Pensiero

La Tragedia di Lisa. E il dolore infinito dei suoi genitori

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Il 22 marzo è stato presentato a Ca’ Sagredo, Venezia, il libro Le tre vite di Lisa. Liberata dall’inferno in Ucraina, inghiottita nelle fauci dell’eccellenza sanitaria italiana, scritto da Margherita Eichberg e Maurizio Federico, i genitori di Elisabetta (Lisa) Federico, una ragazza adottata in Ucraina e cresciuta a Roma, morta a 17 anni all’ospedale Bambin Gesù dopo un trapianto di midollo. Invitando i lettori a leggerlo, Renovatio 21 pubblica la presentazione al testo scritta da Elisabetta Frezza.

 

Questo libro, e l’infaticabile attività di testimonianza che ci ruota attorno, nasce da un imperativo morale: rendere fertile un grande dolore, il dolore più grande.

 

La premorienza di un figlio è archetipicamente la più atroce delle esperienze che possa toccare in sorte di vivere. Ma nella storia di Lisa e dei suoi genitori c’è ancora più di questo, e resta – per chi resta – un carico ancor più pesante. Perché non era il destino di Lisa la sua morte tremenda: qualcuno quel destino lo ha deviato. Ed è stata una mano a cui quel destino era stato consegnato con fiducia – era stato affidato – e che avrebbe dovuto averne cura, preservandone il corso naturale. Nel nome – non tanto della «scienza», di cui ormai si è fatto strame fino a rendere la parola un flatus vocis –, ma nel nome dell’arte medica, nel nome della pietas, nel nome di Dio: del Bambin Gesù.

 

Per una mamma e un papà che hanno sperimentato quel dolore e continuano ogni giorno a sentirlo inciso a fuoco nella propria carne, portare agli altri conoscenza delle circostanze che lo hanno provocato rappresenta allora una ragione di vita, un bisogno assoluto, l’unico modo di dare un senso alla propria sopravvivenza a una figlia che non doveva morire. E dare a lei, anche quaggiù in questa dimensione terrena, un’altra vita: la sua vita numero quattro.

 

Questo, certo, a servizio di coloro, soprattutto bambini, che rischiano analoghi soprusi; a servizio di tutti noi che sentiamo addosso il peso di una minaccia sempre incombente. Ma non solo: prima ancora, credo, per l’esigenza di mettere insieme i pezzi di una ragione distrutta e di una umanità negata, ovvero per puro e semplice amore di verità. Perché c’è tanto bisogno di verità – un bisogno interiore individuale e insieme collettivo – in un mondo dominato dalla menzogna, per prendere le misure dei fenomeni che ci piovono addosso.

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I genitori di Lisa vanno ascoltati. Ma vanno anche letti, perché il loro è un libro scritto con una penna che stilla sincerità, a tratti disarmante. È un libro che mette a nudo fatti, protagonisti e sentimenti, e scava fin dentro l’indicibile. E in un tempo in cui il pensiero si è ritirato nelle formule e ha rinunciato, appunto, alla ricerca della verità; in cui le parole che risuonano dappertutto si sono trasformate in slogan e hanno perduto ogni presa sulla realtà – sono diventate finte, false, brutte, cacofoniche – leggere parole vere fa un effetto particolare, quasi catartico.

 

Fissare su carta e portare in giro il nome di Lisa, la sua voce, la sua storia vera, è anche la via maestra per certificare ciò che è davvero accaduto, e di questa vicenda spargere prove – documentali, testimoniali, visive – perché è tutto talmente incredibile che potrebbe persino essere considerato frutto di una fervida fantasia. La verità su Lisa va vidimata e immortalata, a futura memoria, a prescindere da ciò che sanciranno le carte della cosiddetta giustizia: indipendentemente, cioè, dalla pseudo-verità giudiziaria, dalle sue logiche e dai suoi tempi.

 

Perché il tratto che domina la storia di Lisa, a partire dalla sua infanzia, è la prepotenza del potere, anche e soprattutto delle sue articolazioni periferiche più misere e miserabili. Quello strapotere oscuro e spregiudicato che viene esercitato nella quotidianità con la noncuranza dell’assuefazione e con il cinismo della pusillanimità. Un potere che non può conoscere cedimenti, non può ammettere incrinature né oasi di umanità. Determinato a proteggere fino in fondo se stesso, a costo di innescare spirali di perversione.

 

Del resto, l’abbiamo vista tutti la dittatura iatrocratica esprimersi in mille facce – in mille ghigni –durante il laboratorio della pandemia. Negli ospedali, nelle scuole, nei tribunali. Ne stiamo patendo tuttora l’onda lunga, sorretta dalla sindrome di onnipotenza coltivata da nullità umane che vestono il camice bianco, la toga nera, divise assortite.

 

Abbiamo assistito a sequestri di persona, ricatti, vessazioni, esecuzioni, torture, praticati alla luce del sole, addirittura sbandierati sui social come fossero una medaglia al valore. Abbiamo visto l’omertà di tanti sodali disposti a coprire crimini in un non meno criminale silenzio. Con copertura assicurata dal presidio militare dei media di massa.

 

In particolare, lascia storditi il venire a contatto con strutture religiose o ad ispirazione religiosa e accorgersi che lì dentro è sconosciuta la carezza della pietà e non soffia più nemmeno di striscio (o non vi è mai soffiato, chi lo sa) l’alito della fede. C’è della blasfemia latente nel vuoto umano e spirituale che riempie luoghi dove la vita dovrebbe essere sommamente onorata: come se il nome di Cristo fosse usurpato.
Ma la nostra certezza e il nostro conforto è che quel nome, anche se abusato e offeso, resta intatto e dà senso al dolore del giusto. La sofferenza di chi crede, di chi si affida, non è mai vana agli occhi di Dio.

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Dai Discorsi di San Quodvultdeus, vescovo (discepolo di sant’Agostino), IV-V secolo, «Sui Santi Innocenti»:

 

«Il grande Re nasce piccolo bambino (…). Che cosa temi, o Erode, ora che hai sentito che è nato il Re? (…) Ti turbi e infierisci [per non perdere il regno]; anzi, per togliere di mezzo quel solo che tu cerchi, diventi crudele, facendo morire tanti bambini. Le madri che piangono non ti fanno tornare sui tuoi passi, non ti commuove il lamento dei padri per l’uccisione dei loro figli, non ti arresta il gemito straziante dei bambini (…). I bambini, senza saperlo, muoiono per Cristo, mentre i genitori piangono i martiri che muoiono. Cristo rende suoi testimoni quelli che non parlano ancora (…). Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? (…). Non sono ancora capaci di affrontare la lotta, perché non muovono ancora le membra e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria».

 

In forme diverse, la strage degli innocenti si consuma oggi nell’indifferenza dei più. Lisa è una di loro. Chiamata a scuotere coscienze intorpidite.

 

Chi arrivi alla fine di questo libro, dopo averla conosciuta fin da piccina attraverso il racconto dei suoi genitori, non può che sentirla a sua volta figlia, e fare proprie le parole della sua mamma, che lo conclude così: «Le vogliamo bene, ora più di prima, in questa sua quarta vita, ora che finalmente abbiamo capito quanto valeva la sua gaiezza e quanta forza ci fosse dietro la sua leggerezza».

 

Elisabetta Frezza

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