Utero in affitto

Donne cambogiane che affittano l’utero costrette a tenersi e crescere il bambino

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La Cambogia è diventata una destinazione popolare per la maternità surrogata – cioè, tecnicamente, l’utero in affitto – dopo le turbolenze che la pratica disumana ha subito dai sistemi legali di altri Paesi asiatici quasi un decennio fa. Gli stranieri si sono riversati nelle cliniche per la fertilità e nelle agenzie di maternità surrogata di nuova apertura nella capitale cambogiana Phnom Penh. Ora l’evoluzione della situazione nel Paese del Sud-Est asiatico ha portato a rivolgimenti importanti, come sottolineato da un’inchiesta del New York Times.

 

«La pratica è legale – e spesso proibitivamente costosa – in alcuni Paesi, mentre altri l’hanno messa al bando» scrive il NYT. «Altre nazioni ancora con sistemi legali deboli, come la Cambogia, hanno consentito ai mercati grigi di operare, mettendo in pericolo le persone coinvolte quando le condizioni politiche cambiano improvvisamente e seguono i casi penali».

 

Con il fiorire dell’industria in Cambogia, il governo ha imposto un divieto alla maternità surrogata, promettendo di approvare una legislazione che la mettesse ufficialmente al bando. «L’ingiunzione mal definita, imposta in un Paese pieno di corruzione e con scarso stato di diritto, ha finito per punire proprio le donne che il governo aveva promesso di salvaguardare» accusa il giornale di Nuova York. «In un Paese povero a lungo utilizzato come parco giochi da predatori stranieri – pedofili, turisti sessuali, capi di fabbrica, contrabbandieri di antiquariato e, sì, trafficanti di esseri umani – le autorità cambogiane hanno affermato di essere alla ricerca di sfruttamento», tuttavia ora, secondo il giornalista, il governo cambogiano è finito «per punire proprio le donne che il governo aveva promesso di salvaguardare».

 

È stata così applicata una legge sul traffico di esseri umani all’utero in affitto, e implementato un raid con arresti nel 2018. Donne e impiegati delle «agenzie» affitta-uteri sono stati condannati per traffico di bambini.

 

Tuttavia, le loro condanne, due anni dopo, sono arrivate con una condizione: in cambio della sospensione della pena detentiva, le madri surrogate avrebbero dovuto allevare i bambini da sole. Se le donne tentassero segretamente di consegnare i bambini ai futuri genitori, aveva avvertito il giudice, sarebbero state mandate in prigione per molti anni.

 

Il giornale, che tifa per l’affitto di uteri, ovviamente, offre un’interessante sguardo sui meccanismi interni di questa indicibile forma di sfruttamento, vero colonialismo biologico del XXI secolo.

 

Uno «scout» presso la fabbrica di abbigliamento dove lavorava una delle signore intervistate dal NYT, la nota e le dice che potrebbe guadagnare 9.000 dollari, cioè circa cinque volte il suo stipendio base annuale, affittando il suo utero.

 

Fuori dalla capitale, è noto a molti, esistono imponenti case di cemento, che si diceva fossero state costruite con pagamenti per maternità surrogata. Tali palazzi si differenziano non poco dalle baracche di bambù nelle quali vive molta della popolazione locale.

 

Lo scout era collegato a un’agenzia gestita localmente da un uomo cinese e sua moglie cambogiana. Sua sorella gestiva ville di lusso dove alloggiavano le madri surrogate.

 

«Otto surrogate che hanno parlato con il New York Times hanno descritto lampadari, aria condizionata e servizi igienici con sciacquone nelle ville, nessuno dei quali si è goduto a casa. I loro pasti erano abbondanti. Le donne sognavano i soldi che avrebbero guadagnato. Erano anche entusiaste all’idea di fornire un servizio di cui avevano un disperato bisogno».

 

La maggior parte dei bambini cinesi portati in grembo dalle affittatrici di uteri cambogiane sono maschi. La selezione del sesso è vietata in Cina, ma non in Cambogia. La maternità surrogata commerciale non è praticata apertamente in Cina, nonostante la preoccupazione ufficiale per il crollo del tasso di natalità del Paese dopo decenni di politica del figlio unico applicata brutalmente.

 

 

È riportato quindi il caso del «signor Xu, un prospero uomo d’affari della città cinese meridionale di Shenzhen», abbinato ad una delle surrogate di cui si racconta la tragica storia. «L’unica cosa che gli mancava, ha detto agli amici che hanno parlato col Times, era un figlio per continuare la linea familiare».

 

«Nella testimonianza del tribunale cambogiano, il signor Xu ha detto che sua moglie non poteva avere un figlio. Ma gli amici del signor Xu, che hanno parlato a condizione di anonimato per paura di inimicarsi le autorità cambogiane, hanno detto che la sua situazione era più complicata: non aveva moglie ed era aperto sul fatto di essere gay». La cosa sarebbe confermata anche dalla donna cambogiana che portava in grembo suo figlio. Di fatto, «le coppie LGBTQ non possono adottare in Cina e ai gay o ai single è preclusa la maternità surrogata nella maggior Parte dei paesi in cui tale pratica è legale».

 

Salta quindi fuori «un’agenzia di maternità surrogata registrata nelle Isole Vergini britanniche, ha mostrato una rara simpatia per i genitori LGBTQ, promettendo bambini attraverso la Cambogia, il Messico e gli Stati Uniti. Il sito Web dell’azienda è illustrato con foto di coppie dello stesso sesso che cullano bambini». Il fondatore di tale agenzia anche lui «è apertamente gay» e «ha detto che gli avvocati cambogiani gli hanno assicurato che la sua agenzia era legale».

 

«Era un’operazione multinazionale che attraversava i continenti». Il fondatore dell’agenzia, gay e con un cognome cinese, «ha collaborato con una clinica per la fertilità a Phnom Penh gestita da un vietnamita. Lì, uno specialista tedesco della fertilità ha formato medici cambogiani. Un esperto di logistica indiano è arrivato con ovuli raccolti da donatrici».

 

Il signor Xu avrebbe firmato con l’agenzia di maternità surrogata un contratto per 75 mila dollari, dice il NYT indicando documenti che avrebbe esaminato.

 

Il signor Xu ha quindi fatto visita alla sua surrogata «nella villa di lusso. Le disse che la donatrice di ovociti era una modella russa». Più tardi, lo Xu avrebbe mostrato alla surrogata e a suo marito «le fotografie di una donna bianca con i capelli mossi in piedi accanto a un’auto sportiva».

 

Ecco che, di colpo, la cosa si colora delle tinte dell’eugenetica, ma per chi conosce l’ambiente non è un segreto. Sulle selezioni di ovociti le ucraine vanno forte. Se c’è bisogno degli spermatozoi per la fecondazione in vitro, sappiamo che i danesi hanno la primazia (finalmente abbiamo capito cosa sanno fare, a parte il LEGO). Colpisce che il fascino del poster da Hitlerjugend, la gioventù hitleriana di biondi dolicocefali occhiocerulei ariani, finisca nei desideri anche degli omosessuali cinesi che affittano uteri in Cambogia…

 

Il fondatore dell’agenzia ha spiegato al giornale che «molti dei suoi donatori di ovuli provenivano dalla Russia, dall’Ucraina e dal Sudafrica. I padri designati erano cinesi e molti erano gay».

 

L’operazione di polizia del luglio 2018 con la quale le autorità cambogiane arrestarono le affittatrici di uteri e i loro gestori ha fatto seguito a un giro di vite a livello regionale sulla maternità surrogata commerciale. Tre anni prima, la Tailandia aveva vietato la pratica per gli stranieri, chiudendo un’alternativa più economica alla maternità surrogata in Occidente, dove arriva a costare più di 150.000 dollari.

 

Due casi avevano spaventato le autorità tailandesi. Uno riguardava una coppia australiana accusata di aver rifiutato un bambino con sindrome di Down. Un giudice in Australia ha successivamente scoperto che la coppia non aveva abbandonato il bambino; il ragazzo è rimasto in Tailandia, con la madre surrogata.

 

L’altro caso ha sollevato preoccupazioni per il traffico di bambini dopo che un uomo giapponese ha generato almeno 16 bambini da uteri tailandesi affittati. Un tribunale tailandese alla fine ha concesso all’uomo la custodia della maggior parte dei bambini dopo che ha detto che voleva una famiglia numerosa.

 

«Anche l’India e il Nepal hanno limitato la maternità surrogata per i non cittadini. In molti di questi casi, i politici hanno parlato della santità del legame materno e della purezza delle donne asiatiche» scrive amaro il NYT. Di lì, l’ascesa della Cambogia come meta internazionale per la surrogazione della maternità. Da notare che in Cambogia vi era già stato il caso della legge che proibiva la vendita internazionale di latte materno: a quanto pare, c’era anche questo commercio sul menu del Paese martoriato dall’inferno dei Khmer rossi.

 

Alla fine del 2016, il Ministero della Salute cambogiano aveva annunciato il divieto della maternità surrogata, ma lo aveva fatto senza adottare una nuova legislazione che la renda un reato. Nello spazio grigio risultante, le cliniche per la fertilità e le agenzie di maternità surrogata hanno continuato ad aprirsi. L’anno successivo, iniziarono le incursioni: un’infermiera australiana e due membri del personale cambogiano di una clinica per la fertilità che lavorava con madri surrogate sono stati condannati per traffico di esseri umani.

 

Il governo ha ordinato ad un ente di beneficenza cristiano, fondato dagli americani per combattere il traffico sessuale di minori, di controllare le donne dopo il parto. Alcune madri surrogate hanno detto che dovevano anche presentarsi alla stazione di polizia, bambini al seguito.

 

Tuttavia, sostiene il fondatore dell’agenzia (che non si trovava in Cambogia al momento del raid della polizia), nonostante le promesse dei surrogati alla corte che avrebbero allevato i bambini, un buon numero di bambini non è più in Cambogia e si è unito ai genitori cinesi.

 

Nonostante la legge e la polizia, insomma, c’è stata la delivery: il prodotto è stato consegnato.

 

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Immagine di Fusione via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported (CC BY 3.0)

 

 

 

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