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La bacchetta di Conte («Direttorazzo, dirigi stoc…»)

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Prova d’orchestra è un capolavoro misconosciuto del genio di Federico Fellini. Incrocio tra una pellicola realista e un documentario fantasy, si tratta di uno dei film più metaforicamente icastici della storia del Cinema, portatore di una straordinaria lucidità storica e metastorica.

 

Nello spazio fatiscente di un vecchio oratorio sconsacrato, che custodisce le vestigia di un luminoso passato («era un antico oratorio sa… là ci sono le tombe di tre papi e sette vescovi…» introduce la voce del copista che apre la scena), sulle pareti affiorano tratti e colori di affreschi sbiaditi, proprio come in tanti palazzi e tante chiese delle nostre città grondanti memorie dei padri.

 

«Direttorazzo…»

 

I musicisti arrivano alla spicciolata mentre una troupe televisiva li riprende. Appartengono a una varia umanità tipicamente felliniana, ma condividono tutti, nella loro eccentricità, una propensione anarchica e contestatrice. Coalizzati contro il direttore teutonico, sono l’emblema di una società frammentata e sindacalizzata, non più disposta a riconoscere in alcun modo l’autorità.

 

La bacchetta magica è come l’anello di Sauron: dà potere ma genera dipendenza, e può corrompere l’animo di chi lo porta

Alcuni orchestrali facinorosi scrivono sul muro «Direttorazzo dirigi Stoc….» mentre tra lazzi, insubordinazioni e stonature, si avverte una serie inquietante di colpi che scuote l’edificio. Nessuno sa di cosa si tratti e nessuno in realtà, pur avvertendone il suono sinistro, se ne cura davvero.

 

Dopo i singoli musicisti, viene intervistato anche il direttore, che non a caso è un tedesco. Racconta di tollerare quella situazione assurda soltanto grazie alla compensazione dei lussi che si può concedere nella vita: auto sportive, viaggi, case all’estero, una perfino a Tokyo.

 

Ma poi la sua rassegnazione fa largo a una confessione tanto imprevista quanto struggente. Herr dirigent racconta della prima volta che è salito sul podio e ha alzato la bacchetta; «la musica dell’orchestra nasceva dalla mia mano» dice. Immagato dall’onnipotenza che può scaturire dall’esercizio dell’autorità con un movimento di braccia, descrive all’interlocutore una sensazione esaltante.

 

Alla fine del film, e all’apice della ribellione degli orchestrali, i colpi proseguono sino a produrre il crollo delle pareti. Fuori si vede il buio, la nebbia, il niente, insieme a un’enorme palla da demolizione in azione contro l’edificio.

 

Il caos nell’orchestra d’improvviso rientra. Tutti tornano immediatamente all’ordine. Tutti obbediscono ai comandi del direttore sui quali, sempre più urlati, sempre più tedeschi, partono i titoli di coda.

 

La sindrome del direttore d’orchestra

Il film ha una quarantina d’anni, ma può parlare anche oggi e anche a noi. Sospettiamo che Giuseppe Conte, eletto da nessuno e con una carriera clamorosamente controversa – basti ricordare quando gli attuali alleati piddini, e non solo loro, ne contestavano il curriculum («gravissimo taroccamento» ululava il deputato PD Michele Anzaldi al suo futuro amatissimo premier) – abbia trovato la sua bacchetta da direttore d’orchestra. E l’abbia sperimentata.

Alza la bacchetta, si crea la zona rossa. La rialza, l’Italia è bloccata. Un altro movimento in aria: milioni di persone recluse ai domiciliari

 

Alza la bacchetta, si crea la zona rossa. La rialza, l’Italia è bloccata. Un altro movimento in aria: milioni di persone recluse ai domiciliari. La sinfonia procede: crescendo di autocertificazioni, basso continuo di supermercati (leggi Coop: l’elettorato va accarezzato anche in emergenza), fiato alle librerie, e a chissà chi vince domani il permesso di lavorare al lotto governativo. 

 

Mentre l’Italia, ai suoi piedi, suona ciò che bacchetta comanda, il direttore, esaltato dal potere del suo braccio, è libero di inventarsi storie di fantasia, insultare gli avversari politici, straparlare di pasque in Egitto, ridurre il Parlamento all’insignificanza: può dire e fare tutto quello che gli passa per la testa. Scopre la sua onnipotenza, si accorge di essere un demiurgo e di poter creare a piacere la musica grazie all’obbedienza degli esecutori.

 

Qualcuno, giustamente, ha sottolineato la hybris di Colao e della sua accolita tecnototalitaria, che hanno avuto l’ardire di reclamare in via preventiva l’immunità per il proprio operato.

 

Ma merita ricordare che la pretesa, inaudita, non era inedita. Copiava quella incistata nelle pieghe di uno degli ultimi decreti della raffica che ha colpito i cittadini italiani in queste settimane di blackout democratico e costituzionale, il cosiddetto «Cura Italia»: le varie cariche istituzionali e amministrative, infatti, avevano già tentato di precostituirsi la propria intoccabilità di fronte alla legge dello Stato.

 

Legibus soluti: come il Re Sole, più che in qualsiasi teocrazia, peggio che nell’assolutismo antico, quando il popolo, almeno, poteva fisicamente riversarsi in strada imbracciando i forconi

Legibus soluti: come il Re Sole, più che in qualsiasi teocrazia, peggio che nell’assolutismo antico, quando il popolo, almeno, poteva fisicamente riversarsi in strada imbracciando i forconi.

 

A noi oggi, per decreto notturno, è impedito persino di uscire dalla porta di casa. Altrimenti arriva il drone, l’elicottero, il quad, la pattuglia. L’unica parola d’ordine capace di domare gli scagnozzi del potere, a partire dal 25 aprile, pare essere bellacciao. Ma non tutti riescono a pronunciarla. 

 

Superpoliziotti antivirali

Anche le pattuglie hanno avuto in dotazione la loro bacchettina e, vox populi, troppo spesso se ne sono lasciate prendere la mano.

 

Cittadini ligi e paganti – non parassiti o sovversivi – che per anni hanno visto lo spacciatore offrire la morte ai propri figli nel parco, le prostitute battere per la strada, l’immigrato bullo bivaccare in piazza, oggi sono presi di mira da chi avrebbe dovuto e dovrebbe proteggerli dai pericoli veri.

 

Cittadini ligi e paganti – non parassiti o sovversivi – che per anni hanno visto lo spacciatore offrire la morte ai propri figli nel parco, le prostitute battere per la strada, l’immigrato bullo bivaccare in piazza, oggi sono presi di mira da chi avrebbe dovuto e dovrebbe proteggerli dai pericoli veri.

La libera esegesi dell’ultimo decreto, attraverso il controllo dell’autocertificazione, dell’uso dei dispositivi prescritti, delle condizioni richieste per l’esercizio di libertà elementari, è diventato il mezzo per infierire sul suddito inerme e già fiaccato dal protrarsi di una innaturale detenzione da parte di chi, al riparo della divisa, pare quasi voler sfogare una carica punitiva repressa e dirompente.

 

Nessuno dei controllati può avere un’idea di come andrà a finire, alla faccia della certezza del diritto (quale diritto?). «Sei nelle mani di chi trovi davanti» dice un commercialista dal suo ufficio. «Devi dimostrare la necessità… io ho la necessità che se non vengo a prendere i codici in ufficio la gente non paga le tasse. Ma lo devi spiegare alla pattuglia».

 

C’è da temerla sempre, la sanzione, basta passare in rassegna i video, molti dei quali diventati virali, che si sono riversati sulla rete, percepita come l’unico ed estremo strumento di difesa utilizzabile per resistere in qualche modo ai soprusi dell’autorità. 

 

Almeno immortala i fatti, anche se a quanto pare non è in grado di sortire effetti deterrenti. Tanto che vien da chiedersi quale sia la causa prevalente del morbo che dilaga tra una parte delle forze dell’ordine, se l’arroganza, l’ignoranza, il sadismo.

 

È successo durante la Messa di Pasqua: la polizia è entrata in una piccola chiesa di provincia durante l’omelia trovando quattro fedeli a debita distanza l’uno dall’altro. Gli agenti hanno avuto la gentilezza di aspettare che la celebrazione finisse, poi hanno chiesto i documenti a tutti.

 

Il sacerdote ha esibito il decreto con le disposizioni sulle celebrazioni durante la Settimana Santa, dimostrando di esservisi attenuto con scrupolo. Una telefonata in centrale ed è scattata la grazia: niente multe, niente denunce, chissà se i poliziotti il decreto lo avevano letto.

 

Ad altri sacerdoti e ad altri fedeli non è andata altrettanto bene: nonostante il rispetto delle distanze di sicurezza, nonostante l’esercizio di ogni cautela prescritta, poliziotti armati irrompono in chiesa durante le messe, interrompono il celebrante, lo trattano come un delinquente comune, in evidente spregio al Dio in cui non credono e al codice penale a cui almeno dovrebbero obbedire.

I Cristeros iniziarono la rivolta contro il governo massonico di Calles per molto meno: il presidente messicano emanò un editto con cui pretendeva di decidere lui gli orari delle Messe

 

I Cristeros iniziarono la rivolta contro il governo massonico di Calles per molto meno: il presidente messicano emanò un editto con cui pretendeva di decidere lui gli orari delle Messe. Ma i contadini Cristeros non erano stati avvelenati dalle catechesi adulterate di una chiesa molle e invertita ed erano molti di più dei post-cristiani di un’Italia privata dell’attitudine al combattimento ed educata alla resa.

 

La bacchetta della pattuglia, a Pasquetta, si è esibita persino con i membri eletti del Parlamento. Vi sono almeno due i casi di parlamentari diretti a Roma fermati e presumibilmente interrogati, non si è capito se anche multati. Il Presidente del Senato ha censurato l’accaduto, ma ormai è più che un episodio, è una tendenza, quasi una gara di follia.

 

Italian Graffiti

La bacchetta magica è come l’anello di Sauron: dà potere ma genera dipendenza, e può corrompere l’animo di chi lo porta. Genera una sorta di sadico compiacimento l’esercizio dell’arbitrio verso chi si trova, inerme, in posizione subalterna.

Chi non vede come l’unica legittimazione del potere, protetto da uno strato di poliziotti armati, risieda solo nell’uso della forza e del ricatto?

 

Il paradosso è che, sopraffatti dall’ignoranza del diritto e travolti da un ebete empito egualitario, abbiamo cancellato l’immunità parlamentare per i rappresentanti democraticamente eletti del popolo italiano, ma ora pensiamo ad elargirla per coprire le scorribande annunciate di opachi consulenti tecnici investiti di superpoteri (i task-forzuti), oltre che a vantaggio degli arconti del MES e della Commissione Europea, legibus soluti in tutto il continente per succhiare il sangue dei popoli.

 

Chi ha ancora voglia di parlare di democrazia?

 

Chi ancora può resistere all’idea che i direttori d’orchestra, e coloro che ora dal podio si gustano lo spettacolo, come allo zoo, del cittadino in gabbia spogliato dei propri beni, dei propri diritti fondamentali e delle proprie sacre libertà – di muoversi, di riunirsi, di manifestare il proprio pensiero, di lavorare, di consentire ai trattamenti sanitari – siano i caporali di un enorme disegno totalitario giunto al suo drammatico epilogo?

 

Chi non vede come l’unica legittimazione del potere, protetto da uno strato di poliziotti armati, risieda solo nell’uso della forza e del ricatto?

 

Come nella pellicola felliniana, dobbiamo scriverlo sul muro della nuova società pandemica, prima che sia troppo tardi: «Direttorazzo dirigi st…».

E in questa trama paranoica e delirante, l’opposizione, dov’è? Dove sono rintanati i rappresentanti del popolo italiano?

 

Nel frattempo, la palla da demolizione bussa alle nostre pareti. A quale gru sia attaccata, chi l’abbia costruita e chi la stia azionando, lo possiamo immaginare, ma nemmeno ci interessa troppo.

 

Come nella pellicola felliniana, dobbiamo scriverlo sul muro della nuova società pandemica, prima che sia troppo tardi: «Direttorazzo dirigi st…».

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

 

 

Una versione di questo articolo era precedentemente apparsa su Ricognizioni

Immagine tratta dal film «Prova d’Orchestra» di Federico Fellini

 

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