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COVID-19, nuovi studi confermano che chi non ha più sintomi non contagia

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Il 19 maggio scorso il sito Bloomerg dava una notizia molto interessante citando le fonti di uno studio eseguito dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (KCDC) della Corea del Sud: il virus presente nel corpo di pazienti clinicamente guariti dal COVID-19 non sarebbe più infettivo nonostante la prolungata positività al tampone oro-nasofaringeo. Ovvero i guariti che rimangono positivi non contagerebbero più.

 

Sono stati testati 285 pazienti risultati ancora positivi al nCoV dopo la scomparsa dei sintomi. Da questi test è emerso che i 100 campioni di virus raccolti per l’esame non hanno potuto essere coltivati in vitro, segno che le particelle di virus non erano più infettive, ma anzi forse addirittura morte. 

Secondo uno studio eseguito dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (KCDC) della Corea del Sud il virus presente nel corpo di pazienti clinicamente guariti dal COVID-19 non sarebbe più infettivo nonostante la prolungata positività al tampone oro-nasofaringeo. Ovvero i guariti che rimangono positivi non contagerebbero più

 

I soggetti guariti parrebbero quindi essere protetti — seppur per un tempo non ancora calcolabile od ipotizzabile — da eventuali recidive, nonché considerabili  non pericolosi per le altre persone. 

 

Proprio a seguito dei risultati di questo studio, le autorità della Corea del Sud hanno deciso di rivedere i protocolli: le persone non saranno più tenute a fare un tampone — o addirittura doppio tampone come accade oggi in Italia — prima di poter rientrare al lavoro o a scuola dopo essersi ripresi dalla malattia e aver completato il periodo di isolamento di almeno 14 giorni. 

 

A sostegno dello studio coreano ora arriva anche un documento di ricerca congiunto attraverso gli studi del National Center for Infectious Diseases e dell’Accademia di Medicina di Singapore, secondo il quale i pazienti con malattia COVID-19 non sarebbero più infettivi dopo 11 giorni di sintomatologia, anche se alcuni potrebbero ancora risultare positivi al tampone.

 

Un test positivo «non equivale a contagiosità o virus vitale», affermano gli esperti nel documento. 

 

I soggetti guariti parrebbero quindi essere protetti — seppur per un tempo non ancora calcolabile od ipotizzabile — da eventuali recidive, nonché considerabili  non pericolosi per le altre persone

Il virus «non può essere isolato o coltivato dopo l’11º giorno della malattia», si legge nel documento basato su uno studio locale condotto su 73 pazienti.

 

Nello stesso testo viene citato anche un piccolo studio condotto in Germania, il quale giunge alla conclusione che nessun virus prelevato da pazienti all’8º giorno di malattia è risultato attivo nonostante le alte cariche virali rilevate dal normale tampone che indicava i pazienti sempre come positivi. Nel caso della ricerca di Singapore si indicano 11 giorni come grado di infettività massima.

 

«Questi dati molecolari interpretati insieme ai dati epidemiologici indicano che l’infettività inizia poco prima e con l’insorgenza dei sintomi – scrivono gli autori dello studio condotto a Singapore – e diminuisce rapidamente entro la fine della prima settimana di malattia. Questi risultati sono in linea con le prove disponibili che indicano che l’RNA virale può essere rilevabile per circa 2-4 settimane dall’esordio della malattia con il tampone, l’infettività (la carica virale che determina la contagiosità del virus) diminuisce dopo 7-10 giorni fino a scomparire. Dati questi risultati, le risorse possono concentrarsi sul testare persone con sintomi respiratori acuti e sospetti, consentendo un intervento più tempestivo sulla salute pubblica».

Secondo uno studio di Singapore i pazienti con malattia COVID-19 non sarebbero più infettivi dopo 11 giorni di sintomatologia, anche se alcuni potrebbero ancora risultare positivi al tampone

 

«La replicazione virale attiva — si legge ancora fra le conclusioni del documento —  diminuisce rapidamente dopo la prima settimana e il virus vitale non è stato trovato dopo la seconda settimana di malattia, nonostante la persistenza del rilevamento di RNA da PCR [metodica molecolare di reazione a catena della polimerasi, NdR]».

 

Per questo motivo anche il Ministero della Salute di Singapore, dopo la scelta delle autorità coreane, ha comunicato che valuterà se le ultime evidenze potranno già essere sufficienti per cambiare qualcosa rispetto agli attuali protocolli di gestione clinica dei pazienti, dopo molto tempo senza sintomi ancora positivi ai test.  

 

Uno studio tedesco giunge alla conclusione che nessun virus prelevato da pazienti all’8º giorno di malattia è risultato attivo nonostante le alte cariche virali rilevate dal normale tampone che indicava i pazienti sempre come positivi

Nel nostro Paese, se non si è mai fatto un tampone si può uscire di casa dopo 14 giorni con relativa tranquillità — tranquillità che dopo gli studi condotti in Corea del Sud e a Singapore conferma ancor più la validità e l’efficacia dei 14 giorni di quarantena previsti —; se invece in precedenza si è risultati positivi ad un tampone, per legge bisogna aspettare due tamponi negativi di seguito anche se potrebbero volerci settimane — se non mesi — a causa del fatto che in non pochi casi tracce del virus sono ancora rilevabili nel corpo per un lungo periodo pur non risultando infettive.

 

L’assurdità estrema si palesa quando molti soggetti positivi risultano negativi al primo tampone di controllo (dopo aver trascorso la malattia) e positivi al secondo, creando un circolo vizioso che, oltre a potersi ripetere più di una volta, genera un senso di angoscia e una frustrazione capace di lasciare segni indelebili nella psiche delle persone che non vedono una via d’uscita.

In Italia sarebbe ora di approfondire la questione attraverso studi seri e liberi per rivedere eventualmente i protocolli che ad oggi «imprigionano» ancora troppe persone fra le mure domestiche dopo 30 giorni senza sintomi, generando depressione, molto più contagiosa del virus oltre che pericolosa per sé e per gli altri

 

A queste persone non si potrebbe ad esempio concedere un paio di ore d’aria quotidiana al giorno per farsi una camminata in solitaria o un giro in macchina, magari con autocertificazione che attesti tutto insieme al divieto eventuale di entrare in contatto stretto o diretto con altre persone o con luoghi affollati? Non sarebbe questa un giusto allentamento della morsa che tiene tanti soggetti intrappolati fra le grinfie dell’igiene pubblica?   

 

Forse anche in Italia sarebbe ora di approfondire la questione attraverso studi seri e liberi, per rivedere eventualmente i protocolli che ad oggi «imprigionano» ancora troppe persone fra le mure domestiche dopo 30 giorni senza sintomi o addirittura non avendone mai avuti (soggetti asintomatici), in luoghi non a rischio focolaio e con un valore Rt bassissimo, generando depressione, molto più contagiosa del virus oltre che pericolosa per sé e per gli altri.

 

Cristiano Lugli 

 

 

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