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La Cina dietro alla separazione tra Grillo e Conte?

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La furiosa lite tra Giuseppe Conte, sedicente «leader in pectore» del Movimento 5 Stelle (pure, a quanto sappiamo, non essendone iscritto) e il cofondatore Beppe Grillo si sarebbe consumata a causa di questioni «estere».

 

Secondo un retroscena svelato da Repubblica, Conte non avrebbe accettato che il comico genovese si sia arrogato il diritto di essere «rappresentante internazionale del Movimento nel mondo». Come noto, il Grillo aveva incontrato – per la seconda volta dopo una visita nel novembre 2019, da cui uscì mostrano in pubblico una profetica mascherina facciale – l’ambasciatore cinese in Italia Lin Junhua, e l’incontro era avvenuto, molto simbolicamente, mentre in Cornovaglia Draghi vedeva Biden e gli altri leader del G7.

 

In modo goffo, girovagando disorientato o sterzando all’ultimo secondo, il Conte, nella speranza di divenire capo del partito grillino  senza farne parte, sta cercando di riposizionare in senso atlantista la sua posizione

A Conte hanno subito rinfacciato come risulti che all’incontro con l’ambasciatore del Dragone dovesse esserci anche lui, che poi si è sfilato all’ultimo per «impegni concomitanti»: una scusa talmente maldestra che qualcuno ci ha scherzato su, dicendo che «c’aveva judo».

 

Qualcuno sussurra: in modo goffo, girovagando disorientato o sterzando all’ultimo secondo, il Conte, nella speranza di divenire capo del partito grillino (ma un po’ di decoro, questi proprio non ce l’hanno?) senza farne parte, sta cercando di riposizionare in senso atlantista la sua posizione. L’operazione dovrebbe riuscire, ostacoli non ve ne sono: Di Maio, che non ci capisce moltissimo di politica estera (memorabile quando, da ministro, incontrò pubblicamente i capi dei Gilet Gialli) ma sappiamo che tiene agli equilibri; Di Battista, che si è messo in un lustro sabbatico per nutrire il suo terzomondismo turistico, è (per fortuna!) oramai fuori dai giochi.

 

A noi, tuttavia, affiorano alcuni ricordi. Nel 2019, ai tempi del Conte uno, l’Italia è l’unico Paese europeo ad aderire alla Belt and Road Initiative, il progetto cinese da trilioni di dollari di infrastrutture intercontinentali chiamato anche «nuova Via della Seta». A dare una mano, lo ricordiamo, anche l’allora sottosegretario MISE in quota leghista Michele Geraci.

 

Nel 2019, ai tempi del Conte uno, l’Italia è l’unico Paese europeo ad aderire alla Belt and Road Initiative, il progetto cinese da trilioni di dollari di infrastrutture intercontinentali chiamato anche «nuova Via della Seta».

Soprattutto, i capolavori filocinesi il Conte lo fece nel suo governo bis, proprio durante la pandemia venuta dalla Cina. Ricorderete, nel marzo 2020, il decreto «Cura Italia», che Renovatio 21 ribattezzò «decreto Cina Italia».

 

Indiscrezioni captate dal Corriere parlarono di uno stallo del decreto quando alcuni parlamentari PD filo-atlantisti si accorsero che dentro la legge erano nascosti possibili scorciatoie per dare l’impianto nazionale del 5G al miglior offerente, il cui nome non veniva fatto tuttavia era identificabile con una grande azienda di telecomunicazioni legata, come tutte le grandi aziende cinesi, allo Stato profondo pechinese.

 

«Nel governo iniziava un estenuante braccio di ferro (…) nel Pd anche il titolare dell’Economia Gualtieri e il capodelegazione Franceschini prendevano posizione, con Conte e Di Maio sull’altro fronte». scrisse il quotidiano di via Solferino. «Per ben due volte le norme volute dal ministro Pisano (assai vicina a Casaleggio) sono state al centro di una trattativa di revisione: l’ultima versione prevede che a gestire la gara sia un comitato tecnico insediato a Palazzo Chigi».

 

I capolavori filocinesi il Conte lo fece nel suo governo bis, proprio durante la pandemia venuta dalla Cina. Ricorderete, nel marzo 2020, il decreto «Cura Italia», che Renovatio 21 ribattezzò «decreto Cina Italia»

La scelta del fornitore della rete 5G non è cosa da poco: «Chi controlla il 5G, potrà controllare non solo la sicurezza nazionale, ma anche le informazioni private riguardo ai singoli cittadini» scriveva allora Renovatio 21.

 

Ma non si tratta solo di tecnologie di capitale importanza come il 5G. Da dove credete che vengano tutti quei monopattini elettrici (molti dei quali sono misteriosamente posseduti da orgogliosi immigrati teoricamente nullatenenti) pagati con i soldi del contribuente? Diremo di più: leggi e decreti riguardo la cosiddetta «micromobilità elettrica» fanno specifica menzione, tra i vari aggeggi infantili per i quali stanno bruciando le nostre tasse, di un veicolo particolare: il segway.

 

Ebbene, prima che un affare elettrico, il Segway è (o meglio, era) un brand: una marca. Creato nel 2009 in New Hampshire, nel 2015 Segway fu acquistato da Ninebot, megaditta pechinese specializzata in robotica di trasporto, attualmente fra i principali produttori dei dispositivi incentivati in circolazione.

 

Nel luglio del 2020 la Ninebot ha cessato la produzione del principale modello del Segway: no, grillini e compagni non riescono nemmeno ad essere aggiornati, del resto chi altro potevano trovarsi i cinesi, vista la propensione per i prodotti scadenti?

In pratica, l’Italia è riuscita a nominare in una legge un brand cinese. E poi dicono che lo scandalo fu quando Di Maio ricomprò dai cinesi le mascherine che aveva donato loro ad inizio pandemia… Con evidenza, in moltissimo non abbiamo capito quanto è radicato il problema

 

Ad ogni modo, nel luglio del 2020 la Ninebot ha cessato la produzione del principale modello del Segway: no, grillini e compagni non riescono nemmeno ad essere aggiornati, del resto chi altro potevano trovarsi i cinesi, vista la propensione per i prodotti scadenti?

 

 

 

 

 

 

Immagine di U.S. Department of State di pubblico dominio. Colori modificati

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