Pensiero
Non vendo niente, grazie: il valore del martirio
Il martirio è una spina nel fianco, un inciampo storico e morale come la sua matrice divina, il Cristo in croce «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23).
Per chi non crede è il memento scomodo che «la nozione dell’eternità» resta incisa nei cuori mortali (Ec 3,11) e le salvezze secolari che hanno ingolosito ogni epoca – ma mai nessuna quanto la nostra – non bastano perché «in questa tenda [della dimora terrena] gemiamo desiderando intensamente di essere rivestiti della nostra abitazione celeste» (2 Cor 5,2).
Nel suo fissare gli occhi sull’oltre, il martire umilia le offerte del mondo, di chi lo domina e di chi ambisce a farne un paradiso possibile che renda superflue le consolazioni celesti.
Prima della sua fede testimonia che no, non è vero che si possa e si voglia mettere tutto nella terra, cavare beatitudine dai suoi abissi, verità dalla conta dei suoi fenomeni, immortalità dalle trame invisibili degli organismi. Dice che la meta desiderata non è qui, per quanto vi si possa avanzare.
Nel suo fissare gli occhi sull’oltre, il martire umilia le offerte del mondo, di chi lo domina e di chi ambisce a farne un paradiso possibile che renda superflue le consolazioni celesti
Lo sputo del martire sul pentolame del progresso attiva le difese più classiche del progressista. L’allestimento del sacro nel palcoscenico della storia produce i martiri laici la cui caratteristica è precisamente quella di essere anti-eterni, i vincenti del giorno dopo a cui si intitolano le scuole e le vie fino al regime successivo. Imperituri finché dura, soddisfano una sete di gloria senza tempo aggrappandosi alle bandierine dei tempi.
Traslato tutto nel mondo, anche i martiri della fede diventano pedine di una rappresentazione storica in ascesa perpetua. Testimoniano non più la bellezza del premio venturo, ma la bruttezza degli orrori passati, l’«irrazionalità» di luoghi e tempi lontani in cui si uccideva e ci si faceva uccidere nei modi più atroci non tanto per un’idea ma – questo sì, intollerabile – per un’idea religiosa.
Messa così, senza orpelli divini, il martirio non suscita più disagio ma sollievo, anzi orgoglio, di essersi tratti dai torbidi di un passato infestato dai fantasmi dello spirito e di guardarlo dai lidi asciutti dell’igiene, della plastica e delle macchine calcolatrici.
Le consolazioni che scaturiscono da questa consapevolezza storica sono così rinfrescanti da offuscare la consapevolezza della storia, ad esempio del fatto che «oggi ci sono… più martiri nella Chiesa che nei primi secoli» o che proprio le fondamenta di quella modernità laica e «razionale» di cui ci vantiamo poggiano sui cadaveri invendicati dei martiri.
Delle migliaia di religiosi e fedeli massacrati dalle truppe rivoluzionarie che portavano liberté e fraternité in Francia, quattrocentotrentanove sono venerati oggi come beati, per altri seicento è in corso il processo di canonizzazione.
Nelle loro vicende si ribadisce il monito delle Scritture, che tra Cesare e Dio può esserci sì una tregua, ma mai la pace
Per motivi non molto diversi, anche i credenti si tengono a buona distanza dall’esempio dei martiri. Non tanto per il (comprensibile) timore di condividerne i tormenti, ma più sostanzialmente perché nelle loro vicende si ribadisce il monito delle Scritture, che tra Cesare e Dio può esserci sì una tregua, ma mai la pace.
Nella palma dei martiri sfuma il sogno calvinista e borghese di una vita prospera in ragione della fede, ma anche la pretesa recente che la Chiesa e la comunità dei fedeli lavorino da pari a pari coi poteri civili per contribuire a un progetto «umanitario» globale. E che questa identità solidale di idee e di linguaggio sia essa stessa una prova di qualità, il pedigree di un Cristianesimo finalmente capace di archiviare le rigidità del passato per occupare il suo posto nel mondo: rispettato perché rispettoso, ossequiato perché ossequioso.
Tutto torna, tutto si riconcilia: «Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo». E pazienza se «poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15,18-19) e se «io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,14).
Dopo quella preghiera, la «giustizia» degli uomini avrebbe reclamato la morte dell’Agnello per salvare un brigante, primo di una serie di martirii destinati a ripetersi ovunque, con buona pace di chi immagina che la ferita aperta da Adamo si sia rimarginata – o caso fortunato! – nel suo metro quadrato di «mondo civile».
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Ha senso il martirio, ne vale pena?
Al netto delle debolezze umane, la risposta sembra facile: sì per chi crede che la terra sia un passaggio e una prova, no per chi non ci crede. Nella pratica è però più complesso, perché quasi mai il dispositivo del martirio si presenta coi contorni scolastici delle agiografie.
Rivolgendosi ai fedeli nel 2010, papa Ratzinger commentava che «a noi probabilmente non è richiesto il martirio, ma Gesù ci domanda la fedeltà nelle piccole cose».
«Il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che… si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore» Benedetto XVI
Solo una settimana dopo dava però una formulazione più ampia e convincente del concetto: «il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che… si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore».
Se lo intendiamo nel suo etimo (gr. μάρτυς, «testimone»), il martire è chi testimonia la precedenza delle leggi eterne nell’atto di rigettare le offerte dei poteri mondani che a quelle leggi si oppongono, fino al limite estremo della vita. Accettandone piuttosto i castighi, certifica la sua libertà e la loro impotenza, svela il fango di cui è fatta la loro moneta. Per i cristiani, riferisce ancora Giovanni, questa non è un’eventualità ma un destino: «Ricordatevi della parola che vi ho detto: un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). In gradi diversi, il martirio è una chiamata universale.
Assunta questa accezione più estesa, di una imitatio Crucis silloge di ogni singola vita, sorge allora il problema di discernere caso per caso se e quando sia saggio esporsi alle aggressioni delle gerarchie temporali per testimoniare un valore che le trascende, e quando il farlo non sia che una velleità.
Il problema è tanto più ingarbugliato dal fatto che oggi le questioni morali non si pongono quasi mai nei termini ultimi dei loro effetti escatologici o almeno esistenziali.
L’orizzonte ideale dei moderni si è sbarazzato di questi domini affinché tutto debba spiegarsi secondo funzionalità e razionalità e nulla resti fuori dal microscopio dello scienziato sociale. L’aborto è una questione di «diritti», la chiusura delle chiese di «igiene», la fornicazione di «benessere affettivo» eccetera.
Oggi nessuno si sognerebbe di infiggere in modo esplicito un’apostasia o un peccato: significherebbe elevarne la norma sottesa alla dignità di esistere.
Non perciò il sacro, ancorché dichiarato defunto, cessa di chiamarci a sé. Lo fa clandestinamente, si camuffa nel vocabolario profano e dal buio della coscienza partorisce i frutti deformi della bigotteria laica, la più fanatica di tutti i culti.
La fede nella scienza e nel mercato, l’astinenza dai propri diritti per il «bene comune», i tabù dei regimi sconfitti e di selezionate discriminazioni sociali, i sacrilegi del «negazionismo» e del «revisionismo» placano il bisogno di religione degli uomini e mettono fuori gioco l’eterno. Date queste condizioni, mancano proprio le premesse di un sacrificio «a carte scoperte». Tutto si gioca in metafora, tutto va tradotto e riassegnato a un lessico perduto.
In questa nebbia non è però impossibile orientarsi, lo si può anzi fare senza incertezze a patto che si inverta l’analisi e si allontani lo sguardo dal martire per fissarlo sui primi artefici della sua testimonianza. La faccenda del martirio è una classica proposta d’affari che si presenta nella variante sottrattiva del ricatto, dove cioè il proponente non offre del suo ma minaccia di togliere all’oblato qualcosa che già gli appartiene, avendo la facoltà di farlo.
Qui il bene conteso è la fede, il prezzo la vita. Ora, chi fissa quel prezzo? Il martire? No, il persecutore
Qui il bene conteso è la fede, il prezzo la vita. Ora, chi fissa quel prezzo? Il martire? No, il persecutore.
Chi stabilisce che la fede valga almeno – ma in realtà di più, perché ogni buon negoziatore cerca sempre di spuntare il prezzo più basso – tanto quanto la vita? Ancora, il persecutore.
Si può allora dire che il martire «scopre» il valore di ciò in cui crede proprio grazie a chi glielo insidia, come qualcuno scoprirebbe di possedere un tesoro grazie a chi gli offrisse milioni per averlo. Se è scorrettissimo sostenere che i martiri «danno» la vita per la fede (in quel caso sarebbero suicidi) è poco corretto anche attribuire loro l’esclusività della testimonianza. La certificano con l’esempio, è vero, ma non ne sono gli autori.
Il criterio è specialmente infallibile nelle trattative «al buio», quando cioè le intenzioni del proponente sembrano poco chiare o insincere.
In principio, un’offerta presentata in termini ricattatori segnala da un lato uno squilibrio di forze e una volontà di sopraffare che lasciano facilmente presagire chi trarrà vantaggio dall’affare, dall’altro l’impossibilità del proponente di ottenere ciò che desidera offrendo un bene proprio di valore comparabile.
Da qui si intuisce che la posta in gioco può essere ragionevolmente molto, molto più alta del dichiarato, anche senza sapere quanto e perché.
Così alta da non poter essere comprata nemmeno dai più ricchi di mezzi e di sostanze, non senza ricorrere alla forza. E quel sospetto non può che consolidarsi all’aumentare del prezzo «offerto» (cioè dell’entità del sottratto), fino a diventare certezza quando la sproporzione apparente tra i valori si fa grottesca e l’insistenza delle offerte ossessiva.
Quindi, ne vale la pena?
Evidentemente sì, perché quella pena è il valore, qualunque esso sia.
E a chi lo chiede impugnando la pistola dalla parte del calcio non si può che rispondere con le parole pronunciate nel sinedrio: «Tu l’hai detto». Non io.
Il Pedante
Articolo previamente apparso sul sito dell’autore.
Immagine di Sailko via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported (CC BY 3.0)