Bioetica

In Inghilterra è possibile abortire fino al nono mese di gravidanza. E in Italia?

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Pubblichiamo l’intervento del collaboratore di Renovatio 21 Alfredo de Matteo alla Conferenza della giornata mondiale contro l’aborto organizzata da alcune organizzazioni lo scorso 8 settembre.

 

Buonasera, grazie per l’invito e grazie a tutti voi che siete giunti numerosi a questa IV giornata mondiale contro l’aborto.

 

Come voi già saprete il parlamento britannico ha approvato la depenalizzazione dell’aborto per le donne in Inghilterra e Galles. Il cambiamento riguarda la fine delle sanzioni penali nei confronti di chi interrompe autonomamente la gravidanza, anche oltre il limite di 24 settimane previsto dalla legge, grazie a un emendamento votato il 17 giugno 2025.

 

Tale cambiamento normativo è arrivato dopo diversi casi di donne arrestate o indagate per aborto che si erano trovate in situazioni di difficoltà, come nel caso di una donna inglese che è stata accusata e poi assolta per aver abortito oltre il tempo previsto dalla legge durante il lockdown sanitario.

 

Ora, al di là del fatto evidente di come il sistema sfrutti i casi particolari o pietosi per introdurre l’aborto o per allargarne le maglie (modus operandi classico anche in Italia) è altrettanto ovvio come la depenalizzazione dell’aborto clandestino sia il naturale approdo di una sistema normativo che considera l’aborto alla stregua di un diritto.

 

Del resto, i limiti temporali e procedurali imposti dai diversi paesi che hanno legalizzato tale abominevole pratica costituiscono dei «paletti» messi lì giusto per
disumanizzare il feto, il quale prima di un determinato limite temporale non è di fatto considerato un essere umano dalla legge (anzi, una persona, come vedremo meglio in seguito), mentre subito dopo sì, anzi , dato che i suoi diritti sono comunque subordinati a quelli della donna che lo porta in grembo far credere che l’aborto non sia considerato dal legislatore come un diritto della donna bensì come una opzione in caso di gravidanze “difficili”, quindi solo come extrema ratio.

 

È pertanto naturale, logico, inevitabile che questi pseudo paletti vengano prima o poi superati: quale differenza sostanziale ci può essere tra una donna che abortisce alla 22a o alla 25ª settimana di gestazione? E soprattutto: è possibile considerare un reato perseguibile l’atto che la donna avrebbe potuto compiere, legalmente e a spese dello stato, solo qualche giorno o settimana prima del termine stabilito dalla legge?

 

Non a caso infatti in Inghilterra continueranno ad essere perseguiti penalmente solamente i medici che effettueranno gli aborti al di fuori dei criteri stabiliti dalla legge, oppure i partner che non hanno rispettato l’autodeterminazione della madre del bambino, proprio per rimarcare il fatto che l’unico soggetto da tutelare (si fa per dire) è sempre e comunque la donna, mai il bambino che deve nascere.

La verità sulla 194: aborto fino al nono mese - Alfredo De Matteo

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Ma com’è la situazione nel nostro Paese? Fino a che età gestazionale è possibile abortire in Italia?

 

In Italia il reato di aborto è stato depenalizzato quasi dieci anni fa. Ebbene sì, con il decreto legislativo n 8 del 15 gennaio 2016 una serie di reati puniti con la sola pena della multa e dell’ammenda sono stati considerati meri illeciti amministrativi. Tra queste violazioni rientra anche l’aborto clandestino, previsto ai sensi del secondo comma dell’articolo 19 della legge n. 194 del 1978, che prevedeva una multa fino a 51 euro.

 

Con l’entrata in vigore di tale decreto le donne che abortiscono clandestinamente entro novanta giorni dalla gestazione sono condannate al pagamento di una multa da un minimo di 5.000 a un massimo di 10.000 euro. Lo stesso decreto prevede la cancellazione del reato penale per la donna che abortisce oltre novanta giorni dalla gestazione che era punito con la reclusione fino a sei mesi. La cosa curiosa è che tale provvedimento invece di far felici le femministe le ha rese furiose a causa del considerevole aumento delle multe.

 

In ogni caso, è un dato di fatto che in Italia si può abortire fino al nono mese di gravidanza senza subire alcun procedimento penale. E da quasi dieci anni …

 

Ad ogni modo, fino a quando è possibile abortire legalmente in Italia? Quali sono le indicazioni contenute nella sciagurata legge 194, che da quasi cinquant’anni sta decimando la popolazione italiana?

 

Qualcuno potrebbe chiedersi che senso abbia analizzare una norma che ha quasi mezzo secolo e che tutti noi conosciamo.

 

Dobbiamo renderci conto che questa legge infame non è solo ingiusta e omicida ma è profondamente satanica: essa sembra essere stata pensata e scritta direttamente dal demonio, o meglio da chi aveva un filo diretto con l’inquilino del piano di sotto. Perché dico questo? Perché la 194 è un capolavoro di ipocrisia, un castello di menzogne talmente ben costruito che ha tratto in inganno molte persone ma che soprattutto ha consentito ai falsi prolife di condurre la battaglia per la difesa della vita innocente verso un binario morto. (Poi vedremo come)

 

Innanzitutto, c’è da dire che la 194 non è apparsa così all’improvviso, dal nulla, ma è stata preceduta da alcuni eventi di natura giuridica e sociale che le hanno preparato il terreno: il più importante è rappresentato dalla sentenza della Corte Costituzionale n 27 del 1975 che ha giocato un ruolo decisivo nella futura regolamentazione dell’aborto in Italia: in sostanza la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’articolo 54 del codice penale, nella parte in cui puniva l’aborto anche quando la gravidanza comportava un grave danno alla salute della donna e in più operò una fittizia distinzione tra essere umano e persona dotata di coscienza. Sarebbe interessante analizzarla nel dettaglio ma purtroppo non ne abbiamo il tempo.

 

Passiamo quindi subito a vedere in che modo e con quali astuzie ed escamotage gli estensori della 194 abbiano utilizzato i cambiamenti in atto per scardinare completamente l’ordine naturale e, soprattutto, canalizzare il dissenso.

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La 194 si compone di più articoli. Nella parte introduttiva essa tende a mostrare un’anima positiva e garantista che però è destinata a rimanere lettera morta. Infatti il corpo normativo centrale, il nucleo omicida, risulta in netto contrasto con quanto si afferma solennemente nel preambolo e nell’articolo 1. Questo per due motivi principali: primo, perché all’epoca la questione aborto era molto dibattuta e le tensioni sociali molto forti; era pertanto opportuno dare l’immagine di una legge “equilibrata” che mirasse essenzialmente ad operare una sorta di bilanciamento tra i diritti del nascituro e quelli della madre e che non consentisse, almeno all’apparenza, l’aborto a semplice richiesta; secondo, perché tale formulazione è servita per canalizzare il dissenso, portandolo ad un’accettazione sostanziale della legge.

 

Quante volte abbiamo sentito autorevoli esponenti del mondo prolife e purtroppo anche alti prelati giudicare la legge 194 in maniera benevola o quantomeno non del tutto negativamente: è una buona legge da applicare meglio; una norma che va applicata integralmente anche nella sua parte preventiva; la legge 194 non contempla il diritto di aborto; è possibile abortire solo per seri motivi, etc.

 

Una legge pensata per uccidere i bambini con l’aborto viene descritta come una norma che anzitutto tutela (socialmente) la maternità, quando evidentemente sta lì per fare esattamente il contrario, ossia per svilirla e attaccarla.

Articolo 1

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.

 

Avete capito bene, la 194 non solo riconoscerebbe il valore sociale della maternità ma tutelerebbe anche la vita umana dal suo inizio. Quale inizio? Dal concepimento o dalla nascita? Eppoi, cosa c’entra con le finalità di una legge pensata per eliminare l’innocente? E’ un po’ come se un’ipotetica norma che introducesse la pena di morte avesse come obiettivo quello di tutelare la vita fino al suo termine naturale…

 

Anche la sibillina affermazione secondo cui, secondo il dettato della 194, l’aborto non sarebbe mezzo per il controllo delle nascite è una colossale presa in giro, dal momento che, come vedremo ora, la 194 permette l’aborto a semplice richiesta, e quindi tale pratica può essere utilizzata dalla donna anche ai fini della limitazione delle nascite, o addirittura proprio per quello. Infatti, le statistiche ci dicono che la donna tipo che accede all’aborto ha già dei figli.

 

Ma veniamo al nucleo omicida: negli articoli 4 e 6 il legislatore elenca le condizioni necessarie affinché la donna possa accedere all’aborto. Dall’analisi del testo si evince chiaramente come i presunti paletti siano del tutto evanescenti e privi di effettiva efficacia. Infatti, la gamma di motivazioni adducibili è talmente ampia da tendere all’infinito.

 

Articolo 4

Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.

 

Dunque la donna può abortire per qualunque motivo entro i novanta giorni. Ma anche oltre tale termine accedere alla pratica abortiva è piuttosto semplice perché l’accento non è mai posto sul bambino che deve nascere ma sempre e comunque sulla salute della donna

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Articolo 6

L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

 

La fattispecie indicata dal legislatore al punto b si riferisce ad un pericolo per la salute psico-fisica della donna determinata da malattie che pur non costituendo un pericolo per la sua vita, possono essere scarsamente tollerabili a causa della gravidanza (per esempio asma bronchiale cronica o diabete), oppure dalla documentata presenza di anomalie o malformazioni fetali.

 

Quindi in realtà dopo i 90 giorni di gestazione la donna può abortire anche in presenza di lievi malformazioni che possono essere riscontrate nel nascituro (attraverso diagnosi solo presunte, visto che non di rado esse risultano poi errate), come ad esempio la sindrome del labbro leporino che può essere facilmente corretta chirurgicamente. Proprio perché il fatto che tali «difetti» debbano essere rilevanti non è riferito al bambino ma alla madre. Cioè devono essere rilevanti per lei, per la sua salute mentale. A riprova del fatto che per la legge 194 il soggetto da tutelare è solamente colei che è già persona e non colui che ancora lo deve diventare (come suggerito dalla corte costituzionale)

 

Ma c’è un limite preciso oltre il quale non è possibile abortire? In realtà, no.

 

Articolo 7

Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

 

La possibilità di vita autonoma del feto, non rappresenta un criterio oggettivo, dipendendo tra l’altro dallo stato di avanzamento delle tecniche rianimatorie, mutevole nel tempo.  Anni fa la regione Lombardia fissò tale limite a 22,3 settimane. È abbastanza ovvio quindi come le maglie interpretative siano piuttosto larghe e la decisione di procedere con l’aborto, in definitiva, affidata alla discrezionalità del medico-boia.

 

Per quanto riguarda poi l’ipocrita dovere di salvaguardare la vita del bambino che si sta uccidendo con l’aborto sono significative le conclusioni a cui arriva il primario di un ospedale milanese:

 

«È chiaro che come medici dobbiamo salvare la vita, indipendentemente dall’età gestazionale o dall’handicap che si profila, ed è altrettanto chiaro che l’intervento abortivo è traumatico per il feto: il punto è che quando succede, non lo si dichiara: conoscendo il desiderio della mamma, la maggior parte dei medici non fa nulla, anche se la legge dice che si deve rianimare sempre».

A proposito della nauseante ipocrisia della 194, di cui parlavamo prima.

 

Passiamo ora agli articoli della legge (2 e 5) che imporrebbero alle strutture pubbliche e in particolare ai consultori il dovere di aiutare le donne in difficoltà e di cercare di indurle a non abortire.

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Articolo 2

I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:
d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza. I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.

 

In realtà il compito affidato ai consultori pubblici è nella pratica difficilmente attuabile. Non desta sorpresa che gli articoli di legge dedicati alla prevenzione dell’aborto abbiano avuto poca o nulla efficacia, non già perché ne è stata disattesa l’applicazione, come afferma parte del mondo prolife, bensì in quanto strutturalmente deboli, perché inseriti all’interno di un sistema normativa complessivamente ostile alla vita e che da carta bianca alla donna.

 

Tra l’altro, come possono i consultori aiutare la donna a superare le cause che potrebbero indurre la donna ad abortire se la legge non prevede alcun controllo dei motivi addotti dalla donna e di conseguenza il personale medico non ha alcun potere-dovere né di accertarne l’effettiva esistenza né di conoscerli?

 

Passiamo ora a trattare, molto velocemente, il tema dell’obiezione di coscienza, normato dalla legge 194.

 

Si è parlato tanto ultimamente di questo tema in relazione al caso della Sicilia dove la giunta regionale ha indetto un bando per soli medici non obiettori, visto che la percentuale di medici obiettori in Sicilia è molto alta.

 

Come saprete il governo della Meloni ha impugnato il provvedimento perché sarebbe incostituzionale. Ora, non sono un giurista quindi non voglio entrare nel merito della questione. Tuttavia, sembra evidente, a mio giudizio, come il provvedimento della giunta siciliana sia del tutto coerente con l’impianto normativo della legge 194 che tra le altre cose non tutela affatto l’obiezione di coscienza ma la limita a determinate condizioni

 

Articolo 9

L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento.

 

Dalla lettura dell’articolo 9 si evince chiaramente come il medico non possa far valere pienamente il suo diritto ad opporsi alla pratica abortiva. E l’obiezione di coscienza o è totale oppure non è, in quanto il divieto di uccidere deliberatamente un essere umano e di partecipare anche solo indirettamente all’atto abortivo è assoluto, non negoziabile, in quanto si fonda sulla legge naturale. Non è una semplice opzione insomma.

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Bisogna anche tenere conto del fatto che il diritto all’obiezione di coscienza si scontra con quello all’autodeterminazione, sancito dalla 194; dunque uno tende ad escludere l’altro. E se le regioni hanno percentuali di obiezione molto alti che possono anche solo potenzialmente limitare il diritto all’aborto, esse possono ricorrere, a mio giudizio del tutto coerentemente col dettato della legge 194, anche a concorsi istituiti ad hoc per soli medici non obiettori. Già perché è la stessa legge 194 che impone alle regioni il dovere di assicurare in ogni caso l’erogazione del «servizio».

 

Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.

 

Molti di voi sanno che sono stato molto critico con la proposta di legge Un cuore che batte, in quanto con essa, checché se ne dica, si prefigura di fatto una collaborazione illecita con una norma ingiusta.

 

Ora, senza entrare di nuovo nel merito, voglio condividere con voi un commento che è stato postato sotto uno dei miei articoli di critica al Cuore che batte. Un lettore ha scritto: «io con quella legge non voglio avere niente a che fare»

 

Semplice, lapidario, ineccepibile. Ed è questo lo spirito che deve animare tutti noi.

 

Grazie a tutti dell’attenzione.

 

Alfredo De Matteo

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