Epidemie

I carcerati di Hong Kong fanno mascherine. I carcerati italiani rivolte. Mentre i mafiosi escono

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«Quando arrivò la notizia che un nuovo pericoloso virus stava uccidendo persone nella Cina continentale, la gente di Hong Kong entrò in azione. Praticamente durante la notte, le scuole sono state chiuse, i manifesti sono apparsi in giro per la città per ricordare ai residenti di lavarsi le mani, e apparentemente tutti nella strada indossavano una maschera» scrive il New York Times.

 

Mentre l’Occidente discuteva sull’efficacia delle maschere, oppure le regalava al governo di Pechino come ha fatto l’Italia di Di Maio, i residenti di Hong Kong, colpiti dall’epidemia di SARS 17 anni fa, agivano. Nei mesi dall’inizio della pandemia, solo quattro persone a Hong Kong, una città di 7,5 milioni, sono morte a causa di Covid-19.  Almeno queste sono le cifre ufficiali.

 

Milioni di maschere chirurgiche di Hong Kong sono prodotte da prigionieri, alcuni dei quali hanno lavorato a tarda notte per pochi centesimi dal momento dell’epidemia

«Dietro le onnipresenti maschere c’è una verità che non tutti sanno qui. Milioni di maschere chirurgiche di Hong Kong sono prodotte da prigionieri, alcuni dei quali hanno lavorato a tarda notte per pochi centesimi dal momento dell’epidemia» scrive il giornale americano, con chiaro intento critico. «La prigione di media sicurezza di Lo Wu, situata vicino al confine con la terraferma, ha sfornato maschere 24 ore al giorno da febbraio, quando il governo di Hong Kong ha aumentato la produzione per rifornire l’esercito della città di operatori sanitari e infermeriei. Lavorando 24 ore su 24, i detenuti, insieme agli ufficiali di correzione pensionati e fuori servizio che offrono volontariamente il loro tempo, ora producono 2,5 milioni di maschere al mese, rispetto a 1,1 milioni prima dello scoppio».

 

Noi invece plaudiamo a questa soluzione. I carcerati vanno strappati all’ozio, al senso di inutilità nei confronti  della società esterna: perché questo crea disperazione e violenza, cioè l’esatto contrario della rieducazione e della punizione per cui esisterebbe il carcere.
Per uno Stato dove il contribuente privato è ora a rischio totale di fallimento, le carceri dove i detenuti non fanno nulla è un lusso demente che nessuno dovrebbe permettersi

 

Al contempo, ricordiamoci sempre che i carcerati sono un peso economico non indifferente per lo Stato. Per uno Stato dove il contribuente privato è ora a rischio totale di fallimento, le carceri dove i detenuti non fanno nulla è un lusso demente che nessuno dovrebbe permettersi.

 

In Italia il lavoro carcerario è permesso, ma è complicato. Perché, abbiamo sentito tempo fa in una trasmissione TV RAI, «che il lavoro va pagato è previsto dalla Costituzione». Giustissimo, se non che i carcerati a loro volta devono «pagare il debito con la società», come si diceva una volta, e invece sono un costo. Giustissimo, richiamarsi alla Costituzione più bella del mondo, poi:  è quella violata ripetutamente dal lockdown pandemico.

 

È difficile pensare il contrario ora: il lavoro dei carcerati – per fare mascherine, respiratori, per rimettere in piedi i ponti che crollano, o farne di nuovi – dovrebbero essere parte integrante del disegno di ricostruzione dello Stato italiano.

 

La popolazione carceraria italiana a differenza di quella di Hong Kong non ha fatto mascherine, ma rivolte

Invece, come abbiamo notato mesi fa ancora, la popolazione carceraria italiana a differenza di quella di Hong Kong non ha fatto mascherine, ma rivolte: perfettamente sincronizzate, con danni enormi, incendi, una dozzina di morti e evasioni multiple, tra cui quella di almeno un pericoloso condannato per omicidio.

 

Avevano fiutato la debolezza del loro carceriere, lo Stato, e hanno messo in piedi la trattativa: «indulto» recitava lo striscione issato sopra il tetto di San Vittore da alcuni carcerati dall’apparenza levantina. I risultati sono arrivati: massive scarcerazione per paura del COVID-19, un «indulto mascherato» lo hanno chiamati i critici che non hanno mancato di notare la mancanza di braccialetti elettronici per i domiciliari – gli stessi braccialetti che ora task force e giornaloni vorrebbero vedere alle caviglie di chiunque non scarichi l’app di tracciamento.

 

I Boss escono dal carcere: il COVID sta infettando anche l’ultimo bastione dell’ethos dell’Italia moderna, la famigerata «lotta alla mafia»

Ad uscire hanno cominciato anche i boss, quelli le cui catture avevano rimepito giornali e telegiornali, con concerto di pacche sulle spalle tra ministri e dirigenti ministeriali. Sì, il COVID sta infettando anche l’ultimo bastione dell’ethos dell’Italia moderna, la famigerata «lotta alla mafia».
Questo capolavoro due giorni fa ha prodotto  la memorabile reazione del Ministro di Giustizia:  «Il ministro Bonafede, subito dopo le scarcerazioni di Bonura e di Zagaria, con dei post su Facebook, ha ribadito l’impegno del governo nella lotta alla mafia e ha negato qualsiasi responsabilità e voce in capitolo sulle decisioni di mandare i boss ai domiciliari» scrive Repubblica.

 

Il boss  della Camorra Pasquale Zagaria è fuori: «È un fatto che oggi Zagaria, detto Bin Laden, è ai domiciliari con la moglie a Brescia». Si starebbe discutendo sui domiciliari a Raffaele Cutolo,  detto «Don Rafè», altro grande capo della Mala campana, dietro alle sbarre da 40 anni.

Quale futuro può darci uno Stato che non sa né punire, né ricostruire?

 

Quale senso di protezione al comune cittadino può offrire lo Stato italiano in questo momento?

 

Quale futuro può darci uno Stato che non sa né punire, né ricostruire?

 

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