Pensiero

Omaggio vero alle donne ucraine

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Imparai la piramide globale della donna viaggiando per le Russie.

 

Un conoscente russo aveva dei problemi a casa con la moglie, e me ne parlava davanti a svariati drink nei locali nel centro di Mosca. La signora sospettava che lui avesse un’amante. Era vero. La cosa ovviamente peggiorò. Quando saltò fuori che il marito si era visto con un’ucraina, la moglie russa impazzì: rabbia, gelosia, un rancore infinito che si traduceva in scenate isteriche, lanci di oggetti, e quella parola comune a molte lingue slave, omofona di quella italiana che indica una strada non rettilinea.

 

Mi spiegarono che era normale: le ucraine sono ritenute dalle russe bellissime, e pericolose. Le ucraine rubano i mariti alle russe: era un dogma inscalfibile.

 

A Mosca, qualsiasi serata in un locale o una discoteca della città rendevano questo pensiero impossibile: la quantità di bellezze inarrivabili, di tutte le possibili provenienze – siberiana, tartara, baschira, caucasica, di Kaliningrad, di Ekaterinburg, Murmansk, Krasnojarsk, Ivanov, Yakutsk, Saratov, Vladivostok, Tol’jatti – rendeva difficile ci fossero donne più incredibili di quelle che si vedono in Russia.

 

La piramide era quindi: le italiane detestano le russe perché rubano loro i mariti, le russe odiano le ucraine perché rubano loro i mariti. Questo metteva le ucraine in cima alla catena alimentare mondiale. Mi chiedevo tuttavia se vi fosse un gradino superiore, un vertice finale del triangolo.

 

Dovetti scoprirlo in un viaggio attraverso tutta l’Ucraina in auto. Quando nel percorso dicevamo che eravamo diretti ad Odessa, ci dicevano che le donne più belle del Paese erano le donne di Odessa. Ci spiegarono che le donne ucraine vedono male le donne di Odessa perché avvenenti al punto, guarda guarda, da rubare i mariti alle ucraine di altre aree.

 

Quindi, ricapitolando, la piramide del ladrocinio maritale, cioè della bellezza femminile percepita, è: italiane-russe-ucraine-odessiane. Stando a questo schema, le donne più belle del pianeta devono trovarsi per forza ad Odessa.

 

Era vero. Bastò mezza giornata alla spiaggia di Arkadja, dove a pochi metri dalla costa erano ancora visibili i muri sommersi per impedire le invasioni via mare, per capire quanto ciò fosse la verità.

 

Tale convincimento fu rafforzato da una serata alla discoteca Ibiza (che nome frusto e ignorantissimo, pensa uno prima di entrare, e dimenticarsene) sempre in Arkadja a Odessa.

 

Fu perfino scioccante. Era così: era un Walhalla parossistico, il trionfo definitivo della biologia femminile.

 

Era il più immane concentrato di femmine stupende mai visto prima. Qualcosa di inconcepibile, e, al contempo, di naturale. Erano ovunque: al bar, nel terrazzo, in pista, sul palco, sotto il palco, fuori a fumare, in bagno a truccarsi. Erano davanti a te. Erano dietro di te. Era qualcosa di onnipervadente. L’intera atmosfera di quella sera era come retta da quell’intensità fuori scala di perfezione ginoide.

 

Fu lì che incontrai Keisuke, un minuto ragazzo giapponese che si occupava di import-export in Turchia. Mi avvicinai a lui perché avevo voglia di scambiare due parole nel mio povero giapponese, e perché mi colpiva la sua  figura: unico orientale in mezzo alla bolgia, aveva il bicchiere in mano, ma non beveva. Aveva come la testa bloccata, e un sorriso, indecifrabile e felice, plastificato sul volto. Alla terza battute della nostra conversazione nel frastuono techno, sempre senza muovere un muscolo, mi disse due parole in russo: «krasivye zhenshiny»… Belle donne. Era un’espressione generica ma era l’unica cosa che, in fondo, gli andava di dire, tipo preso da una Sindrome di Stendhal, però seria. Capii subito che Keisuke era lo specchio della situazione. Notai, ad un certo punto, un dettaglio sconvolgente: dagli occhi immobili del nipponico, scendevano lacrime.

 

Non c’era niente da fare. Corrado, il mio insuperabile compagno di viaggio, ebbe una reazione non troppo dissimile. Anche lui, aveva una strana postura fissa, un sorriso che pareva di marmo, il bicchiere tenuto rigidamente a mezza altezza. Esperto di cocktail, riguardo ai quali scrive a volte sui giornali, aveva preso un comune Gin Lemon. Gli chiesi com’era. Diede una sorsata. Rispose: «è la cosa più schifosa che io abbia mai bevuto in vita mia. Ma non me ne frega niente». Erano parole definitive e solenni, incontrovertibili. In quel momento, per qualche motivo, gli venne in mente che l’idea di far vacanza in Ucraina era venuta a me. Mi mise la mano sulla spalla, stringendola. Disse, sempre mantenendo fisso lo sguardo altrove, «Grazie Roberto». Fu uno dei momenti in cui più ho sentito l’autentica gratitudine di qualcuno, e la cosa ancora adesso mi fa parecchio sorridere.

 

(Caro lettore, di tutto ciò vi erano prove fotografiche. Erano su Facebook. Tutto quindi è andato perduto, quando lo Zuckerbergo ha chiuso la pagina di Renovatio 21 e tutti gli account collegati, cancellando – puf –  5 lustri di immagini, ricordi, riflessioni, contatti…)

 

La morale: le ucraine sono le più belle. Punto. Le odessiane forse di più, ma non vuol dire niente: per le strade della Transcarpazia, o nei paradisi terrestri della campagna infinita dell’Ucraina centrale abbiamo visto donne di beltà disarmante, indescrivile. Pura. Irresistibile. Talvolta, perfino innocente.

 

Ora, una quantità di ucraine non-badanti si stan per riversare in Italia per la tragedia della guerra. I bruti già si lasciano andare a volgarità orrende. I bruti non possono aver contezza della bellezza profonda, né delle difficoltà che una donna ucraina, nata in un Paese in costante caduta libera in abissi economici, politici e ora bellici, ha dovuto esperire.

 

I più non sanno che la donna ucraina che arriva in Italia porta con sé il dolore della separazione dal suo uomo, o addirittura da suo figlio, se 18enne. I giornali e le TV non ve lo dicono, Renovatio 21 ve lo ha ripetuto varie volte: gli uomini per legge non possono passare il confine, pena l’arruolamento immediato. I maschi dai 18 ai 60 anni sono obbligati a rimanere nel Paese, dove saranno usati come carne da cannone, o meglio, come sacrifici umani da offrire ai social al fine di ricattare moralmente i Paesi NATO a combattere Putin al posto di Kiev – cioè, olocausti propiziatori alla Terza Guerra Mondiale.

 

Bellezza e dolore. Occhi intensi e cuori infranti. Le donne ucraine profughe in Italia rappresentano un’immigrazione finalmente vera, e giusta: a differenza dei milioni di africani che ora sollazzano nel nostro Paese a spese nostre, esse davvero scappano dalla guerra.

Le ucraine non si meritano le femministe italiane e le loro stronzate. Non si meritano il ricatto mRNA a cui saranno sottoposte. Non si meritano l’Italia del 2022

 

Per cui, ecco che oggi, 8 marzo, mi trovo a pensare: non si meritano le femministe italiane e le loro stronzate. Non si meritano il ricatto mRNA a cui saranno sottoposte. Non si meritano l’Italia del 2022.

 

No, non meritano di essere obbligata al siero sperimentale, come pare proprio che sarà: finite nell’imbutone del triage migratorio-assistenziale, saranno, diciamo così, fortemente consigliate a vaccinarsi… Perché, la signora può pensare, se mi rifiuto magari mi mettono in un posto peggiore per me e per i miei figli?

 

Qui scatta la questione dell’8 marzo. Il corpo è mio, dicono le femministe: ma vogliono che le ucraine si vaccinino. Se solo il 30% delle ucraine si è vaccinato, vuol dire che non avevano intenzione di farlo – lo stesso è stato in Russia, in Africa, in tanti Paesi sui quali i politicamente corretti non avrebbero in teoria voglia di scherzare. Eppure, non saranno lasciate stare, finiranno anche loro a fare i conti con l’apartheid biotica italiana degli anni Venti.

 

Lo meritano? No. Nessun profugo merita di scappare da una guerra militare per trovarsi in una guerra biologica, fatta di leggi del taglione e sacrifici che possono segnare per sempre.

 

Ma torniamo alle femministe.

 

Stamane, in un programma di news della TV statale pagata del contribuente ho visto che si era pensato di dedicare la trasmissione dell’8 marzo alle donne ucraine. Hanno chiamato a parlarne una scrittrice con ricci capelli sfiniti dal balsamo: la guardavo e mi chiedevo cosa potesse saperne delle donne ucraine. Diceva: il coraggio delle ucraine che stanno «sotto le bombe» – ma non ci risulta che siano stati bombardati massivamente centri abitati, come invece capita con le guerre, pardon, gli «interventi umanitari», «le esportazioni della democrazia», degli americani, ora invocati sottovoce a bombardare i russi – e le russe. Tuttavia, non siamo insensibili dinanzi al senso di catastrofe che infondono le visioni di distruzione e le fughe in metropolitana: fuggire da un Paese in guerra è quello che una donna, che ne rappresenta il futuro, deve fare.

 

Poi la scrittrice si lanciava in un’originale tirata sui «diritti delle donne», e parlava di non precisate «battaglie per ottenerle». Insomma, la neolingua orwelliana femminista per dire «aborto», credo.  L’aborto, quella pratica così femminista da uccidere numeri spropositati di donne, in alcuni Paesi (India, Pakistan, Cina) pure selettivamente, senza che questo mandi in cortocircuito le attiviste dell’utero-è-mio.

 

Non diciamo niente di nuovo. Sappiamo bene che la donna un obbiettivo primigenio della Necrocultura: come abbiamo scritto, lo è, stando ai documenti, da due secoli e più. In realtà lo è dall’inizio dei tempi. Il Serpente antico di fatto si concentrò sulla donna. Il Serpente moderno continua sullo stesso solco.

 

La Cultura della Morte vuole distruggere la donna, fulcro della Civiltà umana. Vuole sterilizzarla, offenderla, degradarla, eliminarla.

 

Alle femministe questo può pure andare bene.

 

Solo però lasciate in pace le ucraine. Perché non sono femmine. Sono donne vere.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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