Pensiero

«Consummatum est»

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Sono le ultime parole di Nostro Signore. Tetelestai, in greco: tutto è finito.

 

Tutto è compiuto.

 

«Cum ergo accepisset acetum, Iesus dixit: “Consummatum est!”. Et inclinato capite tradidit spiritum»

 

«E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò». (Giovanni, 19, 30)

 

L’esegesi vorrebbe assegnarvi il significato soteriologico della venuta di Cristo: la missione del Redentore è stata portata a termine. La Croce, il sacrificio divino, è il compimento della salvezza dell’umanità, l’istituzione della Nuova Alleanza.

 

Gli uomini invece hanno preso ad usare l’espressione per significare il dolore e la catastrofe, e l’impotenza provata davanti ad essi.

 

«Consummatum est!»

 

In realtà, trovo qualcosa di magnetico in queste parole. Non vi vedo solo la tragedia. Cioè: vi vedo quella dimensione in grado di comprendere la tragedia. Di comprendere anche la tragedia.

 

È il pensiero esalato alla fine di tutto. Nel nostro caso, al termine del piccolo tratto di strada assegnato a noi creature umane. Poca cosa: viviamo una frazione micrologica della storia del cosmo. Miliardi di persone sono venute prima di noi. Miliardi – forse, se ci impegniamo a proteggere l’essere umano dal XXI secolo – verranno dopo.

 

In teoria, niente di speciale. Se non fosse che quel piccolo tratto di strada è unico. Lo hanno dato solo a noi, per motivi che ora non possiamo capire. Solo noi lo abbiamo percorso in toto. Solo noi ne potremo carpire il senso.

 

È davvero nostro: ci è stato dato assieme a delle garanze. Un genoma unico, che appartiene solo a noi. Un destino unico, che appartiene solo a noi. L’unione di queste due cose fanno di noi qualcosa di ancora più unico – al punto che anche chi, in rari casi, condivide lo stesso DNA è infinitamente diverso dal suo gemello. L’unione di queste due cose scrivono un libro della vita che è solo per noi.

 

E quindi, ci può essere un momento in cui, vedendo che la strada sta per finire, sentiamo la pace di questo pensiero: tutto è compiuto.

 

«Consummatum est».

 

La realtà, tuttavia, può essere diversa. Il compimento del sacrificio di Cristo ha salvato l’umanità dal Male, ma non estingue il bisogno di sacrificarci per il Bene.

 

Sacrificare, ad esempio, la lusinga della grande quiete.

 

C’è stato un momento, magari con i polmoni traboccanti di virus sintetico, il respiro terminato, il corpo e la mente isolati dal proprio sangue, in cui si sarebbe voluto dirlo.

 

«Consummatum est».

 

Ma, per noi esseri umani, per noi padri, per noi cristiani, non è possibile in alcun modo. Non ora, non in questo momento della storia del mondo. Non adesso che le cose si stanno rivelando.

 

Barattare la pace della propria morte, con il mondo pronto alla guerra atomica? Scambiare la vita con la dispensa all’era dei tiranni, delle pesti?

 

No. Non se si hanno figli. E anche se non li si hanno. No, non è possibile.

 

Duemila anni fa si è consumato l’avvento della nostra salvezza.

 

Oggi, ogni giorno, si compie il sacrificio della nostra resistenza, dell’esistenza in una dimensione di pauroso combattimento: unica forma di compimento delle nostre vite nella catastrofe del mondo moderno.

 

«Consummatum est»

 

Tutto è compiuto. È scritto in ogni nostra cellula, in ogni moto della nostra anima. Siamo qui per portare avanti il programma definito dal Dio vivente: la nostra vita, la nostra anima. Contro chi, giocoforza, vuole invece la nostra morte e la nostra perdizione.

 

Colui che vuole, ancor più importante, la morte e la perdizione dei nostri bambini.

 

Per impedirlo, dobbiamo continuare. Dobbiamo vivere. Dobbiamo esistere. Nonostante tutto, oggi, sia progettato per cancellarci.

 

Prepariamoci al sacrificio. Non sappiamo né il giorno, né l’ora. Nel frattempo, una cosa soltanto: lottare.

 

Fino a che il nostro disegno non sarà davvero compiuto.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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