Pensiero
Il solito sogno premonitore
Queste sono le parole di uno che racconta di cose che ha visto dormendo. Quindi, se non vi piacciono le cose private, o se avete problemi con il linguaggio opaco illogico della vita onirica andate via. Ammesso che i sogni abbiano un linguaggio. Non credo a Freud da decenni, di Jung forse ho ancora meno fiducia.
Un sogno e suoi effetti sulla vita reale, perfino sull’universo fisico che va al di là delle possibilità delle persone, sono, lo ammetto, cose risibili. Al massimo si può tentare di nobilitare l’argomento con i versi scespiriani, pallosi quanto incontrovertibili, de La Tempesta: «Siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita».
Nella mia breve vita capita di fare ciclicamente sogni poderosi. Capita tre o quattro volte l’anno di avere di notte visioni che poi non vengono lavate via al mattino. Non succede spesso, e accade in prossimità di piccoli e grandi traumi ed eventi, tanto che posso ricordare taluni sogni di decenni fa. Alcuni sono stati annotati in alcune lettere andate perse.
Poche settimane fa, prima che iniziasse il disastro della quarantena pandemica, un sogno sofisticato e terribile
Questi grandi sogni sono interconnessi, quantomeno da una topografia onirica: la piantina del mio mondo notturno è sempre la stessa. Essa non coincide in alcun modo con la realtà, ma ritorna sempre uguale nel mondo sognante. Dal binario 1 di Victoria Station, a Londra, parte un treno sotterraneo che porta a Francoforte e a Milano; alcune case della mia vita possiedono stanze nascoste; esistono paesini veneti sconosciuti che si raggiungono da certi bivi di strade in pianura; si arriva in moto sino in Afghanistan passando per la Grecia (e ci si impiega poco tempo, ma le stradine fra le selve montane di Pakistan e Kirghizistan sono strette e ripide); ci sono radure segrete nei boschi sui colli, e pietraie sull’Himalaya dove svolazzano gli avvoltoi (alcuni di questi luoghi, tuttavia, avrei scoperto esistevano davvero, ma questo è un discorso che complica tutto, è una confessione per un altro giro).
Alcuni di questi sogni possono talvolta acquisire l’etichetta di «sogni premonitori». Succede spesso riguardo ai guai degli altri. Sognate qualcosa di brutto riguardo ad un conoscente, e poi scoprite che la persona se la sta passando male.
In molti possono dire di aver avuto esperienze simili; il censore interiore con bollino CICAP vi impone di pensare che si tratti di qualcosa di naturale, perfettamente spiegabile da un qualsiasi pasdaran dell’universo come fenomeno di mediocrità assoluta: state solo dando significato a qualcosa di senza senso, oppure state rielaborando in sede inconscia la preoccupazione per qualcuno. Accettiamo pure spiegazioni così, ad uso degli impiegati di quel Normalismo di Massa ormai prossimo a divenire Religione di Stato.
È che alcuni dei miei «sogni premonitori» riguardano in genere attività di polizia nei confronti di persone che conosco. Quando faccio un sogno del genere, di solito capita di sapere di lì a poco che qualcuno sta passando qualche guaio – niente di preoccupante, perché io sono decisamente la persona più pericolosa della mia cerchia di conoscenze, tuttavia qualcosa che ha a che fare sempre con la Legge.
Erano mia moglie e mio figlio. Era una famiglia, era la mia. Era la mia famiglia, ma di quella versione di me che non aveva pensato di ribellarsi a quel sistema fatto di soldati prepotenti e di bontà imprigionata
Potete non crederci, non ci credo neanche io probabilmente, tuttavia – ora più che mai – non me ne frega niente di quello che pensate. Altrimenti non vi starei scrivendo.
Succede quindi che poche settimane fa, prima che iniziasse il disastro della quarantena pandemica, mi arrivasse in visione notturna questo sogno sofisticato e terribile.
La prima scena del sogno si svolgeva in un albergo sul mare, dove ero capitato, sapevo, quando molte cose si erano già compiute, e il disordine si era dipanato prima del mio arrivo. Il palazzo era molto alto, e svettava su un’insenatura con spiaggia di roccia, e tutt’intorno c’era il buio totale, forse una boscaglia estesa, da cui non usciva nessuna luce. Questo panorama emerge forse dalla crasi di luoghi effettivamente veduti in Istria e in Giappone, sia pur con varie licenze poetiche: tuttavia la cosa ora non ha importanza.
Ero in questo albergo con una ragazza, che era lì da tempo oramai; la ragazza in questione non esiste nella realtà fisica, ma in quella del sogno la conoscevo da sempre, e il mio rapporto con lei era definito, inamovibile: dovevo proteggerla.
La ragazza era gioviale e sbarazzina, godeva di una libertà sconosciuta ai più, e forse proprio questo, nella trama del mondo in cui ero capitato, era particolarmente importante. Qualcosa in lei mi ricordava una ragazza francese che non vedo da vent’anni, si era presa dalla vita questa libertà che le conferiva una incontestabile purezza, anche se probabilmente era proprio quel tipo di persone che riesce a mettersi nei guai. Ricordo di averlo pensato nella vita reale quando, una notte in riva ad un lago alpino ere geologiche fa, guardavo C. meravigliarsi di come la luna corresse lungo la cima delle montagne con il passare delle ore.
In questo sogno il mondo era talmente fottuto che non avrei potuto fidarmi nemmeno di me stesso. Non di qualcuno che non capiva la gravità del momento che l’umanità sta vivendo.
La ragazza del sogno, che era più alta ma con degli occhi azzurri simili alla mia perduta amica francese, era in questo albergo e, a causa di questa sua inspiegata centralità per il potere malvagio che governava quel mondo onirico, era piantonata da truppe su truppe di commando in tenuta antisommossa.
Erano ovunque. Nei corridoi, sul tetto, alla reception. Il fatto che io, risaputamente legato a lei, potessi muovermi all’interno dell’edificio era una concessione che sconfinava nell’umiliazione: era come se mi dicessero, quando li trovavo in ascensore e sulla porta della stanza, «tanto noi siamo ovunque qui, comandiamo noi qui, il nostro controllo è totale, abbandonati a questo dispiegamento di forze, non puoi farci nulla».
Non sapevo del tutto il perché di quell’assedio alla povera ragazza, la quale tuttavia non si perdeva d’animo, anzi era rimasta come sempre spiritosa e genuina, fors’anche un po’ distaccata dalla gravità della situazione.
Non avevo il quadro della situazione, ma era chiaro che – per quel contratto relazionale inviolabile che avevo nel sogno con la ragazza, anche se era qualcuno che viveva fuori dalla mia vita – dovevo farla evadere. Dovevamo scappare. Io e Lei, in qualche modo, avremmo dovuto sfuggire alla pletora di nerboruti pretoriani, corazzati ed armati come i contractor americani visti nei reportage dall’Iraq e dall’Afghanistan. A loro e al potere di cui eseguivano gli ordini.
La verità profonda di questi giorni di caos: mi fido più dei miei sogni che del mio governo. Mi fido più dei miei sogni che delle storie degli scienziati dei giornali. Mi fido più dei miei sogni che degli organismi transnazionali. Mi fido di più dei miei sogni che dei miliardari che dicono di volermi salvare
Esposi l’unico piano possibile alla ragazza: avremmo dovuto saltare giù dal balcone direttamente in mare, anche se la sua stanza stava ad un piano molto alto. Lei si mise a ridere, e disse che probabilmente vi erano dei commando subacquei già pronti in profondità per questo caso. Mi sembrava una cosa improbabile, e la convinsi dicendole che io certo non ho mai avuto paura dei tuffi da grandi altezza, cosa peraltro vera, che nel sogno mi inorgogliva non poco.
Accettò. Raccolto quel poco ci potesse servire nelle nostre stanze, ci lanciammo dal balcone. Appena piombato in acqua mi resi conto che aveva ragione: c’erano dei sommozzatori armati a controllare le profondità. Si muovevano tuttavia lentamente, e con il classico stile rana sotto il pelo dell’acqua (perché da sopra avevano preso a suonare l’allarme, urlare e sparare) raggiungemmo la riva.
Qui in qualche modo le nostre strade si divisero. Ci accordammo per andare nelle nostre case a prendere quel che ci serviva per fuggire per sempre, perché oramai era chiaro che saremmo stati ricercati per il resto della nostra vita. Eravamo, in tutto e per tutto, dei fuggiaschi – anche se nella sua incoscienza, che talvolta mi dava fastidio, la ragazza non sembrava rendersene completamente conto, quasi ci fosse abituata.
Dovevamo fare in fretta: era chiaro che il primo posto dove sarebbero venuti a cercarci era la nostra abitazione. Così eccomi arrivare nottetempo a casa mia, entrare di soppiatto, e cercare in lavanderia qualcosa che potesse servirmi per quella che era la cesura totale della mia esistenza. Da quel momento in poi, la mia vita sarebbe totalmente cambiata, sarei stato per sempre un fuggitivo, anche se in cuor mio sapevo che il potere che voleva me e soprattutto la ragazza non poteva durare, perché violento e illegittimo. La mia vecchia vita era finita, sì – e non avevo idea di cosa potesse servirmi in quella nuova, fatta di ansia e fuga permanente.
Non sapevo, rovistando tra la lavatrice e l’essicatore, cosa stessi cercando in quella stanza semisotterranea della casa. Un’arma? Del danaro? Un qualche souvenir della mia vita precedente da portare con me? No, non ne avevo idea.
Fu mentre mi ponevo queste domande, che sentii il rumore di un’automobile entrare nel vialetto di casa. Schizzai nel buio del giardino, e dietro una siepe guardai chi era arrivato.
Provavo rabbia e stupore, perché con questa gente totalmente addomesticata, comprata nonostante la tragedia del mondo, io non potevo proprio restare. Avevo rinunciato alla vita, avevo rinunciato a me stesso, per portare avanti la battaglia
Qui vi fu visione più sconvolgente della mia vita: in quella macchina, illuminato dalla luce della portiera, c’ero io. Era un’altra versione di me, una versione di me che aveva continuato a vivere ed esistere al di fuori delle logiche delle ragazze pure da salvare, della sfida al potere militare. Quel che vedevo mi toglieva il fiato.
Non ero solo. In quella macchina c’era una donna, e un bambino piccolo biondo, che a macchina spenta era amabilmente montato sul cruscotto.
Erano mia moglie e mio figlio. Era una famiglia, era la mia. Era la mia famiglia, ma di quella versione di me che non aveva pensato di ribellarsi a quel sistema fatto di soldati prepotenti e di bontà imprigionata. Quella versione di me che non poteva permettersi, per il bene della bella ragazza sul sedile passeggero e del bellissimo bimbo che sorrideva sul cruscotto, di deviare in alcun modo dallo Stato delle Cose, dalla Legge oscura e tremenda che governava quell’universo di sogno.
La visione fu scioccante, e dopo lo sgomento dei primi attimi – non potevamo vedermi – chiusi gli occhi ed ebbi la rivelazione: il mondo era talmente fottuto che non avrei potuto fidarmi nemmeno di me stesso. Non di qualcuno che non capiva la gravità del momento che l’umanità sta vivendo. Era una verità triste e lucidissima, che dovevo accettare subito, lì, rannicchiato nelle tenebre.
Così, mi risolsi a scappare, e basta. Nel momento in cui stavo per raggiungere la rete da scavalcare, mi resi conto che erano arrivate silenziosamente tantissimi conoscenti, come se avessero ricevuto un segnale da me: erano persone che condividevano il mio pensiero sul sistema oramai malvagio e fallito, e volevano scappare con me. Scendevano veloci dalle loro auto parcheggiate nella strada buia, e mi raggiungevano sotto la rete.
Combattere significa esprimere il massimo sacrificio: la rinuncia di sé, la rinuncia di quanto hai di più caro. Combattere significa angoscia e determinazione. Combattere significa sacrificarsi sino a rendersi irriconoscibili
Passammo oltre, e poi ci sparpagliammo: ognuno per sé, era troppo rischioso stare insieme. Raggiunsi il bosco della collina dietro casa, e proseguii per la strada in salita. Non la ricordavo così lunga… e non ricordavo che fosse costellata di tutti questi paesini; c’era tuttavia una villa che conoscevo, dove ero entrato in altri sogni: nessuno mi apriva. I paesini collinari erano deserti, praticamente nessuno in giro, se non qualche anziano sempliciotto che si diceva molto soddisfatto di vivere in quel comune, perché vi avevano costruito «persino una teleferica».
Provavo rabbia e stupore, perché con questa gente totalmente addomesticata, comprata nonostante la tragedia del mondo, io non potevo proprio restare. Avevo rinunciato alla vita, avevo rinunciato a me stesso, per portare avanti la battaglia. Ora sentivo solo la pressione di un potere che mi stava cercando, e che forse aveva già trovato la ragazza che avevo salvato. Davanti a me vedevo solo un quadro indefinito nel tempo e nello spazio, una fuga senza meta e senza certezza.
Fine del sogno.
Qualche ora dopo, nel mondo reale, mi arrivò un messaggio: ad un’amica combattiva, latitudine Bibbiano, era arrivata una denuncia. «Tsss. Il solito sogno premonitore» mi dissi. Il solito sogno di scontro totale con le autorità che faccio in genere quando qualcuno che conosco si trova nelle peste.
Perché è un dogma innegabile, in tempo di pace come nell’ora buia dello scontro, del mondo in preda al Male: «Siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita»
Qualche giorno dopo ho cominciato a dare un’altra interpretazione.
Perché qualche giorno dopo non solo io, ma io con tutta l’umanità ci siamo risvegliati in un mondo semideserto con forze dell’ordine ovunque, dove la libertà – che tanto risaltava in quella ragazza da portare via – è stata sequestrata. Libertà di parola, libertà di movimento: il dissenso nel mio sogno poteva tradursi solo in una fuga, nella vita da clandestino, lontano da tutti coloro non siano in grado di capire la catastrofe dell’ora presente, dove un potere oscuro ti impone di sfidarlo.
Lontano da tutti. Lontano persino da me stesso e dalla mia famiglia – e quest’idea mi fa tremare anche ora che ne scrivo.
Combattere significa esprimere il massimo sacrificio: la rinuncia di sé, la rinuncia di quanto hai di più caro. Combattere significa angoscia e determinazione. Combattere significa sacrificarsi sino a rendersi irriconoscibili. Mi porto a casa queste lezioni da questo sogno speciale, e non sono nemmeno tutte, e probabile che non siano nemmeno quelle giuste.
Non mi interessa l’opinione del lettore, perché questo è proprio uno dei tanti significati che posso attribuire: non cercare riparo nel paesino deserto e felice, non cercare l’accordo nemmeno con chi ami. Ho dovuto vedere il mondo impazzire mentre è invaso da un organismo acellulare per accettare quest’idea.
Ho scritto per significare la verità profonda di questi giorni di caos: mi fido più dei miei sogni che del mio governo. Mi fido più dei miei sogni che delle storie degli scienziati dei giornali. Mi fido più dei miei sogni che degli organismi transnazionali. Mi fido di più dei miei sogni che dei miliardari che dicono di volermi salvare.
Restate in ascolto del vostro cuore: nelle sue notti c’è più verità che nei decreti di governo; nei suoi messaggi c’è tutto il futuro di cui abbiamo bisogno
Questo è quanto avevo in cuore di raccontare.
E no, non ho più un numero di telefono di C. per sapere come sta. Né so che fine ha fatto la ragazza del sogno. Riconosco che anche questa incertezza dolorosa è parte della saggezza guerriera che mi viene trasmessa.
Perché è un dogma innegabile, in tempo di pace come nell’ora buia dello scontro, del mondo in preda al Male: «Siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita».
Restate in ascolto del vostro cuore: nelle sue notti c’è più verità che nei decreti di governo; nei suoi messaggi c’è tutto il futuro di cui hanno bisogno le nostre vite.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Mosca bataclanizzata: qual è il messaggio?
Al momento in cui scrivo la conta dei morti del massacro di Mosca è di 60 morti e 140 feriti.
Abbiamo raccolto e mostrato qualche immagine agghiacciante: sì, un commando è entrato in un centro commerciale (su qualche canale ebete di Telegram avete letto che era un municipio: il traduttore automatico dei geni ha tradotto «Crocus City Hall» in «Municipio di Crocus», come se Crocus fosse un quartiere della capitale russa; gli ignoranti che seguite sui social fanno anche questo) con fucili automatici e hanno iniziato a sparare all’impazzata. Sono stati colpiti anche dei bambini, e due dodicenni sarebbero gravi.
È interessante notare quanto siano restii i nostri media a pronunziare, davanti allo schema perfettamente ripetuto, la parola che aveva inondato il discorso pubblico sul terrorismo quasi dieci anni fa: Bataclan.
Il disegno tecnico è il medesimo: colpire la popolazione comune, falciandola con armi a ripetizione e magari qualche bomba suicida o meno, nel momento di massimo svago e massima vulnerabilità – quando va a vedere un concerto. Sparare sulla gente quando è concentrata in un unico punto ed indifesa. Massacrare in maniera massiva per compiere il lavoro del terrorismo, e portare il suo messaggio.
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Mosca è stata bataclanizzata. I grandi media non vogliono dirvelo – perché significherebbe elevare il popolo russo a vittima, dopo due anni di campagna martellante per convincerci che la Russia è carnefice. E poi, soprattutto, nessuno ha voglia davvero di guardarci dentro: se il disegno è lo stesso del Bataclan, gli autori sono gli stessi? I mandanti pure?
Alla rivendicazione dell’ISIS, buttata subito in stampa da tante testate internazionali, non possiamo credere. Curioso, tuttavia, che l’ISIS possa voler colpire la Russia proprio ora, quando l’intervento in Siria è finito da anni…
L’Ucraina, per bocca di un ciarliero e molto visibile tizio consigliere di Zelens’kyj, Mikhailo Podolyak (quello che aveva insultato il papa e il cristianesimo) ha detto non siamo stati noi, mentre altri ucraini hanno ovviamente tirato fuori l’hastatoputin. Chiaramente, ci vogliono far credere, è un false-flag del Cremlino per scatenarsi, anzi, guarda, è la festa personale di Putin per aver vinto l’elezione con quasi il 90% dei voti. Come no. (in rete circolano meme divertenti con il passaporto di un terrorista miracolosamente, come al solito, ritrovato sul luogo del delitto: la foto è quella di un Putin barbuto)
Si tratta della più grande strage terrorista dai primi anni 2000. Qualcuno ricorderà i 130 morti (più quaranta terroristi) e i 700 meriti della crisi del Teatro Dubrovka, quando vennero sequestrati 850 civili da un gruppo di islamisti separatisti ceceni.
Dobbiamo capire che la vittoria sulla questione cecena – e sul terrorismo correlato – è stata la scala d’ingresso di Putin verso il Cremlino. La Cecenia era un disastro che poteva trascinare giù tutta la Russia: un alveare terrorista nel cuore del Paese, e allo stesso tempo un fattore di demoralizzazione devastante per la popolazione. Erano i primissimi tempi di internet, ma già circolavano i video, poi perfezionati da ISIS e compagni, di sgozzamenti di soldati e civili russi.
Putin fu colui che mise fine al pericolo. Da primo ministro ha vinto la Seconda Guerra Cecena, di fatto sottomettendo una fazione in lotta, quella di Kadyrov, il cui figlio ora al potere a Grozny manda i suoi soldati a combattere in Ucraina con adunate oceaniche negli stadi dove si grida «Allahu Akbar» e subito dopo «viva il presidente Putin».
La strage di Dubrovka non è stata la sola. Poco dopo, ci fu il massacro di Beslan, ancora più intollerabile nella volontà terrorista di colpire gli indifesi: il 1 settembre 2004 un gruppo di 32 fondamentalisti separatisti ceceni entrò in una scuola elementare e sequestrò 1200 persone, per maggior parte bimbi. Ricordate quell’immagine: una bomba pronta ad esplodere piazzata dentro il canestro della palestra, e i bambini sotto. Il conto, dopo che gli Spetsnats (le forze speciali russe) liberarono la scuola, fu di oltre trecento morti, di cui 186 bambini, e 700 feriti. Quasi tutta la scuola è stata ferita dal terrorismo.
Si tratta di traumi che i russi pensavano passati. Sono seguiti gli anni putiniani dove stipendi e pensioni sono saliti di 7, 15 volte. Dove il popolo russo, che dopo il 1991 aveva cominciato a perdere un milione di persone l’anno (alcol, disperazione) ha ritrovato la dignità, e, parola chiave per capire Putin e la Russia odierno, rispetto.
Il terrorismo, essenzialmente, è un linguaggio. Ogni atto terroristico ha un messaggio da portare al mondo – questo è quello che ci dicono, almeno. Sappiamo che il messaggio è, in genere, più di uno. C’è un messaggio di superficie, quello dei perpetratori: vogliamo l’indipendenza, vogliamo vendetta, vogliamo la shar’ia, vogliamo la fine dell’occupazione, cose così.
Poi c’è il messaggio profondo, quello dei veri mandanti, di cui non si può discutere, perché non si può saperne nulla.
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Le stragi dei primi 2000 avevano, come messaggio di superficie, la Cecenia: la terra dove Putin aveva riportato l’ordine, promettendo di inseguire i terroristi anche al cesso ed ucciderli lì, disse in una famosa dichiarazione.
Il messaggio profondo possiamo immaginare fosse un altro: lasciaci continuare a depredare la Russia. Il desiderio, profondo ed irrevocabile, dei veri mandanti, che non necessariamente stavano in russo.
I terroristi takfiri ceceni, si è detto, potevano aver legami con oligarchi nemici di Putin riparati all’estero. Era chiaro cosa volevano gli oligarchi ribelli: proseguire, anche per conto dei loro soci occidentali, la razzia resasi possibile con il crollo dell’Unione Sovietica nel decennio di Eltsin, come visibile, ad esempio, nel caso magnate del petrolio Mikhail Khodorkovskij, quello che Pierferdi Casini difendeva al Parlamento italiano, prima di essere imprigionato da Putin si diceva avesse trasferito le sue quote a Lord Nathaniel Jacob Rothschild, quello dei quadri satanici con Marina Abramovic spirato pochi giorni fa. Liberato dalla clemenza di Putin prima delle Olimpiadi 2014 (l’Occidente ringraziò organizzando poco dopo i Giochi di Sochi Piazza Maidan a Kiev), il Khodorkhovskijj ora è tornato a galla per la questione ucraine, i giornali lo definiscono «oppositore di Putin».
Vi sono tuttavia casi più evidenti. Rapporti tra terroristi ed oligarchi furono discussi per uno dei nemici più acerrimi di Putin, l’oligarca riparato a Londra Boris Berezovskij. Una trascrizione di una conversazione telefonica tra Berezovsky e il fondamentalista Movladi Udugov – attualmente uno degli ideologi e il principale propagandista del cosiddetto Emirato del Caucaso, un movimento militante panislamico che rifiuta l’idea di uno stato ceceno meramente indipendente a favore di uno stato islamico che comprenda la maggior parte del Caucaso settentrionale russo e si basi su principi islamici e sulla legge della shar’ia – fu trapelata su uno dei tabloid di Mosca il 10 settembre 1999. Udugov propose di iniziare la guerra del Daghestan per provocare la risposta russa, rovesciare il presidente ceceno Aslan Maskhadov e fondare la nuova repubblica islamica di che sarebbe stata amica della Russia pre-putiniana.
Dopo la Seconda Guerra Cecena, Berezovskij aveva mantenuto i rapporti con i signori della guerra islamisti. Nel 1997, nell’ambito di supposte attività di ricostruzione della Cecenia, fece una donazione di 1 milione di dollari (alcune fonti menzionano 2 milioni di dollari) per una fabbrica di cemento a Grozny. Per tale pagamento fu negli anni accusato di finanziare i terroristi ceceni.
Il 23 marzo 2013 Berezovskij, che bazzicava il World Economic Forum di Davos e aveva avuto un ruolo attivo nella rielezione di Eltsin nel 1996, fu trovato morto nel bagno nella sua villa nel Berkshire, vicino ad Ascot, luogo caro alla nobiltà britannica. Dissero dapprima che era depresso, perché aveva perso una causa con Roman Abramovic (ex patron del Chelsea, anche lui oligarca ebreo ultramiliardario che però si era sottomesso a Putin) e quindi aveva debiti; la polizia inglese invece disse che era una morte senza spiegazioni e volle lanciare un’inchiesta, ma non arrivò a nulla. Si dice prendesse farmaci antidepressivi, e un giorno prima di morire avrebbe detto ad un giornalista londinese che non aveva più niente per cui vivere.
Parlo della morte di Berezovskij perché all’epoca notai come potesse essere correlata ad una strage terrorista dall’altra parte del mondo: il 15 aprile dello stesso anno due bombe esplodono alla Maratona di Boston ammazzando tre persone e ferendone 250. Vengono accusati due fratelli ceceni, Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev. Emerse che loro zio, che i giornali dissero subito si era dissociato dalla deriva islamista dei nipoti, era stato sposato con la figlia di un agente CIA, con cui avrebbe pure convissuto.
Difficile capirci qualcosa: tuttavia, la domanda che mi feci, all’epoca, era: il messaggio profondo della strage bostoniana è che, morto Berezovskij, qualcuno stava chiedendo il riequilibrio di questa rete antirussa occulta che attraversa il mondo.
La mia era solo una supposizione. Di certezze sulle connessioni tra gli americani e gli islamisti ceceni, invece, ne ha Vladimir Putin.
In una sequenza di tensione rivelatrice del documentario che Oliver Stone ha dedicato a Putin – un’intervista di ore e ore tra il 2015 e il 2016 – il presidente russo dà una notizia piuttosto gigantesca: racconta che gli USA, trovati ad aver contatti con i terroristi ceceni, hanno risposto alle rimostranze del Cremlino dicendo che essi erano autorizzati diplomaticamente a parlare con chi volevano.
Putin era visibilmente scosso: la Cecenia, per lui che l’aveva vinta come prima missione della sua carriera ai vertici, significava tanto: il dolore di tanti morti, il rischio di far finire la Russia, ancora una volta, in una spirale di razzia e violenza, in pratica di farla sparire dalla storia.
Discorsi simili sono stati fatti poche settimane fa nell’intervista che Putin ha concesso a Tucker Carlson. Il presidente russo lo aveva ripetuto ai giornalisti anche l’anno scorso: «nel Caucaso l’Occidente sosteneva Al-Qaeda». Washington appoggia il terrorismo antirusso, in sintesi. Per gli italiani che si ricordano quando – al tempo non c’era la parola «complottista» – si parlava della Strategia della Tensione, non è una storia tanto campata in aria.
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E quindi, qual è il messaggio della strage terrorista al Crocus di ieri sera?
È lo stesso, crediamo, di quello di quando l’anno scorso hanno bombardato a Mosca Darja Dugina o a San Pietroburgo il blogger Vladen Tatarskij: vogliono ri-cecenizzare la Russia.
Vogliono riportare le lancette indietro a quegli anni, quando Mosca era debole, il popolo incerto ed impaurito, e le risorse del bicontinente libere per i rapaci internazionali. Quando c’era il terrorismo islamico, usato come solvente da un potere superiore per distruggere definitivamente ogni potere indipendente per la Russia e piegare nella paura la psiche del popolo russo.
Tutto questo è durato fino a Putin. I mandanti non hanno mai accettato di aver perso. E quindi, nell’ora del trionfo politico e popolare di Putin, ripetono il messaggio. Puoi anche vincere le elezioni, puoi anche avere l’affetto del tuo popolo: noi te lo possiamo portar via a suon di mitragliate terrorista. Puoi vincere la guerra ucraina, noi massacreremo le famiglie ai concerti a Mosca. Lo faremo con i ceceni, con gli ucraini, con i daghestani, con i nazisti russi, con chiunque potremo manovrare.
Ora, da temere, più che il messaggio, che è chiaro, è la risposta che darà Putin.
Perché, come è evidente, potrebbe essere l’innesco della Terza Guerra, che di fatto l’élite occidentale, brama affannosamente.
Roberto Dal Bosco
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Occulto
Feto trovato in uno stagno. Chi ce lo ha messo? E soprattutto: perché?
Leesburg è storica cittadina di 40 mila abitanti nello Stato americano della Virginia. Si trova vicino al fiume Potomac, quello che passa per la capitale Washington.
Leesburg è il capoluogo di contea della contea di Loudoun – praticamente omonima della piccolo paesino francese che nel Seicento fu teatro della possessione di massa delle suore di un convento, da cui il romanzo I diavoli di Loudun di Aldous Huxley – il luogo finito nelle cronache negli scorsi mesi per il clamore seguito alle presunte molestie sessuali subite da una ragazzina adolescente in un «bagno transgender» ad opera di uno studente transessuale. Lo scandalo si moltiplicò quando la repressione si abbattè sui genitori che protestavano negli incontri con i dirigenti della scuola, con il padre della giovane vittima arrestato dalla polizia durante un meeting.
Lo scorso 12 marzo il dipartimento di polizia locale della piccola città americana ha emanato un comunicato stampa agghiacciante.
Vi si dichiara che l’11 marzo, «il dipartimento di polizia di Leesburg è stato allertato intorno alle 16:33 da un membro della comunità che ha scoperto il corpo di un feto a termine nello stagno dietro Park Gate Drive, a Leesburg». L’espressione inglese usata per il bambino, «late term», indica un bambino nato tra 41 settimane e 0 giorni e 41 settimane e 6 giorni.
Il feto è stato trasportato all’ufficio del capo medico legale della Virginia per l’autopsia.
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«Questa è una situazione profondamente tragica», ha detto il capo della polizia di Leesburg, Thea Pirnat. «Esortiamo chiunque abbia informazioni a farsi avanti, non solo per il bene delle indagini, ma anche per garantire che a chi ne ha bisogno ricevano cure e servizi medici adeguati».
La polizia ha anche ricordato alla gente del luogo le risorse disponibili per le donne incinte, inclusa l’opzione per la consegna sicura e anonima dei neonati secondo le leggi Safe Haven della Virginia, con le quali i genitori possono consegnare il proprio bambino se ha 30 giorni o meno, insomma come si faceva un tempo con la ruota degli esposti.
«La legge fornisce protezione dalla responsabilità penale e civile in alcuni procedimenti penali e procedimenti civili per i genitori che consegnano in sicurezza i loro bambini», dichiara il dipartimento. «La legge consente a un genitore di rivendicare una difesa affermativa davanti all’accusa se l’accusa si basa esclusivamente sul fatto che il genitore ha lasciato il bambino in un luogo sicuro designato».
«L’indagine viene trattata con la massima serietà e sensibilità» afferma il dipartimento nel comunicato. Per il resto, vista la mancanza di aggiornamenti sul caso, possiamo forse usare la famosa espressione giornalistica: la polizia brancola nel buio.
La verità è che, con grande probabilità, non si farà molto per risalire a chi ha abbandonato al bambino – anche se, a pensarci, la genetica di consumo in voga negli USA, con cui si stanno prendendo serial killer che l’avevano fatta franca per decenni, potrebbe aiutare ad avvicinarsi quantomeno ai genitori del piccolo.
Il vescovo della diocesi di Arlington Michael F. Burbidge ha espresso «grande dolore» per la scoperta. «Esorto i fedeli della diocesi e tutte le persone di buona volontà ad unirsi a me nella preghiera per la madre del bambino e per chiunque sia coinvolto in questo incidente».
Il problema è che chiunque in questo caso parte con un’idea che, per quanto non dimostrata, è persistente: si tratta di un caso di degrado, un segno orrendo di disagio sociale, un effetto del livello di bassezza cui è sprofondata la società… Cose così. Inevitabile, a questo punto, che salti fuori anche quello che dice che con l’aborto si risolveva tutto. È il tema dell’antica canzone di Elio e le Storie Tese: Cassonetto differenziato per il frutto del peccato.
Eccerto, se il bambino veniva fatto a pezzi nel grembo materno, gli sarebbe stato risparmiato di finire in uno stagno. La minuta voce utilitarista dentro ogni cittadino sincero-democratico dice: così non soffriva. In verità, in tanti, specie se interessati al mantenimento dell’establishment, vorrebbero dire che, uccidendolo semplicemente prima grazie alle leggi feticide, ci risparmiavamo l’orrore, lo scandalo, i quindici minuti di destabilizzazione sociale conseguenti all’orripilante scoperta.
Crediamo che ci sia la possibilità che si sbaglino tutti: polizia, abortisti, vescovi, pro-life pregatori vari. Potrebbe essere che si stiano ponendo la domanda sbagliata. Potrebbe essere che stiano guardando al dito invece che alla luna. Perché su Renovatio 21 stiamo, da tempo, sviluppando l’idea che tali ritrovamenti, che avvengono di continuo in tante parti del mondo, non siano casuali, e nemmeno siano tutti scaturigini del degrado sociale della società odierna.
Abbiamo sotto gli occhi tanti strani casi italiani, di cui da tempo stiamo tentando di iniziare un censimento.
Per esempio, nell’aprile 2006 a Terlizzi (provincia di Bari), in un cimitero, trovano sotterrato maldestramente un feto di sesso maschile di tre mesi: il bambino è inserito in un barattolo di vetro.
Nel 2017 in provincia di Benevento, i carabinieri del comando provinciale trovano «un barattolo in vetro, con all’interno un oggetto dalle presunte fattezze di un feto umano» che sarebbe stata messa, anche qui, nel verde, «in un’area prospiciente il fiume Calore, seminascosto dietro un terrapieno». Poco dopo, rientra tutto: si trattava di «due guanti in tessuto, avvolti tra loro con dello spago che erano stati riempiti con una sostanza spugnosa» scrivono i giornali. Insomma, uno «stupido scherzo», dissero. Caso chiuso.
A metà novembre 2019, in uno spazio verde di Piazza Benfica, a Torino, un signore che porta a passeggio un cane si accorge che qualcuno aveva messo lì un contenitore con all’interno, visibile nel liquido trasparente di conservazione, un feto embrionale. Dal primo esame svolto all’epoca dei sanitari fu detto che il feto aveva tra le 10 e le 15 settimane. Mesi dopo il Pubblico Ministero chiederà l’archiviazione. I giornali dicono che «il giallo è risolto» perché il feto risalirebbe ad almeno vent’anni prima. Ciò ovviamente non spiega nulla, ma basta trasmettere al lettore sincero-democratico che va tutto bene. Circolare, niente da vedere qui.
Giugno 2023, Bassano del Grappa, provincia di Vicenza: in una zona di campagna i carabinieri, secondo quanto riportato, stavano conducendo un’operazione antidroga, andando a cercare luoghi dove gli spacciatori potrebbero nascondere gli stupefacenti. Durante il setaccio, dietro un cespuglio, gli agenti scoprono un barattolo, con dentro un essere umano grande quanto il palmo di una mano. Un feto di sei mesi, conservato in un liquido che probabilmente è formalina. I giornali locali parlano di «ipotesi di riti satanici», ma come sempre, l’eterna «pista del satanismo» va a sparire dopo pochi giorni, come tutta la storia.
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Poi giace da qualche parte, enorme e dimenticato, il caso di Granarolo. Febbraio 2022: un ragazzo che recupera ferro vecchio e altri materiali nelle industrie si reca presso un capannone per eseguire una raccolta. Gli viene detto di portare via anche dei bidoni gialli, sono una quarantina, tutti accatastati lungo un muro, tra altri rifiuti. Il suo compito sarebbe di «smaltirli da qualche parte». Lui ne apre uno: è pieno di un liquido di colore verde. Dentro vi galleggia un feto umano. Il ragazzo si spaventa. Filma la situazione, poi chiama la polizia. Sembra di capire, quindi, che di feti mica ce ne era solo uno: forse che tutti quei bidoni gialli contenevano feti? Da dove provenivano? Di chi erano figli? Cosa ci facevano lì… quanti erano?
Come avevamo predetto su queste colonne, anche questa storia di feti abbandonati sparisce immediatamente dai radar. Non ci è chiaro cosa abbiamo fatto le autorità, se una qualche ricostruzione è stata data: avevano detto che forse centravano musei e università, ma era davvero così? Qualche responsabilità è stata assegnata? Qualche indagine è stata conclusa? Stiamo cercando, ma sembra proprio che, come avevamo preconizzato, notizie sulla vicenda non sono state più date – nel disinteresse totale di curia, politici locali, ebetudine pro-life organizzata varia. Va così.
Ora, il pensiero che stiamo sviluppando è quello per cui tutti questi casi di feti «abbandonati» non siano effetti casuali del disagio sociale. Potrebbe essere, invece, parti di un disegno «religioso» con forme e dimensioni ancora sconosciute. I feti non sono lasciati lì per caso: sembrano, in molti di questi casi, disposti appositamente, secondo regole precise, forse geografiche, ambientali.
Ci aveva colpito, ad esempio, che in Italia i bambini imbarattolati venissero trovati per lo più nel verde, in mezzo al nulla: cespugli, aiuole, campagne, lungo argine. Un po’ come il feto di Leesburg, trovato non in una fogna, ma in un placido specchio d’acqua, tra i verdi giardini delle casette residenziali lì attorno.
Renovatio 21 aveva fatto delle ipotesi: la società post-cristiana è in realtà divenuta anche post-satanista, dove il satanismo non più legato a messe nere e formule magiche varie, ma innestata invece nel discorso dei «diritti umani», come il feticidio e i rapporti contronatura, ora divenuti legge dello Stato moderno. Il caso del Tempio di Satana, che vuole aprire cliniche abortiste in nome della libertà religiosa, costruisce altari satanici da piazzare a Natale nei Palazzi del potere e organizza festoni satanici con green pass e mascherina obbligatori, va in questa direzione.
Ma quindi, perché la disseminazione dei feti?
Abbiamo pensato che forse, la disposizione di questi feti potrebbe suggerire che li si voglia nascondere, come si fa con gli amuleti maledetti affinché persistano la loro funzione contro la vittima: sepolti nell’erba, occultati, ma presenti nella loro drammatica verità. Delle bandierine dell’universo post-satanista, delle «antenne» con la loro funzione: reliquie occulte, ripetitori del messaggio, dell’energia del Male.
Un feto a termine ucciso e impiantato nel territorio può volere dire: qui si fa l’aborto. E il fatto che nel caso della Virginia si trattasse di un bambino late term, potrebbe fare pensare qualcuno: nel grande paradosso del presente americano, la Corte Suprema elimina l’aborto come diritto federale mentre una parte della politica parla apertamente di late term abortion, cioè della possibilità di abortire fino al momento della nascita, o pure dopo.
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Se vuole essere un segnale politico per la situazione attuale, il bambino a termine ucciso nello stagno offre un messaggio chiarissimo. Continueremo, andremo avanti anche con l’età dei sacrificandi. Questa terra è nostra.
Non è sbagliato pensare che, in questo piano metafisico, vi sia chi all’aborto dedica riti occulti – perché esso è la porta ideale per il ritorno del sacrificio umano, l’inversione definitiva della religione divina, per cui non è più Dio che si sacrifica per l’uomo (come sulla Santa Croce, come nella Santa Messa), ma l’uomo che si sacrifica per gli dei dei pagani – i quali sono, come dice il Salmo, tutti demòni.
Il sacrificio umano è, per il momento, illegale, l’aborto no – ed ecco che quindi che essi devono proteggerlo ad ogni costo, attendendo che la fetta superiore del panino, l’eutanasia, scenda giù schiacciando noi in mezzo, fino a rendere l’intera popolazione sacrificabile in ogni momento. Fino a disintegrare una volta per tutte la dignità umana, e rendere la vita spendibile, sprecabile a piacimento. Fino al Regno Sociale di Satana.
Vorremmo andare oltre. Stiamo tentando di raccogliere materiale per farci un’idea sui continui casi dei feti nei cassonetti che funestavano in passato le cronache italiane. Forse non era esattamente come pensavamo. Forse anche lì si trattava di un messaggio, della disposizione di antenne oscure, della diffusione del segnale dell’Inferno.
Quando avremo tempo, ce ne occuperemo.
Nel frattempo, preghiamo il lettore: dai gruppi che vi parlano di difesa della vita, di lotta contro l’aborto – magari chiedendovi con automatica insistenza dei danari – state alla larga.
Con evidenza, non hanno capito nulla di quello che sta accadendo. La loro funzione, forse, è proprio quella di farci continuare a non comprendere forme e proporzioni di questa guerra occulta.
Roberto Dal Bosco
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Immagine su licenza Envato, rielaborata
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