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COVID, come si salva una RSA. Intervista al dott. Romano D’Alessandro

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Mentre l’emergenza COVID-19 investiva il nostro Paese mandando al collasso parte del sistema ospedaliero a causa dell’elevato numero di ricoveri, in particolare di quei pazienti infetti ricoverati nei reparti di terapia intensiva e rianimazione, i focolai di SARS-CoV-2 divampavano nelle RSA e più in generale in tutte le case residenza per anziani. 

 

La percentuale di contagi all’interno di esse, anche su scala nazionale, è altissima.

 

Riguardo ai decessi la situazione è, come sappiamo, ancora più drammatica: l’Istituto superiore di sanità ha recentemente reso pubblico il terzo rapporto sul contagio da Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie in Italia: in tutto, dal 1º febbraio al 18 aprile, sono stati contati 6.773 decessi, di cui il 40% riconducibili al Covid-19. I numeri, come abbiamo già più volte detto, potrebbero persino non essere quelli reali perché per molti dei decessi non si è avuta la conferma di tampone positivo.

 

Qualche realtà, però, si è salvata grazie ad un grande lavoro di prevenzione messo in atto da professionisti decisi a dare il massimo per la tutela dei propri ospiti e del personale dipendente. 

 

Qualche realtà si è salvata grazie ad un grande lavoro di prevenzione messo in atto da professionisti decisi a dare il massimo per la tutela dei propri ospiti e del personale dipendente. 

Una di queste, una vera e propria mosca bianca, è la struttura per anziani «Il Giardino» di Bagnolo in Piano, provincia di Reggio Emilia, facente parte del gruppo anniazzurri e sotto la direzione dell’Azienda lombarda Kos Care. 

 

Renovatio 21 ha diffusamente parlato di quanto sta accadendo all’interno di questa CRA con il dottor Romano D’Alessandro, coordinatore infermieriestico della struttura nonché RAS (Responsabile attività sanitaria), che insieme al medico della struttura, il dottor Francesco Testa, alla direttrice Daniela Zaccarelli e a tutti i colleghi ha gestito e continua a gestire questo difficile momento.

 

Dott. D’Alessandro, qual è la situazione nella vostra struttura ad oggi?

Ad oggi, su 61 ospiti residenti all’interno della nostra struttura, non si registra alcun caso di contagio o di sospetto tale. 

 

Potremmo quindi dire che siete una delle poche strutture  ad aver tenuto fuori il COVID-19?

Per fortuna nostra sì. Certo dispiace sapere di così tanti contagi in tantissime altre strutture anche nella nostra provincia. La guardia però non va mai abbassata, nemmeno quando si è fatto tutto il possibile. Il nemico contro il quale combattiamo, oltre che invisibile, è davvero molto insidioso.

 

«Ad oggi, su 61 ospiti residenti all’interno della nostra struttura, non si registra alcun caso di contagio o di sospetto tale»

Quali strategie di prevenzione avete messo in atto e da quando esattamente?

Ricordo che le prime indicazioni dalla direzione generale arrivarono esattamente il 24 febbraio ed esse ci indicavano, da quel preciso momento, l’utilizzo obbligatorio per tutti i dipendenti (anche il personale amministrativo, compreso il centralinista) di mascherina chirurgica e guanti, nessuno escluso.

 

Il 28 febbraio è arrivato il protocollo-procedura ufficiale che metteva fine ad ogni tipo di ingresso, sia ingressi di nuovi pazienti provenienti da ospedale o dal domicilio, sia ingresso inteso come visite di familiari o fornitori — i quali hanno continuato ovviamente a rifornirci non entrando però mai personalmente in struttura ma depositando la merce all’esterno, ritirata e poi sistemata dal personale interno.

 

Le visite dei nostri ospiti sono state ridotte alle sole visite urgenti, dopo le quali, l’ospite che rientrava dall’ospedale, veniva ospitato in apposite camere di isolamento per 15 giorni. Anche le trasfusioni sono state sospese, e ci siamo attrezzati prontamente per farle all’interno della struttura.

 

«Le visite dei nostri ospiti sono state ridotte alle sole visite urgenti, dopo le quali, l’ospite che rientrava dall’ospedale, veniva ospitato in apposite camere di isolamento per 15 giorni»

Dal 3 marzo abbiamo iniziato a misurare la temperatura corporea a tutti gli operatori con termometro frontale a laser, molto costoso e difficile da trovare, ma alla fine non ci siamo arresi e siamo riusciti a procurarcelo. In questo senso, l’infermiere che smonta dal turno notturno aspetta la responsabile di reparto — la prima ad arrivare — all’ingresso, misurandole la temperatura.

 

La responsabile, a sua volta, attende tutti gli operatori del mattino e ad uno ad uno misura la TC. In egual modo avviene per i turni del pomeriggio e della notte, con un dipendente dedicato al rilievo della temperatura per i colleghi che entrano in turno.

 

Sempre all’ingresso, dopo aver rilevato la TC, vengono consegnati mascherina e guanti prima di poter accedere agli spogliatoi per indossare la divisa, firmando anche in questo caso un foglio volto ad attestare di aver ricevuto questi due dispostivi di protezione individuale all’ingresso. I guanti, ovviamente, saranno poi cambiati in reparto dopo ogni manovra, previo essersi lavati e disinfettati accuratamente le mani.

 

Non solo i guanti, ma tutti i DPI vengono cambiati continuamente, utilizzando anche tre camici monouso per volta, cioè uno sopra all’altro. Abbiamo poi distanziato il più possibile tutti gli ospiti sfruttando totalmente gli spazi interni. 

«Avere una direzione lombarda in questo senso ci ha aiutati molto, perché lì erano già preparati a far fronte a questo tipo di emergenza, pur con tutte le difficoltà»

 

Quindi siete partiti largamente in anticipo, anche rispetto all’emergenza inerente alle residenze per anziani, giusto? 

Siamo sicuramente partiti prima di molte altre strutture grazie ad un protocollo sanitario aziendale interno al quale, come dicevo, ci siamo rigorosamente attenuti. Credo fosse indispensabile partire con grande anticipo senza sottovalutare nulla ma facendo, piuttosto, tutto ciò che di possibile si poteva fare per prevenire il contagio. Avere una direzione lombarda in questo senso ci ha aiutati molto, perché lì erano già preparati a far fronte a questo tipo di emergenza, pur con tutte le difficoltà.

 

Siete riusciti a sottoporre i vostri ospiti al tampone naso-faringeo?

Guardi, in realtà abbiamo avanzato domanda alla ASL già parecchio tempo fa, addirittura facendo richiesta di poter procedere privatamente attraverso un laboratorio privato. Non abbiamo però ancora ricevuto risposta.

 

Come mai secondo lei?

Non ne ho idea, ma potrei supporre che non avendo all’interno della nostra struttura casi sospetti ed essendo già chiusi a tutto, come spiegavo poc’anzi, da tantissimo tempo, l’urgenza dei tamponi da noi secondo l’ASL passi in secondo piano. 

 

«Noi avevamo una scorta di 1000 camici e 600 mascherine già da prima che scoppiasse l’epidemia, oltre ovviamente ai guanti e agli occhiali»

Parliamo dei tanto discussi dispostivi di protezione individuale: come ve li siete procurati e con quanto anticipo? 

Noi avevamo una scorta di 1000 camici e 600 mascherine già da prima che scoppiasse l’epidemia, oltre ovviamente ai guanti e agli occhiali. Poi dai primi di marzo ci siamo procurati altre 2000 mascherine chirurgiche per permetterne un ricambio costante ai nostri operatori. Nel mentre, per sicurezza, ci siamo procurati anche i tutoni idrorepellenti a alcune mascherine FFP2.

 

Certo trovare DPI in questo periodo non è stato affatto facile, ma partendo con largo anticipo e sondando le varie possibilità ci siamo riusciti.

 

A quali direttive avete fatto riferimento per proteggere la vostra struttura e i vostri ospiti?

Sempre e comunque al nostro protocollo sanitario aziendale interno, che a sua volta è stato specificamente redatto seguendo direttive ministeriali, dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Tecnico Scientifico.

 

Il personale sanitario della vostra struttura è stato formato, come richiesto da alcuni rapporti redatti dall’Istituto Superiore di Sanità, per far fronte all’emergenza Covid?

Assolutamente sì. E non solo il personale sanitario ma tutti i dipendenti, anche il personale addetto alle pulizie e alla cucina. 

 

«Ogni due settimane abbiamo continuato a ripetere, con le stesse modalità anti-assembramento e sempre ponendo l’attenzione sulle richieste degli operatori, gli incontri formativi»

In che modo?

Sempre i primi giorni di marzo la nostra azienda ci ha chiesto di formare una équipe multidisciplinare interna alla struttura dedicata alla formazione del personale sull’emergenza nCoV, fornendoci la documentazione necessaria. Come prima cosa, circa a metà marzo, abbiamo fissato un incontro formativo dividendo il personale in due gruppi per non creare assembramenti e potendo così garantire le distanze sociali fra i dipendenti.

 

Abbiamo dedicato mezza giornata a questo primo incontro formativo, dove si sono anzitutto ascoltate e raccolte le paure, i dubbi e le richieste dei dipendenti. Poi l’incontro è proseguito con una spiegazione generale rispetto all’infezione SARS-CoV-2 — cos’è, come si trasmette, quali complicanze può creare e via discorrendo. 

 

Ogni due settimane abbiamo continuato a ripetere, con le stesse modalità anti-assembramento e sempre ponendo l’attenzione sulle richieste degli operatori, gli incontri formativi. Alcuni di essi sono poi stati dedicati alla formazione sulle corrette pratiche di vestizione e spoliazione, inclusa la modalità corretta per apporre sul volto la mascherina FFP2.

 

Ad ogni operatore poi, di tanto in tanto, venivano consegnati alcuni fascicoli di approfondimento redatti dalla nostra direzione sanitaria, così come alcuni documenti aggiornati dei vari comitati scientifici. Dopo averlo ricevuto, ogni operatore era tenuto firmare un foglio che confermasse la ricezione del proprio personale fascicolo o documento. Inoltre la nostra azienda, attraverso una piattaforma internet, ha reso obbligatori a tutti gli operatori sanitari due corsi di formazione sulla prevenzione e sulla gestione dell’emergenza COVID. 

 

«Oggi, a distanza di oramai due mesi, nelle telefonate con i familiari riceviamo ogni tipo di ringraziamento per aver fatto una scelta così coraggiosa, che certo è costata tanto sul piano emotivo, ma i parenti hanno capito che l’importante era preservare la salute dei propri cari»

Come hanno reagito i vostri ospiti alla chiusura della struttura e comunque ad un cambio così drastico della loro quotidianità?

Ovviamente per alcuni di loro è stato un evento traumatico, quantomeno inizialmente. Non è stato facile fargli comprendere che, per il loro bene, non avrebbero potuto incontrare i propri familiari per diverso tempo. Nondimeno hanno anche subito l’impossibilità di alcune particolari abitudini, come il poter andare dalla parrucchiera o dalla podologia — servizi che la nostra struttura garantisce internamente. Tutto questo è pesato molto a loro come a noi, ma alla fine pian piano hanno capito la situazione e le circostanze straordinarie alle quali eravamo tenuti a rispondere con serietà e prontezza.

 

E i familiari? 

Anche per loro non è stato facile accettare una decisione così preventiva. In molti, soprattutto dopo il 28 febbraio, data in cui abbiamo bloccato totalmente l’ingresso ai visitatori, ci hanno chiamato chiedendoci spiegazioni nel merito di una decisione che a loro appariva, comprensibilmente, molto rigida.

 

Io e il nostro medico direttore sanitario abbiamo deciso di avvisare personalmente tutti i parenti, fornendo le  informazioni necessarie che hanno motivato la scelta della nostra struttura. Oggi, a distanza di oramai due mesi, nelle telefonate con i familiari riceviamo ogni tipo di ringraziamento per aver fatto una scelta così coraggiosa, che certo è costata tanto sul piano emotivo, ma i parenti hanno capito che l’importante era preservare la salute dei propri cari.

 

E per ora — e speriamo per sempre — così è stato e ce ne hanno dato atto.

 

Visto il risultato, quindi, pensa sia valsa la pena adottare le rigide ed impegnative misure da voi messe in atto? 

Certamente. Come ho già detto il prezzo da pagare è stato sicuramente alto sul piano emotivo, ma guardando al risultato posso fermamente dire che ne è valsa la pena.

 

«Il prezzo da pagare è stato sicuramente alto sul piano emotivo, ma guardando al risultato posso fermamente dire che ne è valsa la pena»

Per quanto andrete avanti così? Piano piano allenterete qualche misura o è ancora troppo presto? 

È ancora troppo presto per ogni tipo di decisione o qualsivoglia allentamento delle misure preventive. Non dimentichiamoci che siamo ancora in piena pandemia, e che anche dopo il lockdown nazionale il 44% dei contagi ha avuto luogo all’interno residenze per anziani. Non si può in alcun modo allentare la presa. Continuerà il blocco degli ingressi fino a data da destinarsi, e anche dopo una recente videoconferenza di tre ore con i vertici sanitari della nostra azienda non ci sono state date direttive in merito ad eventuali cambiamenti.

 

Quale crede sia stato l’antidoto che ha salvato fino ad ora la vostra struttura?

Abbiamo una direzione sanitaria veramente preparata, decisa e competente. Allo stesso non posso mancare di fare i più doverosi complimenti e ringraziamenti a tutti gli operatori: medici, infermieri, operatori socio-sanitari, amministrazione, addetti alle pulizie e alla cucina, nonché a tutti i parenti dei nostri ospiti che hanno risposto in noi piena fiducia. A tutti loro va un sentito grazie con un monito, però: questa guerra non è ancora finita, dobbiamo continuare con massima serietà, professionalità ed attenzione il nostro lavoro perché la pandemia è tutt’altro che finita.

 

 

Cristiano Lugli

 

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