza dei temi investiti, tanto da sollevare fondati dubbi di costituzionalità anche sotto il profilo formale – sferra un attacco frontale non soltanto a fondamentali garanzie costituzionali (in primis, diritto alla salute, diritto all’autodeterminazione terapeutica, diritto al lavoro) e ai principi generali di libertà che informano l’ordinamento positivo ma, ancor prima, a quel nucleo essenziale di valori che precede le contingenti norme scritte e che integra, rispetto ad esse, un criterio autonomo e superiore di giudizio.

 

La norma stabilisce per il personale sanitario un obbligo indiretto – cioè assistito da sanzioni che incidono innanzitutto sul diritto al lavoro, fino a travolgerlo – di sottoporsi alla cosiddetta «vaccinazione» per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, ovvero di subire l’inoculazione di un farmaco tuttora in fase di sperimentazione. Cosa dichiarata apertis verbis dalle stesse case produttrici. 

 

 

Considerazioni sulla lettera del D.L. 44

La ratio della imposizione è, testualmente, quella di «tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». In relazione a questo fine espresso, la «vaccinazione» viene considerata «requisito essenziale» per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati.

Le aporie e le contraddizioni che emergono già da una prima lettura del testo di legge non sono altro che l’esito inevitabile del tentativo di codificare una imposizione incompatibile con i principi portanti del diritto e, ancor prima, con la morale e con la ragione. 

 

Risulta in tal modo introdotto un nuovo requisito di legge di tipo professionale e lavorativo. Esso sembrerebbe porsi da un lato sul piano del presupposto abilitativo (art. 2229 c.c., ovviamente per le sole professioni regolamentate, e fatta comunque salva la possibilità giuridica di esercitare senza contatti interpersonali); dall’altro sul piano della liceità della prestazione lavorativa (art. 1346 c.c., valevole per tutte le attività, indipendentemente dalla condizione abilitativa).

 

Da ciò derivano due importanti conseguenze.

 

La prima attiene al fatto che il decreto legge non ha inteso attribuire alle misure conseguenti al mancato assolvimento dell’obbligo natura tecnicamente sanzionatoria o disciplinare. Conclusione, questa, avvalorata dalla ratio sopra menzionata, di per sé incompatibile con l’assunzione di finalità di natura repressiva o afflittiva.

 

La seconda conseguenza attiene, invece, all’individuazione dei criteri costitutivi dell’obbligo, che – in considerazione anche della necessità di interpretare restrittivamente, e in modo costituzionalmente orientato, una disposizione dagli effetti tanto gravi per la sfera giuridica dei suoi destinatari – sussiste non solo in virtù della mera appartenenza soggettiva a determinate categorie lavorative, ma anche in forza della effettiva connessione delle prestazioni considerate a un concreto rischio di contagio da SARS-CoV-2.

 

Una applicazione della norma basata sul possesso dei meri requisiti soggettivi e professionali, sganciati da qualsivoglia elemento circostanziale e oggettivo riferibile al fine perseguito dalla norma, non sarebbe infatti esente da profili di illegittimità, anche costituzionale, e manifesterebbe una portata palesemente discriminatoria

Una applicazione della norma basata sul possesso dei meri requisiti soggettivi e professionali, sganciati da qualsivoglia elemento circostanziale e oggettivo riferibile al fine perseguito dalla norma, non sarebbe infatti esente da profili di illegittimità, anche costituzionale, e manifesterebbe una portata palesemente discriminatoria: è evidente come il tipo di mansioni concretamente svolte da molti sanitari, per le specifiche modalità in cui queste vengono rese, non differiscano affatto, dal punto di vista del pericolo di contagio, a quelle di altre categorie professionali non soggette all’obbligo.

 

Scendendo sul piano pratico, le autorità competenti dovranno quindi individuare, nell’esercizio corretto della discrezionalità a loro riconosciuta dall’art. 4, i soggetti effettivamente interessati dall’obbligo di sottoporsi a vaccinazione, sulla scorta di una concreta valutazione che distingua le mansioni a rischio generico da quelle a rischio specifico (o, quantomeno, a rischio generico aggravato).

 

Da questo punto di vista, stupisce che il d.l. 44/2021 non abbia fatto il minimo cenno ai prìncipi e ai criteri mutuati dalla medicina del lavoro e dalle scienze e tecniche di valutazione e gestione del rischio, con le quali ormai da anni le aziende pubbliche e private hanno preso dimestichezza dovendo procedere all’elaborazione del DVR (Documento Valutazione Rischi) previsto dal D. Lgs. 81/2008 (Testo Unico Salute e Sicurezza sul lavoro).

 

Per la concreta individuazione della tipologia e limiti del «rischio specifico» pare soccorrere la lettura dello stesso Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 del Ministero della Salute (d’ora in poi «Piano strategico» per brevità), espressamente richiamato al comma 1 dell’art. 4.

 

Da questo punto di vista, stupisce che il d.l. 44/2021 non abbia fatto il minimo cenno ai prìncipi e ai criteri mutuati dalla medicina del lavoro e dalle scienze e tecniche di valutazione e gestione del rischio, con le quali ormai da anni le aziende pubbliche e private hanno preso dimestichezza

Tale Piano è incentrato sulla definizione dei «gruppi target» (pag. 5), nell’ambito dei quali rientrano non tutti gli Operatori sanitari e sociosanitari, ma solamente quelli definiti «in prima linea». Quest’ultima è una nozione mutuata dal Framework di valori SAGE dell’OMS, il quale specifica che i lavoratori sanitari vanno differenziati in ragione dell’effettivo grado di rischio che le loro concrete attività comportano.

 

A sua volta il Framework rinvia (pag. 10), per l’individuazione dei lavoratori a rischio «alto» o «molto alto» (ovvero i lavoratori «in prima linea» del Piano ministeriale), alle relative definizioni contenute nell’Interim guidance di OIL e OMS.

 

L’Interim guidance, dal canto suo, risulta piuttosto specifica nel circoscrivere il «rischio COVID», dato che i lavoratori sanitari a rischio «alto» vengono indicati come quelli adibiti a «jobs or tasks with high potential for close contact with people who are known to be or suspected of being infected with SARS-CoV-2 or contact with objects and surfaces possibly contaminated with the virus» (pag. 3).

 

I lavoratori a rischio «molto alto» sono invece definiti in rapporto a «jobs and tasks with risk of exposure to aerosols containing SARS-CoV-2, in settings where aerosol-generating procedures are regularly performed on patients with COVID-19 or working with infected people in indoor, crowded places without adequate ventilation».

 

Prendendo a riferimento tali parametri, dunque, il rischio dei sanitari «in prima linea» risulterebbe sostanzialmente circoscritto a un ambito piuttosto ristretto, essenzialmente coincidente con quello dei lavoratori operativamente impiegati nei c.d. «Reparti COVID».

 

Prendendo a riferimento tali parametri, dunque, il rischio dei sanitari «in prima linea» risulterebbe sostanzialmente circoscritto a un ambito piuttosto ristretto, essenzialmente coincidente con quello dei lavoratori operativamente impiegati nei c.d. «Reparti COVID»

Vi è inoltre da aggiungere che, fin dall’inizio della dichiarazione di epidemia, i datori di lavoro sono stati chiamati all’aggiornamento del DVR, in ragione del suo adeguamento alle misure di prevenzione da contagio SARS-CoV-2. Ad oggi, pertanto, bisogna necessariamente distinguere tra quelle realtà lavorative che, pur svolgendo attività lato sensu sanitarie, non contemplano nel loro DVR uno specifico rischio da agente biologico «COVID», e quelle che invece lo prevedono.

 

In ordine alle prime si rileva come l’Ispettorato Nazionale del Lavoro le consideri, per quanto riguarda il COVID-19, come ambienti a mero rischio generico, per i quali cioè «il rischio non è riconducibile al titolo X del Dlgs 81/2008, non attendendo ordinariamente al ciclo produttivo aziendale»(Circolare INL n. 149 del 20.04.2020, allegato “Procedure COVID-19_Istruzioni l’esecuzione dell’ispezione”).

 

Per quanto riguarda le seconde, il cui DVR riporta una valutazione specifica da «rischio da agente biologico» da COVID, resteranno comunque da vagliare le misure di prevenzione, le procedure di sicurezza e i D.P.I. in concreto adottati per l’abbattimento del rischio specifico. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che in tali ambienti di lavoro si è investito in sicurezza proprio al fine di ricondurre il rischio, sulla base delle evidenze scientifiche mediche e di risk management sanitario, a livelli residuali, vale a dire a quello generico corrispondente al resto della popolazione.

 

D’altro canto, per citare nuovamente il Report PACE, vi è chi sostiene la capacità dei Paesi sviluppati di procurare anche ai lavoratori sanitari dispositivi di protezione sufficientemente efficaci da rendere strettamente non necessaria la vaccinazione.

 

In conclusione, alla luce di tali considerazioni, una possibile prospettiva di tutela pratica è quella offerta al momento della instaurazione del necessario contraddittorio procedimentale previsto dal comma 5 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021.

 

La ASL territorialmente competente, in qualità di responsabile della prevenzione e NON come datore di lavoro dei sanitari alle sue dipendenze, nel momento in cui riceve la segnalazione deve invitare l’interessato a produrre, entro cinque giorni, la documentazione comprovante l’avvenuta vaccinazione (o il certificato di differimento/esonero) o, in alternativa, l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1.

 

La persona che, per uno o più dei motivi sopra delineati, ritenesse di trovarsi in una posizione non assoggettabile all’obbligo, avrà la possibilità di presentare per via cartolare le proprie osservazioni all’ASL, se del caso producendo anche idonea documentazione comprovante l’assenza di rischio specifico nella propria azienda/attività lavorativa, oppure il suo ridimensionamento a livello di rischio generico per effetto delle procedure di prevenzione e sicurezza e dei DPI adottati

Pertanto, la persona che, per uno o più dei motivi sopra delineati, ritenesse di trovarsi in una posizione non assoggettabile all’obbligo, avrà la possibilità di presentare per via cartolare le proprie osservazioni all’ASL, se del caso producendo anche idonea documentazione comprovante l’assenza di rischio specifico nella propria azienda/attività lavorativa, oppure il suo ridimensionamento a livello di rischio generico per effetto delle procedure di prevenzione e sicurezza e dei DPI adottati.

 

Ove la produzione di tale documentazione non sortisse alcun risultato positivo e venisse adottato il provvedimento di sospensione previsto dall’art. 4, cit., non si deve escludere l’eventualità di esperire l’effettiva tutela giurisdizionale.

 

Analoghi rilievi potranno essere sollevati innanzi al datore di lavoro qualora, in conseguenza dell’atto accertativo dell’inadempimento vaccinale notificatogli dall’ASL, esercitasse lo ius variandi con esiti ritenuti dal lavoratore lesivi o, addirittura, prospettasse la sospensione senza retribuzione dall’attività lavorativa.

 

Il D.L. 44 delinea un’articolata procedura (apparentemente diretta a salvaguardare la riservatezza degli interessati) che attribuisce alla ASL il principale ruolo provvedimentale.

 

L’atto di accertamento dell’inadempimento sembra così assumere i caratteri di un vero e proprio provvedimento amministrativo, al quale consegue quale effetto ex lege «…la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2».

 

La sospensione dall’esercizio della professione trova titolo, per esplicita previsione di legge, nell’adozione in sé e per sé dell’atto dell’ASL, sebbene la sua efficacia sia differita al momento in cui il medesimo atto sia stato comunicato all’interessato dall’ASL stessa, sia perché deve riferirsi a tale misura il valore di provvedimento ricettizio, sia perché si deve dare applicazione dei principi generali stabiliti dall’art. 21bis, legge 7 agosto 1990, n. 241.

 

La sospensione in sé, proprio perché proviene dall’ASL (cioè da un’Autorità che non è chiamata ad esercitare funzioni di vigilanza sugli iscritti ad un Ordine), non ha natura di provvedimento disciplinare, ancorché essa sia poi comunicata anche dall’Ordine

È, in ogni caso, il provvedimento dell’ASL quello contro il quale, se emanato, si dovrebbe predisporre una tutela giurisdizionale, ove ritenuto che sussista la necessità di tutelarsi.

 

Di contro, l’ulteriore comunicazione della medesima sospensione che l’eventuale Ordine professionale di appartenenza è pure chiamato a svolgere nei confronti dell’iscritto, in base al comma 7 del citato art. 4, risulta priva di effetti costitutivi, quanto ai fini della sospensione dall’attività professionale, che già opera in virtù dell’atto assunto dall’ASL. 

 

Lo scopo di tale ulteriore comunicazione ad opera degli Ordini si riduce, invero, a qualificare la fattispecie anche ai fini dell’appartenenza al relativo ceto professionale e, pertanto, a sussumere in termini deontologicamente, e forse anche penalmente, rilevanti l’eventuale successiva violazione, da parte dell’interessato, dell’obbligo di sospendere la propria attività professionale.

 

D’altro canto e come già si anticipato, la sospensione in sé, proprio perché proviene dall’ASL (cioè da un’Autorità che non è chiamata ad esercitare funzioni di vigilanza sugli iscritti ad un Ordine), non ha natura di provvedimento disciplinare, ancorché essa sia poi comunicata anche dall’Ordine. 

 

In tal senso depongono anche il fatto che la norma definisce la vaccinazione quale «requisito essenziale» per l’esercizio della professione e non quale condotta per l’esercizio deontologicamente corretto della stessa, nonché il fatto che l’effetto sospensivo sia destinato a scadere il 31 dicembre 2021 (comma 9), in previsione della possibile attenuazione dell’emergenza epidemica in atto. 

 

All’atto pratico, tutti questi rilievi si traducono nell’inapplicabilità alla sospensione (anche quando fosse comunicata dall’Ordine) delle regole proprie del procedimento disciplinare e questo rilievo produce ben precisi riflessi sia sulla individuazione del giudice giurisdizionalmente competente a effettuare il sindacato, sia sui termini entro i quali promuovere la relativa azione.

All’atto pratico, tutti questi rilievi si traducono nell’inapplicabilità alla sospensione (anche quando fosse comunicata dall’Ordine) delle regole proprie del procedimento disciplinare e questo rilievo produce ben precisi riflessi sia sulla individuazione del giudice giurisdizionalmente competente a effettuare il sindacato, sia sui termini entro i quali promuovere la relativa azione.

 

 

Il D.L. 44 nella cornice delle fonti sopraordinate

Ma l’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 D.L. 44/2021 si espone a censure innanzitutto se confrontato con la Costituzione, con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (ex Carta di Nizza).

 

Quest’ultima non prevede espresse deroghe al principio di libertà di decisione della persona. Il suo art. 3 infatti, nel tutelare il diritto all’integrità della persona, presuppone – quale requisito tassativamente condizionante, senza eccezioni di sorta, la legittimità dell’attività medica – il rispetto del consenso «libero e informato» dell’interessato.

 

A tale riguardo è bene rilevare che, in tanto il consenso dell’interessato ad un determinato trattamento medico-sanitario può ritenersi «libero», in quanto il processo decisionale e la volontà dello stesso soggetto non siano in alcun modo condizionati o, peggio ancora, coartati da fattori esterni, più o meno indiretti, anche solo psicologici (quale il timore di subire sanzioni, o di vedere limitato o sospeso, in ipotesi di mancata volontaria adesione al trattamento, il diritto di esercitare il proprio lavoro).

 

Va ancora rimarcato che la norma sopra citata non contempla alcuna eccezione al diritto di libertà in essa statuito, a differenza di altri diritti fondamentali in essa contemplati, quali il diritto alla riservatezza (art. 8) e quello di proprietà (art. 17), i quali già in linea di principio prevedono la possibilità di eccezionali limitazioni per disposizione di legge.

 

L’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 D.L. 44/2021 si espone a censure innanzitutto se confrontato con la Costituzione, con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (ex Carta di Nizza)

Quanto alla Costituzione italiana e alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, se anch’esse sanciscono in via generale il principio fondamentale dell’incoercibilità dei trattamenti sanitari, ammettono tuttavia la possibilità, in via del tutto eccezionale, che il legislatore introduca delle deroghe.

 

In sede applicativa, tuttavia, le Corti a cui è affidata l’interpretazione di questi testi normativi (Corte Costituzionale e CEDU) hanno avuto modo di precisare i limiti di tale eventuale intervento del legislatore.

 

Per quanto riguarda – sia pure indirettamente – la CEDU, il Report di proposta di delibera della Commissione Affari Sociali, Salute e Sviluppo Sostenibile dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa del 11.01.2021, relatrice proponente J. De Temmerman (d’ora innanzi per brevità Report PACE), in sede di memoria esplicativa, oltre a prendere apertamente e chiaramente posizione a favore della vaccinazione anti-Covid, si è altresì pronunciato contro la sua obbligatorietà, ricordando che i presupposti per la sua introduzione devono rispondere ai criteri stabiliti dalla CEDU, e in particolare a quelli di necessità e di proporzionalità.

 

Il criterio di necessità, in primo luogo, impone che l’obbligo sia considerato come extrema e ultima ratio, attuabile solo quando l’obiettivo prefissato non sia perseguibile in nessun altro modo.

 

Quello di proporzionalità, d’altro canto, richiede la stretta adeguatezza dei mezzi impiegati al fine voluto, sì che l’obbligo di vaccinazione non potrebbe essere stabilito oltre ciò che è necessariamente strumentale all’obiettivo precostituito.

 

Posto tale imprescindibile quadro di prìncipi e criteri, è sostenibile che, nell’attuale situazione epidemiologica, sanitaria e sociale, nonché in rapporto ai prodotti vaccinali disponibili, possano ricorrere oggettivi elementi tali da suggerire che non siano stati soddisfatti né i requisiti di necessità e proporzionalità indicati dal sistema sovranazionale incaricato di dare applicazione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, né quelli concorrenti definiti dal giudice costituzionale italiano

Dal canto suo la Corte Costituzionale, nel corso degli anni, si è più volte pronunciata su presupposti, condizioni e limiti di legittimità dell’obbligo vaccinale, giungendo così a enucleare un complesso di principi giurisprudenziali così sintetizzabili:

 

  1. deve sussistere un sufficiente grado di certezza (ragionevolezza scientifica) che la vaccinazione sia efficace nel proteggere il ricevente;
  2. il trattamento deve dimostrarsi efficace al fine di tutelare la salute dei terzi, vale a dire al fine di impedire il contagio (c.d. immunità sterilizzante);
  3. allo stesso tempo, il trattamento non deve implicare alcun rischio di danno grave alla salute di chi vi è assoggettato, risultando accettabili in tal senso postumi solamente lievi e di breve durata;
  4. infine, debbono essere previsti sistemi di equo indennizzo per i casi del tutto residuali di lesioni apprezzabili.

 

Posto tale imprescindibile quadro di prìncipi e criteri, è sostenibile che, nell’attuale situazione epidemiologica, sanitaria e sociale, nonché in rapporto ai prodotti vaccinali disponibili, possano ricorrere oggettivi elementi tali da suggerire che non siano stati soddisfatti né i requisiti di necessità e proporzionalità indicati dal sistema sovranazionale incaricato di dare applicazione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, né quelli concorrenti definiti dal giudice costituzionale italiano.

 

In merito, invece, ai prodotti vaccinali attualmente in uso e di cui il D.L. 44 intende imporre la somministrazione, è necessario ricordare quanto segue.

 

  • I nuovi preparati, come si evince da relative schede tecniche e indicazioni AIFA ed EMA, non sono tecnicamente comparabili ai «tradizionali» vaccini a base microorganica/antigenica, essendo sostanzialmente progettati su meccanismi di stimolazione genetica per effetto di introduzione di m-RNA o DNA nell’organismo ricevente.

 

  • Anche per questo (ma non solo) si tratta di prodotti sottoposti a monitoraggio addizionale e sono soggetti ad una autorizzazione condizionata rispetto alla quale sono stati fissati un primo termine per la verifica di medio periodo al 30.06.2021 e uno di lungo periodo al 27.01.2023.

 

  • Per la loro approvazione e autorizzazione all’immissione in commercio (come detto, condizionata), sono state adottate derogatorie procedure speciali estremamente rapide, se confrontate con gli standard ordinari per tutti gli altri vaccini, i quali normalmente prevedono invece una durata di 10-15 anni (Report PACE).

I nuovi preparati, come si evince da relative schede tecniche e indicazioni AIFA ed EMA, non sono tecnicamente comparabili ai «tradizionali» vaccini a base microorganica/antigenica, essendo sostanzialmente progettati su meccanismi di stimolazione genetica per effetto di introduzione di m-RNA o DNA nell’organismo ricevente

 

  • Date queste premesse, non può darsi per acquisita una conclusione definitiva né sull’efficacia, sia in termini di protezione personale che di impedimento del contagio, né sulla sicurezza dei suddetti farmaci. Essi, quindi, non superano i parametri di legittimità sopra richiamati, e applicati dalla Corte costituzionale e dalle Corti sovranazionali.

 

  • In merito all’efficacia dei vaccini a produrre la c.d. immunità sterilizzante, questione fondamentale per giustificare l’obbligo, alcuni dati autorizzano a porre essa stessa in discussione. Gli stessi produttori dei vaccini, attraverso le schede tecniche di questi, dichiarano espressamente che non è stato ancora accertato se la vaccinazione interrompa la trasmissione del contagio; avvertenza poi ripresa e pubblicata sia da EMA che da AIFA nelle proprie note informative (che infatti concludono avvisando che «i vaccinati e le persone che sono in contatto con loro devono continuare ad adottare le misure di protezione anti COVID-19»).

 

  • A corollario di quanto sin qui descritto, meritano di essere citate due autorevoli prese di posizione da parte dell’OMS che, dirette a esprimere contrarietà all’adozione del c.d. passaporto vaccinale, esprimono oggettivi dubbi circa l’obbligo della pratica vaccinale.

 

La prima di esse, del 15.03.2021 e per bocca di Katherine O’Brien, direttrice del dipartimento di immunizzazione, indica che «non ci sono le condizioni attualmente per proporlo, ancora troppo poche informazioni».

 

La seconda dichiarazione, del 06.04.2021 proviene dalla portavoce dell’OMS, Margaret Harris, la quale ha ribadito la situazione di incertezza sul fatto che i vaccini producano l’immunità sterilizzante.

Date queste premesse, non può darsi per acquisita una conclusione definitiva né sull’efficacia, sia in termini di protezione personale che di impedimento del contagio, né sulla sicurezza dei suddetti farmaci. Essi, quindi, non superano i parametri di legittimità sopra richiamati, e applicati dalla Corte costituzionale e dalle Corti sovranazionali.

 

 

La Costituzione Italiana in materia di salute

La Costituzione, legge sopraordinata nella gerarchia delle fonti, dedica alla salute l’art. 32. Vale la pena ricordare come esso contenga una disposizione di chiusura particolarmente pregnante: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Vale la pena citare al riguardo le parole di Stefano Rodotà (Il diritto di avere diritti, Laterza, 2015):

 

«Viene così posto un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’art. 13 Cost. per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’art. 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. In filigrana, dietro questa espressione “persona umana”, c’è la dignità; quando è stato scritto questo articolo, che non è stato scritto da sovversivi, perché i promotori erano Aldo Moro e un socialdemocratico che si chiamava Paolo Rossi, si stava svolgendo il processo di Norimberga per i crimini dei medici nazisti. Neanche la legge può imporre limiti che violino il rispetto della persona umana. Prima s’era scritto della dignità, ma la dignità è sembrata in quel momento una parzialità: la dignità è una qualità della persona insieme ad altre – la libertà, l’eguaglianza: si è voluta dare un’indicazione più forte, richiamando nella sua totalità la persona umana da rispettare». «L’autolimitazione del sovrano, dunque, è sempre accompagnata da una riserva, dal potere di rimettere la mano su quel diritto. Proprio questo modello è abbandonato dalla Costituzione Italiana che, nata in una temperie storica e culturale per questi temi simile a quella tedesca, imbocca una strada completamente diversa, con piena consapevolezza, testimoniata dallo scandalo manifestato da taluni costituenti per questo abbandono ritenuto incompatibile con la natura stessa del parlamento. Non siamo infatti di fronte alla tradizionale autolimitazione del potere. Si opera un vero e proprio trasferimento di potere, anzi di sovranità. Sovrana nel decidere della propria salute, e dunque della propria vita come ci dicono le sempre più comprensive definizioni di salute, diviene la persona».

«La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» art. 32 della Costituzione Italiana

 

«Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente dichiarate illegittime. E, al tempo stesso, la definizione dello spazio proprio delle acquisizioni scientifiche e dell’autonomia del medico viene affidata al consenso della persona, ribadendosi il ruolo ineliminabile della volontà individuale. La distribuzione dei poteri giuridici e sociali è definita, con la chiara identificazione del prevalere del potere della persona sul potere politico e su quello medico». 

 

Lo stesso autore, in altra occasione, ribadisce il senso del disposto costituzionale:

 

«Nessuna Costituzione ha una formula così forte come quella dell’articolo 32 Cost.: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. C’è qualcosa davanti alla quale lo stesso Parlamento, la stessa sovranità popolare si deve arrestare, c’è qualcosa di indecidibile dalla politica. Questo è il punto essenziale. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Qui l’autodeterminazione trova il suo saldissimo fondamento, e l’inviolabilità della dignità della persona si concretizza nell’inviolabilità del corpo». Stefano Rodotà, La dignità della persona, Scuola di cultura costituzionale, Aula Magna del Bo, Padova, 14/01/2011.

«Neanche la legge può imporre limiti che violino il rispetto della persona umana (…) Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Qui l’autodeterminazione trova il suo saldissimo fondamento, e l’inviolabilità della dignità della persona si concretizza nell’inviolabilità del corpo». Stefano Rodotà

 

 

Tra legge positiva e legge naturale. L’obiezione di coscienza

L’ampio margine di incertezza sull’efficacia, e soprattutto sul rischio, connessi alla somministrazione di questi «vaccini», dipende anche dal carattere innovativo delle tecnologie messe in campo per la loro produzione. Tema cui è collegato quello degli ingredienti utilizzati in fase di sperimentazione e/o produzione dei medesimi, che spalanca questioni di imponente rilievo etico-morale, in particolare a causa dell’impiego di linee cellulari sia di origine animale sia ricavate da aborti.  

 

Alla luce di tutti i rilievi sopra esposti e in particolare considerando il carattere sperimentale dei cosiddetti «vaccini» anti SARS-Cov-2 in relazione al principio-guida di precauzione, appare evidente come l’obbligo vaccinale introdotto tramite decretazione d’urgenza non possa che scontrarsi – oltre che con le fonti sopraordinate e coi principi fondamentali dell’ordinamento – con irrinunciabili motivi di coscienza, tali da non ammettere di essere elusi o misconosciuti dall’istituzione e tali da essere in grado di fondare, per la loro rilevanza oggettiva, un interesse giuridicamente tutelato in capo a chiunque intenda farsene portatore al fine di evitare di sottoporsi alla somministrazione del farmaco o (eventualmente) di inocularlo a terzi.

 

Il rifiuto di obbedire a un precetto dalle implicazioni tanto gravi ripropone infatti il tema fondamentale del conflitto tra la norma positiva e la fedeltà a convinzioni profonde che neghino, di quella, il fondamento di valore; conflitto che riflette l’antico problema del rapporto tra norme scritte e norme non scritte, cioè del nesso sempre pericolante tra legge e giustizia, tra nomos e dike.

L’istituto della obiezione di coscienza si delinea quale figura di contraddizione intrinseca al diritto, ma ugualmente da esso codificata a difesa di principi superiori considerati come insopprimibili

 

È il riconoscimento di questa possibile dicotomia, insieme all’esigenza di una sua composizione in seno al sistema, ad aver dato origine, negli ordinamenti moderni, all’istituto della obiezione di coscienza. Esso si delinea quale figura di contraddizione intrinseca al diritto, ma ugualmente da esso codificata a difesa di principi superiori considerati come insopprimibili.

 

In altri termini, con la valorizzazione della personalità e quindi della libertà dell’individuo, il conflitto tra nomos e dike, ovvero tra diritto positivo (quello che trova in se stesso e nella autorità costituita il proprio fondamento) e legge naturale (criterio guida superiore dei comportamenti umani) si risolve nella tensione tra nuclei di interessi contrapposti: da una parte l’interesse contingente tutelato dalla norma generale; dall’altro l’interesse valorizzato volta per volta dalla coscienza individuale – in quanto legato a un’intima esigenza di contenuto morale – capace di assumere rilevanza proprio in quanto ancorato a dei parametri oggettivi assoluti. Al riparo dunque dall’arbitrio, dall’ideologia, dalla convenienza o da ogni asfittico interesse individualistico. 

 

Un fenomeno per certi versi analogo a quello che, nel diritto penale, si verifica con il sistema delle cause di giustificazione del reato, tipicamente la legittima difesa e lo stato di necessità. Dove, nel bilanciamento degli interessi in gioco, ben si coglie come, a contrastare la norma incriminatrice, debba porsi un valore riconoscibile come oggettivo, capace di prevalere, per forza propria, su quello tutelato dalla fattispecie penale. 

 

Il legislatore italiano ha previsto espressamente varie ipotesi di obiezione di coscienza, in ambiti tra loro molto diversi.

 

  • La prima ipotesi, introdotta dalla legge 772/1972 (poi abrogata nel 1998 in seguito alla abolizione della leva obbligatoria), riguardava il servizio civile in sostituzione di quello militare. I motivi di coscienza dovevano essere attinenti «ad una concezione generale basata su profondi convincimenti religiosi, o filosofici, o morali professati dal soggetto».

 

  • Nel 1978, con la legge 194, «Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza» viene riconosciuto il diritto degli operatori sanitari di astenersi dalla effettuazione degli interventi abortivi.  

 

«I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà̀ fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi, possono dichiarare la propria obiezione di coscienza ad ogni atto connesso con la sperimentazione animale». Legge 413 del 1993

  • Pressoché sovrapponibile a quella appena riferita, l’ipotesi di obiezione contenuta nella legge 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita. Anche in questo caso il personale sanitario obiettore «non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di fecondazione artificiale».

 

  • Nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso si collocano poi le Intese (successivamente trasfuse in legge) tra lo Stato Italiano e alcune confessioni religiose, come le Comunità Israelitiche Italiane, dove viene espressamente trattato il tema della libertà di coscienza riconoscendosi, per esempio, il diritto degli ebrei a osservare il riposo sabbatico.

 

  • Ma la fattispecie più rilevante ai fini dell’argomento in questione è quella introdotta dalla legge 413 del 1993 recante «Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale» il cui primo articolo, intitolato «Diritto all’obiezione di coscienza», enuncia solennemente: «I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà̀ fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi, possono dichiarare la propria obiezione di coscienza ad ogni atto connesso con la sperimentazione animale». 

 

Significativo l’ultimo comma dell’art. 3, che suona: «Tutte le strutture pubbliche e private legittimate a svolgere sperimentazione animale hanno l’obbligo di rendere noto a tutti i lavoratori e gli studenti il loro diritto ad esercitare l’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale. Le strutture stesse hanno inoltre l’obbligo di predisporre un modulo per la dichiarazione di obiezione di coscienza alla sperimentazione animale a norma della presente legge».

 

Per concludere con l’art. 4, intitolato «Divieto di discriminazione», che merita di essere riportato integralmente: «1. Nessuno può̀ subire conseguenze sfavorevoli per essersi rifiutato di praticare o di cooperare all’esecuzione della sperimentazione animale. 2. I soggetti che ai sensi dell’art. 1 dichiarino la propria obiezione di coscienza alla sperimentazione animale hanno diritto, qualora siano lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ad essere destinati, nell’ambito delle dotazioni organiche esistenti, ad attività diverse da quelle che prevedono la sperimentazione animale, conservando medesima qualifica e medesimo trattamento economico. 3. Nelle università gli organi competenti devono rendere facoltativa la frequenza alle esercitazioni di laboratorio in cui è prevista la sperimentazione animale. All’interno dei corsi sono attivate, entro l’inizio dell’anno accademico successivo alla data di entrata in vigore della presente legge, modalità di insegnamento che non prevedano attività o interventi di sperimentazione animale per il superamento dell’esame. Le segreterie di facoltà assicurano la massima pubblicità del diritto all’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale». 

 

«Tutte le strutture pubbliche e private legittimate a svolgere sperimentazione animale hanno l’obbligo di rendere noto a tutti i lavoratori e gli studenti il loro diritto ad esercitare l’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale. Le strutture stesse hanno inoltre l’obbligo di predisporre un modulo per la dichiarazione di obiezione di coscienza alla sperimentazione animale a norma della presente legge» legge 413/1993 comma 3

Quest’ultimo tema della discriminazione degli obiettori di coscienza, espressamente disciplinato dalla citata legge 413/1993, era già emerso con la legge 772/1972 di cui sopra, che in origine effettivamente discriminava quanti rifiutassero la leva obbligatoria, stabilendo che essi dovessero prestare servizio «per un tempo superiore di otto mesi alla durata del servizio di leva cui sarebbero stati tenuti».

 

La norma fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 470 del 1989, perché «la differente durata del servizio sostitutivo rivestirebbe chiaramente quel significato di sanzione nei confronti degli obiettori che già si è stigmatizzato, ledendo, altresì, i fondamentali diritti tutelati dal primo comma dell’art. 3 e dal primo comma dell’art. 21 della Costituzione, in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero».

 

In tale quadro, del tutto irragionevoli per carenza dei presupposti di fatto, quanto inique in una prospettiva sistematica, appaiono le misure a carattere sanzionatorio previste dal D.L. 44 e volte a coartare la volontà dei destinatari della norma: esse infatti sono foriere di una evidente disparità di trattamento, e quindi una ingiusta discriminazione, tra quanti ottengano una certificazione di esenzione per accertato pericolo per la salute (ex art. 4 co. 2); e quanti, per qualsiasi motivo e anche a parità di condizioni, ne permangano sprovvisti. I primi, infatti, potranno continuare a svolgere il proprio lavoro, eventualmente adibiti a mansioni diverse e previa eventuale integrazione dei presidi di sicurezza personali, in ogni caso senza decurtazione della retribuzione (art. 4 co. 10 e 11); mentre i secondi saranno costretti a subire il demansionamento o la sospensione e quindi, rispettivamente, la decurtazione o il venir meno della retribuzione (art 4 co. 6 e 8).

 

Ridurre un qualunque essere umano ad oggetto di sperimentazione, travalicando la sua volontà libera, attuale e informata, significa reificarlo e segnare in tal modo un salto di qualità incommensurabile anche a fronte dell’uso delle cavie animali; tale da profanare quella bandiera della dignità umana che sventola da decenni in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti

A margine del quadro legislativo riguardante l’obiezione di coscienza, pare rilevante menzionare la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che, con sentenza numero 29469 del 4/12/2020, ha accolto il ricorso di una paziente testimone di Geova trasfusa contro la sua volontà. La Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: «Il testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita». Con ciò, la Cassazione ha riconosciuto le ragioni della parte attrice secondo cui «il rifiuto delle emotrasfusioni espresso da un testimone di Geova non costituisce una mera autodeterminazione sanitaria, ma una vera e propria forma di obiezione di coscienza, radicata in ragioni religiose»; sì che «non si tratta solo di rispettare il corpo nella sua fisicità, ma la persona umana nella sua interezza, ossia nei suoi valori morali, etici, religiosi»: l’osmosi dei due principi costituzionali – quello di autodeterminazione circa il trattamento sanitario e quello alla libera professione della propria fede religiosa – non incontrerebbe quindi alcuna necessità di bilanciamento con principi di segno contrario (inclusa la tutela della salute e della stessa vita).

 

Per tutto quanto sopra esposto, la posizione propria dei sanitari di fronte alla recente imposizione in via di urgenza dell’obbligo di sottoporsi a un trattamento sanitario si inscrive nel quadro di una obiezione di coscienza legittima, perché del tutto coerente con i principi incardinati nell’ordinamento e ormai pienamente consolidati. Essa non potrà non essere riconosciuta anche dal diritto positivo, o attraverso un urgente intervento del Parlamento in sede di conversione in legge, o di caducazione in toto del decreto. 

 

Le ragioni, di ordine morale o filosofico, che legittima il diritto di sottrarsi al comando normativo appaiono invero inconfutabili. Se infatti l’obiezione prevista per la sperimentazione sugli animali fa leva sulla esigenza morale di non contribuire a ridurre questi a meri strumenti materiali, a maggior ragione tale esigenza vale per l’uomo, chiamato a mantenere in ogni caso la propria dignità di essere superiore moralmente razionale: la protesta degli operatori sanitari poggia quindi su ragioni inoppugnabili di difesa della dignità umana propria, e di chiunque sia indotto ad assumere un ruolo di cavia inconsapevole in ciò che si configura come un vero e proprio procedimento di sperimentazione di massa. Ridurre un qualunque essere umano ad oggetto di sperimentazione, travalicando la sua volontà libera, attuale e informata, significa reificarlo e segnare in tal modo un salto di qualità incommensurabile anche a fronte dell’uso delle cavie animali; tale da profanare quella bandiera della dignità umana che sventola da decenni in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti. L’opposizione dei sanitari acquista così un valore che trascende la categoria, perché riguarda tutti e impone a tutti di ricordare cosa abbia potuto significare la sperimentazione sull’uomo nel tempo in cui era praticata, con il consenso politico, da un certo dottor Mengele di cui ultimamente si sente parlare sempre meno. 

L’opposizione dei sanitari acquista così un valore che trascende la categoria, perché riguarda tutti e impone a tutti di ricordare cosa abbia potuto significare la sperimentazione sull’uomo nel tempo in cui era praticata, con il consenso politico, da un certo dottor Mengele di cui ultimamente si sente parlare sempre meno.

 

Del resto, è evidente come le prospettive aperte oggi dalla ricerca scientifica e l’avanzamento tecnologico incontrollato non possano che generare, sempre più, nuove occasioni di conflitto tra le normative di riferimento e incomprimibili esigenze morali. Sì che, di fronte a inedite realtà giuridicamente rilevanti, si profilano e devono di necessità trovare riconoscimento anche nuove istanze oppositive coerenti con i principi fondamentalissimi radicati nella natura umana e, per questo, meritevoli continuativamente di presidiare il diritto. 

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

 

 

 

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