Eutanasia

Il vero volto del suicidio Kessler

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Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.

 

Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita.


Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.

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«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.

 

Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni. 

 

Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.

 

E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.

 

Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.

 

Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).

 

Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.

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Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e definitivo che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV o, per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta. 

 

Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.

 

La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.   

 

Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.

 

Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.

 

Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.

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Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.

 

Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico. 

 

Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.

 

Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.

 

Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire. 

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata

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