Persecuzioni

Pakistan, cristiano condannato a morte per blasfemia con false accuse

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

 

Nel 2017 un cliente aveva denunciato Ashfaq Masih, gestore di un’attività di riparazione di bici e moto, per aver diffamato il profeta Maometto. I familiari dell’uomo parlano di accuse pretestuose per non pagare il lavoro effettuato. In molti casi i tribunali di grado inferiore comminano la pena capitale dietro pressioni di gruppi estremisti.

 

 

Un tribunale di Lahore ha condannato a morte per impiccagione, in seguito all’accusa di blasfemia, il cristiano Ashfaq Masih; la sentenza risale al 4 luglio scorso ed è legata a un fatto risalente a poco più di cinque anni fa, quando Masih avrebbe – secondo l’accusa – diffamato il profeta Maometto affermando che Gesù Cristo è il solo e unico profeta.

 

Il 15 giugno 2017 la polizia ha aperto un fascicolo contro Ashfaq Masih, arrestato in seguito a una lite con un musulmano che si era rivolto al suo negozio di riparazione di biciclette.

 

La famiglia dell’uomo cristiano riferisce che l’accusa di blasfemia è solo un pretesto utilizzato dal cliente, Muhammad Irfan, per non pagare il lavoro effettuato.

 

Davanti ai magistrati Masih ha dichiarato la propria innocenza, accusando a sua volta il querelante di aver cercato di «distruggere il suo negozio».

 

Dal 2017 la moglie e la figlia di otto anni aspettavano la sentenza pronunciata dal giudice aggiunto Khalid Wazir, che le ha fatte sprofondare nel dolore e nella disperazione. A dispetto dei proclami di innocenza, la giuria ha emesso la pena capitale e il timore è che possa essere eseguita o l’uomo, come avvenuto peraltro in passato, possa essere vittima di un omicidio extragiudiziale – anche in prigione – perpetrato in nome della legge sulla blasfemia.

 

Interpellato da AsiaNews Joseph Jansen, presidente di Voice for Justice, sottolinea che la condanna a morte di Masih è fonte di «paura» per tutta la comunità cristiana pakistana, in special modo per le «vittime di altri casi di blasfemia e le loro famiglie».

 

La maggioranza delle accuse, prosegue, sono «false o legate a vendette e controversie personali, più che a veri episodi di diffamazione» del profeta o della religione islamica.

 

Inoltre, in alcuni casi le accuse innescano reazioni violente di folle inferocite che attaccano gli accusati e le aree in cui vivono, provocando danni gravissimi «facendosi giustizia da soli».

 

A fronte di tutto questo, quanti denunciano usando il pretesto della blasfemia e per false accuse manipolando o distorcendo i fatti «restano in gran parte impuniti».

 

Gli fa eco l’attivista cristiano Ashiknaz Khokhar, secondo cui è ormai prassi per i tribunali di grado inferiore emettere verdetti di condanna (a morte) agli imputati alla sbarra per blasfemia, anche «in mancanza di prove o se è evidente l’innocenza».

 

«Questo – prosegue – è legato alla mancanza di sicurezza nelle aule di giustizia e per le pressioni esercitate da gruppi estremisti [islamici] verso i magistrati durante le udienze».

 

Sappiamo benissimo, conclude l’esperto, che «la maggior parte dei casi di blasfemia sono registrati con false accuse per risolvere le controversie personali. Il governo deve intraprendere azioni decise per porre fine all’uso improprio delle norme proteggere i cittadini».

 

 

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Immagine di Guilhem Vellut via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

 

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