Pensiero

Don Milani disprezzava il lavoro fisico

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Su Don Milani Renovatio 21 pubblicò un articolo assai completo anni addietro – «La maledizione di Don Milani», quando uno strano scandalo – quello per cui venne tacciato pubblicamente in un libro di tendenze pedofile – montò sui giornali per poi spegnersi tra mille contraddizioni, mentre Bergoglio stesso si preparava a rendere omaggio alla tomba del controverso prete fiorentino. L’amico Stefano Borselli ci manda questo articolo, pubblicato tempo fa sulla meritoria rivista Il Covile, che aggiunge un dettaglio sconosciuto in questa figura deteriore che ancora tanto spazio ha nel Paese (pensate a quando, ad un grande comizio, lo citò Salvini…). Don Milani, signorino della Firenze-bene, detestava il lavoro fisico. Radical chic, con tendenze perverse e dandysmo latente ovunque si trovi – von c’è che dire, l’icona ideale della sinistra attuale. Vale la pena di leggere e meditare queste parole, e comprendere fino in fondo chi fosse Don Milani. Perché, come scrivevamo infine al vecchio articolo, «la maledizione di Don Milani è su tutti noi».

 

 

«Un operaio dopo ore di esercizio fisico ha bisogno di ricrearsi con un po’ di lavoro intellettuale. Di ritornare un po’ uomo con lo studio e non di conservarsi con una sterile ricreazione quella bestia che è diventato col lavoro fisico»

Qualche tempo fa, scorrendo un sito dedicato a don Milani, mi sono imbattuto in queste sue parole, tratte da Esperienze pastorali (il corsivo è mio):

 

«In genere coloro che difendono i ricreatori parrocchiali considerano apodittico che la ricreazione sia in sé stessa necessità fisiologica. Io penso che questo preconcetto sia nato tra educatori che avevano dinanzi agli occhi studenti e poi supinamente trasferito sugli operai. Questo trasferimento non mi pare valido. Ammettiamo pure che lo studente dopo ore di lavoro intellettuale, abbia bisogno di un po’ di esercizio fisico. Ma allora ritorco l’argomento: l’equivalente per un operaio è che dopo ore di esercizio fisico egli ha bisogno di ricrearsi con un po’ di lavoro intellettuale. Di ritornare un po’ uomo con lo studio e non di conservarsi con una sterile ricreazione quella bestia che è diventato col lavoro fisico».

Esterrefatto, mi sono chiesto da dove don Milani avesse potuto cavare una simile scempiaggine, che il lavoro manuale rende l’uomo una bestia

 

Esterrefatto, mi sono chiesto da dove don Milani avesse potuto cavare una simile scempiaggine, che il lavoro manuale rende l’uomo una bestia.

 

Nella mia vita ho fatto un po’ di tutto e frequentato gente di ogni ceto: in gioventù ho qualche volta, momenti felici, partecipato a mietiture e vendemmie; conservo anche il ricordo di una settimana come manovale presso un parente muratore, lavoro durissimo che servì a pagarmi una vacanza; come operaio, poi, ho lavorato per mesi. Eppure mai, dico mai, ho visto uomini disumanizzarsi a causa del lavoro manuale. Anzi, ad essere sinceri devo dire che impressioni di tal genere mi sono sorte a volte osservando impiegati addetti a mansioni parecchio ripetitive.

 

La stolida idea quindi non può essere nata in don Milani da cose viste o provate; con tutta probabilità l’ha semplicemente assorbita in famiglia, col latte materno per così dire

La stolida idea quindi non può essere nata in don Milani da cose viste o provate; con tutta probabilità l’ha semplicemente assorbita in famiglia, col latte materno per così dire (…)

 

È noto che il parroco di Barbiana nacque in una famiglia borghese, ma andrebbe aggiunto «piccolo»: non a caso i Milani Comparetti abitavano in via Masaccio, una delle strade più pissere di Firenze. Era quello un ceto socialmente insicuro (…) che con la denigrazione radicale e costante degli inferiori cercava in qualche modo di rafforzare una precarissima differènce (…).

 

Chesterton che così equilibratamente ci parla della «classe media», alla quale appartenevano i suoi, afferma che questa «non soltanto era nettamente distinta dalle classi cosiddette inferiori, ma si staccava con un taglio altrettanto netto da quelle cosiddette superiori».

 

Nella famiglia Milani questi «tagli netti» dovevano essere particolarmente drammatici. Se, come abbiamo visto, gli inferiori, i lavoratori manuali come i domestici, venivano considerati Untermenschen da proteggere, gli aristocratici erano odiati e caricaturizzati come parassiti senza cuore.

È noto che il parroco di Barbiana nacque in una famiglia borghese, ma andrebbe aggiunto «piccolo». Era quello un ceto socialmente insicuro  che con la denigrazione radicale e costante degli inferiori cercava in qualche modo di rafforzare una precarissima differènce

 

Ho scritto «era quello un ceto» perché lo  sviluppo capitalistico anche da noi ha quasi completamente eroso queste stratificazioni sociali. In Inghilterra evidentemente tale processo avvenne prima, se Chesterton dichiarava estinta la classe media già negli anni ’30, quando scriveva la sua autobiografia.

 

Così le classi, ultima forma residuale della società castale, se ne stanno andando e questo è insieme un bene e un male. Un bene perché la loro scomparsa testimonia la forza dell’idea cristiana di società e la verità della comune natura degli uomini; un male perché si tratta di una forma che vediamo scomparire senza che si scorga all’orizzonte niente che la vada a sostituire, lasciando così campo libero ai sempre più pervasivi meccanismi economici ed al conseguente avanzare del deserto dell’anonimia sociale.

 

Transeunte e obsoleta quanto si vuole, quella delle classi era infatti pur sempre una modalità del legame sociale; modalità che, come testimonia il gustoso brano di Wodehouse, interpretava a suo modo sia momenti universali e perenni dell’anima umana sia l’altra grande verità sugli uomini: che abbiamo sì una natura comune, ma siamo al contempo differenti uno dall’altro e questa differenza non possiamo fare a meno di rappresentarla.

 

 

Stefano Borselli

 

 

Articolo previamente apparso con il titolo «Don Milani sulla linea del sale» su Il Covile n°170.

 

 

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