Psicofarmaci
Domanda: il presunto assassino patriarcale assumeva psicofarmaci?
Filippo Turetta, il presunto assassino di Giulia Cecchettin, sta tornando ora in Italia dalla Germania, dove era stato arrestato. Atterrerà a Venezia con un volo militare, perché, è stato riferito, si temeva che con un volo di linea potevano ingenerarsi problemi, con magari gruppi di passeggeri pronto a realizzare un linciaggio in volo.
Il trasporto su velivoli dello Stato, così come il minuto di silenzio inflitto ai nostri figli piccoli, fanno capire quanto la storia sia fondamentale per il potere centrale. Immaginiamo l’atmosfera del processo, non così diversa, per pressione assoluta delle istituzioni e dell’opinione pubblica, da quella di Derek Chauvin, il poliziotto condannato per la morte di George Floyd, accoltellato ieri in carcere (come sa il lettore di Renovatio 21, certi referti autoptici emersi recentemente in tribunale scrivono che Floyd morì non per strangolamento, sconfessando quindi la sentenza).
I casi due sono tuttavia diversissimi, e diciamo subito che, per quanto ci riguarda, se considerato colpevole, propenderemo per possibilità giuridiche peggiori dell’ergastolo, purtroppo non attualmente contemplate dal nostro ordinamento. La questione, come abbiamo visto, è che questo non basta: la punizione totale del ragazzo non è abbastanza, perché il problema è l’uomo, l’umanità maschile e la società così come la conosciamo, il patriarcato, di cui Filippo, è stato detto, «è un figlio sano».
È impressionante la quantità di dettagli che stanno uscendo su questa vicenda, di cui di fatto si sa pochissimo. Erano stati chiamati i carabinieri, che non sarebbero intervenuti (lo abbiamo saputo solo ora, dopo giorni). Filippo dormiva con l’orsacchiotto, e il padre dice che la loro non era una famiglia patriacale (il problema, ha detto qualche commentatore, potrebbe essere quindi proprio quello). L’avvocato di Turetta ha lasciato sui social in passato certi commenti ritenuti inopportuni, ed è stato per questo cambiato dalla famiglia (anche qui, notare come l’aria intorno al processo sia già innocente).
Vi sono minuzioserie delle ricostruzioni che si sono dimostrate avventate, inesatte, per non dire false. Per esempio, era stato detto, da agenzie riprese da tutti i giornali, che Giulia era stata «buttata in un dirupo». «Giulia Cecchettin gettata da un dirupo alto 50 metri. Il corpo trovato da un cane della Protezione civile» ha titolato il Quotidiano Nazionale, che ha aggiunto che «zona impervia è molto frequentata dai lupi, ma il cadavere della ragazza non è stato attaccato».
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Sui giornali era uscito pure che la ragazza non era morta quando veniva lanciata nel crepaccio. «Giulia Cecchettin, per la Procura Turetta l’ha “gettata agonizzante nel dirupo”» è il titolo che ha fatto Il Tempo. «Filippo Turetta si sarebbe sbarazzato del corpo agonizzante della ex fidanzata gettandolo nel dirupo», scrive l’AGI.
Sei giorni fa Il Giornale scriveva invece che «secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine Filippo Turetta avrebbe trascinato il corpo di Giulia sul ciglio della strada per poi lasciarlo rotolare lungo un dirupo per oltre una cinquantina di metri di profondità, fino a quando il corpo della ragazza si è fermato in un canalone». L’immagine è assai diversa da quella che ci avevano dipinto nella mente poco prima, quella di un uomo che lancia in un abisso una donna, l’icona perfetta dell’assassino patriarcale. L’orrore sostanziale, lo sottolineiamo, non cambia: una ragazza accoltellata a morte, brutalmente. Tuttavia qui quello che vogliamo sottolineare non riguarda il delitto, ma lo spin che ne si è dato, l’ottica mediatica utile alla narrazione dominante.
Poi la storia del sangue. Secondo il TG La7 (quello di Mentana) tracce ematiche sarebbero state trovate sotto casa di Giulia. Altre testate sostengono che tracce di sangue si sarebbero trovato fuori dall’azienda Christian Dior, dove la videocamera avrebbe ripreso l’aggressione di Filippo contro Giulia. I giornali tre giornali fa scrivevano che Turetta era stato arrestato in Germania tutto sporco di sangue.
Poi ieri la notizia: «non ci sono tracce evidenti di sangue nella vettura». I pochi che prestano attenzione potrebbero avere la mente che vacilla, o persino peggio: no, non fate tornare su le storie di scarpe e impronte sangue, la bicicletta, e tutto il buco nero di quell’antico delitto lombardo… No, Garlasco no, vi preghiamo, non un’altra volta.
È curioso, e come sempre indicativo, che tra tutta questa marea di dettagli sul caso – veri, falsi, giusti, incongrui – manchi la domanda più centrale, la solita domanda che nessuno osa porre dopo delitti in famiglia e stragi di ultraviolenza casuale: il presunto assassino stava assumendo qualche droga?
Riformuliamo per il benpensante, che non ha ancora capito che nella farmacia sotto casa può comprare, su ricetta data abbastanza facilmente, sostanze psicoattive totalmente legali, che alterano la psiche in maniera potente, ma che – per ragioni politiche e commerciali che possiamo comprendere – non chiamiamo «droghe»: gli psicofarmaci.
Quindi, ripetiamo la domanda che i media non stanno facendo, e non faranno mai: Filippo Turetta stava assumendo psicofarmaci?
Il ragazzo era sotto l’influsso di qualche sostanza che gli era stata prescritta? In ipotesi, potrebbe essere che il ragazzo fosse andato in cura per lo stato di malessere patito quando era stato lasciato da Giulia? Non che ci voglia un gran processo terapeutico: «dottore sono depresso»; eccoti la sertralina.
Chi è nuovo non sa che quella contro gli SSRI – gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina – e gli psicofarmaci in generale è una battaglia che portiamo avanti da anni su Renovatio 21.
Segnaliamo il tremendo pericolo non per una questione morale, religiosa e nemmeno solo medica – gli effetti sulla salute sono orrendi, dall’anedonia (incapacità di provare piacere, anche sessuale) alla dipendenza più acuta, dai rischi per le donne in gravidanza (sempre sottovalutati), dal torpore esistenziali alle crisi che ha confessato di recente il cantante Fedez.
Non c’è solo il danno alla persona: c’è da considerare il danno alla società. Perché l’idea che i delitti e le stragi più insensate siano frutto del consumo di psicofarmaci avanza sempre più, nonostante la censura dei media – e il motivo è facile da comprendere: senza il budget pubblicitario farmaceutico, quale TV, quale giornale, può sperare di campare? Quanta politica – in USA, soprattutto, dove è possibile la pubblicità diretta da parte di Big Pharma, ma non solo – foraggiata da «lobbysti» perderebbe qualcosa, se fosse solo posta la domanda?
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Il fatto è che dietro ad ogni strage di cui avete sentito parlare, anche in Italia, potrebbe esserci uno psicofarmaco. Notate: vi dicono, di solito, che l’assassino era «in cura», ma non vi dicono come. Giornalisti d’inchiesta americani scrivono che a volte ci vogliono mesi per riuscire a capire quale farmaco prendesse il mostro, un dettaglio che diviene disponibile dopo pochi minuti: basta guardargli nell’armadietto in bagno. Tuttavia, in vari casi l’informazione non esce, neanche lontanamente.
Ai giornali, quelli che fanno soldi dipingendo scene di sangue, e che per deontologia dovrebbero cercare radicalmente la verità, pare non interessare l’origine del crimine, anche quando è evidente che se proprio se ne occupassero i giornalisti, il problema potrebbe diminuire drasticamente.
Facciamo qualche esempio, tratto dalle cronache degli USA, dove più di qualcuno, fuori dal mainstream, ha da tempo iniziato ad unire i puntini.
Eric Harris, il perpetratore del massacro della scuola Columbine (1999) era sotto Zoloft, cioè la sertralina, ed anche Luvox, fluvoxamina.
Un anno prima, un quindicenne di nome Kip Kinkel ha sparato ai suoi genitori e a dozzine di compagni di classe: era sotto fluoxetina, cioè Prozac.
Nel 2005, un sedicenne di nome Jeff Weise ha ucciso suo nonno e dieci bambini in Minnesota. Prozac.
Idem per il 27enne Steven Kazmierczak che ha ucciso sei persone alla Northern Illinois University (2008). Fluoxetina.
Ricorderete il massacro di Aurora, in Texas, nel 2012, quando un tizio vestito da Joker entrò in un cinema dove proiettavano l’ultimo Batman e massacrò 82 spettatori: si trattava del 25enne James Holmes, che era sotto Zoloft.
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La lista è molto, molto più lunga di così. Tuttavia non parliamo per aneddoti. Timidi studi sull’associazione tra SSRI e violenza sono stati fatti negli anni scorsi. Un gruppo di ricercatori svedesi nel 2017 ha pubblicato uno studio chiamato «Associazioni tra inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e criminalità violenta negli adolescenti, nei giovani e negli anziani».
La ricerca «identificava individui a cui era stato somministrato un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI) di età compresa tra 15 e 60 anni nel periodo 2006-2013, utilizzando i registri nazionali svedesi. Il risultato è stato una condanna per reato violento. Le principali analisi statistiche hanno valutato i rischi di criminalità violenta durante i periodi di trattamento con SSRI rispetto a quelli di disattivazione all’interno degli individui».
Lo studio conclude dicendo che «sebbene permangano dubbi sulla causalità, questi risultati indicano che potrebbe esserci un aumento del rischio di crimini violenti durante il trattamento con SSRI in un piccolo gruppo di individui. Può persistere durante i periodi di terapia, tra i gruppi di età e dopo l’interruzione del trattamento».
Uno studio dell’Università di Cambridge del 2022 aveva un titolo ancora più esplicito e promettente: «inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e criminalità violenta: gli SSRI uccidono o curano?».
«Gli SSRI sono costantemente associati a eventi violenti nella popolazione adulta. (…) Diversi studi recenti attirano l’attenzione su questa ipotesi mentre sono stati ispirati da diversi assassini di massa negli Stati Uniti» scrivevano gli scienziati cantabrigiensi, i quali concludevano che tutto sommato gli psicofarmaci erano «sicuri per la popolazione» (dov’è che abbiamo già sentito questa espressione?). Niente da vedere qui, circolare. Tuttavia, «Tuttavia, è stato osservato un aumento del rischio di comportamento violento nei giovani e in quelli con una storia di crimini violenti».
Si tratta, per la comunità scientifica, di una prima, lieve ammissione che riveste un’importanza enorme.
Fino a poco fa, il problema della violenza SSRI era stato «inscatolato» nella questione del suicidio. Nei bugiardini americani della sertralina, ad esempio, era stato introdotto un «black box warning» («avvertimento da scatola nera»), il babau di ogni casa farmaceutica: è una parte evidenziata del libretto che indica un effetto avverso particolarmente grave, che in questo caso era l’ideazione suicidaria.
In pratica: prendi lo psicofarmaco per non suicidarti, e invece finisci proprio per progettare la tua morte. E magari riuscirci.
Come sia stato possibile che la comunità scientifica, politica, sanitaria abbia accettato una cosa del genere – un farmaco che può portarti ad ucciderti? Una pillola della morte? – rimane un grande mistero.
Ma ancora più enigmatico, pensiamo, è il fatto che tutti le persone coinvolte, dai dottori ai pazienti agli enti regolatori, si siano bevuti la questione per cui tale effetto paradosso riguardi solo la propria morte e non anche quella delle persone che ci stanno intorno.
Se ammettiamo che la psicodroga legale possa alterarti il cervello al punto dal percepire odio per la vita, come è possibile che questo riguardi solo la propria?
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Esattamente come altre droghe, la mente alterata dal farmaco può generare pensieri abnormi, sensi di persecuzione, sentimenti indicibili per cui la morte è preferibile alla vita. Le stragi in famiglia, dove il genitore uccide il consorte e i figli, possono spiegarsi così, con il rivoltamento morale definitivo dell’animo umano, la sua inversione. Il padre ammazza i cari che deve proteggere, la madre uccide i bambini a cui ha dato la vita: tanti casi così, in cui la mente umana sembra improvvisamente rovesciata. Lo stesso, e tremano i polsi a dirlo, potrebbe essere vero per i piloti che schiantano al suolo l’aereo con a bordo centinaia di persone.
Non si tratta, badi bene, di sola modifica dell’umore del soggetto, ma di un radicale cambiamento del suo pensiero: spinto nei suoi convincimenti apocalittici, lo psicodrogato programma, medita, premedita. La «cura», lo sappiamo, può andare avanti per mesi, anni, può andare avanti per sempre. Quanti medici di famiglia prescrivono lo psicofarmaco senza nemmeno visitare davvero il paziente?
Anni fa, ricordiamo ancora, era possibile vedere una trasmissione che citava la possibile correlazione tra violenza e psicofarmaci su un canale TV pubblica italiana. Oggi, come ovvio, il panorama si è arricchito decisamente della censura farmaceutica, e con il COVID abbiamo imparato che non è consentito criticare aziende che magari hanno alle spalle processi con multe miliardarie – magari, in certi casi, qualche paziente morto nel percorso.
Quindi, non aspettiamoci che, fuori dal povero sito di Renovatio 21, qualcuno farà questa domanda. Vi diranno di che colore è l’orsetto di pelouche di Filippo Turetta, ma mai e poi mai faranno una domanda sui farmaci che il ragazzo potrebbe aver preso.
Del resto, non dovete pensare che, come per i vaccini, anche questo non rientri in un grande piano globale, che però vi riguarda da vicino. Se non ci credete, c’è un libro che fa al caso vostro: Il mondo nuovo di Aldous Huxley, l’uomo erede di una famiglia di aedi del Nuovo Ordine Mondiale.
I più credono che si tratti di un romanzo distopico, ma basta leggere il testo che in genere vi è accluso (Ritorno al mondo nuovo, nelle edizioni italiane) per capire invece che per Huxley si trattava invece di un manifesto per la riformulazione del mondo sotto un sistema di tecnocrazia totale, con l’esistenza umana gestita dalla produzione in provetta di embrioni selezionati alla cremazione eutanatica.
Ebbene, c’è questo elemento che colpisce nel Mondo nuovo huxleyano: i cittadini, divisi in caste genetiche e distratti con continue orge (hanno abolito la proprietà privata, e con essa la monogamia), vengono costantemente drogati dal soma, una pillola che ne alza e ne stabilizza l’umore. Drogati e felici per ordine dello Stato tecnocratico.
Del resto, se gli psicofarmaci fanno bene, e sono, come dicono gli esperti, sicuri per la popolazione, perché non dovremmo prenderli tutti? Perché non dovremmo concederci una vita felice con la tecnologia psicochimica?
Non ho idea se Filippo prendesse o meno psicofarmaci. Ma davanti a questa tragedia, sono queste le questioni che mi pongo. Perché, per rasoio di Occam, a rendere qualcuno violento, più che il patriarcato, potrebbe essere stata una sostanza che altera la mente.
Non è un dettaglio. È una faccenda centrale per una società che vuole proteggersi, che vuole vivere. La nostra lo è ancora?
Roberto Dal Bosco
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Immagine elaborata a partire da immagini Envato