Essere genitori

Bambini a scuola, noi non dimentichiamo la follia dei tamponi

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Un lettore ci tiene a scriverci l’esperienze vissuta con il figlio a scuola.

 

Ci scrive che, nonostante le regole siano ora cambiate (beh, cambiano ogni settimana praticamente…) vuole che in qualche modo fissare per sempre questa follia.

 

Ha ragione, tendiamo a dimenticarci di queste pazzie abbiamo subito. Regioni colorate, coprifuoco… «la follia continua ad un tale ritmo che, essendo ancora dentro al frullatore, non abbiamo tempo ed energia per tenere a mente tutte le incongruità e le sofferenze che ci hanno inflitto».

 

Per i bambini, quindi, bisogna fare uno sforzo, e ricordare bene.

 

«A inizio dicembre nostro figlio di 7 anni resta a casa per via di un compagno di classe positivo. Parte l’attesa delle disposizioni del SISP (ora hanno cambiato le procedure e affidato al dirigente la gestione dei casi), che prevedono un tampone entro i primi 5 giorni dal contatto (“T0”) e un secondo tampone a 10 giorni».

 

Si tratta del famoso tampone di entrata e di uscita: se è positivo, entri nel tunnel burocratico, prima che in quello medico, del COVID; il tampone di uscita è quello che alla fine ti regala invece la «libertà».

 

Per le regole di allora, «se entrambi erano negativi si poteva rientrare a scuola, purché tutta la classe facesse i tamponi e siano negativi».

 

«In quei giorni il caos era tremendo, c’era l’esplosione dei contagi e file di ore nei centri tampone della ASL in tutta la provincia, perché i tamponi andavano fatti obbligatoriamente nei centri indicati e non ancora in farmacia».

 

Il problema è che, come abbiamo scritto a suo tempo, al potere costituito la faccenda è scappata di mano, e le strutture inventate nel biennio di allarme continuo non hanno retto all’apocalisse dei tamponi di fine 2021.

 

Il risultato è immaginabile.

 

«Per fare il tampone T0 mia moglie e mio figlio fecero oltre 4 ore di coda (alcuni compagni arrivarono a farne quasi 7, riuscendo solo verso le 22 a ottenere l’esito richiesto). Le mamme in coda si diedero da fare e organizzarono una spesa in un vicino supermercato».

 

Ci chiediamo la ratio sanitaria dietro a questa situazione: tenere delle persone diverse ore in un luogo dove c’è altissima probabilità di incontrare positivi, non significa favorire il contagio?

 

Il finale della storia del lettore, comunque, ha ancora più amarezza.

 

«Alla fine i bambini rimasero in DAD perché non tutti riuscirono a fare il tampone».

 

Che fine faranno tutte queste ore perse? Tutta questa fatica?

 

E le migliaia di euro spese da ciascuno per il compromesso dei  tamponi ogni 48 ore per lavorare, per poi vedersi sbattuto in faccia l’obbligo duro (mentre la stragrande maggioranza della popolazione, dicono, è sierizzata…)?

 

Che fine faranno tutte queste sofferenze?

 

Una cosa è certa: bisogna segnarle, sì. Ricordarle tutte, una per una, e scriverle per sempre. Perché chi non ricorda, è destinato a ripetere.

 

Se volete raccontarci le vostre storie, scriveteci.

 

Ognuno di noi ne ha di fastidiose o tremende.

 

La dignità di nessuno di noi è uscita intatta1 dalla demenza dello Stato pandemico.

 

 

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